Giuseppe Leuzzi
Ricorre nei film e in qualche racconto la
storia delle “buste” ai matrimoni, degli invitati che regalano agli sposi una
somma. Come un folklorismo, un esotismo. Ripreso tra il gioco e il disprezzo.
Ma è - era – l’uso del bar-mitzvah, la cerimonia della confermazione religiosa degli adolescenti ebrei. L’uso meridionale è derivato dall’uso ebraico?
“La noia è l’assenza di una città”, diceva Verlaine
in qualcuna delle lettere dall’esilio cui la madre lo aveva confinato, da una
zia in campagna. Non al Sud. Non, almeno, fino a qualche anno fa: la carenza di
spettacoli o altri diversivi urbani è – era – compensata dale parentela, dal
vicinato, dal calendario familiare e agricolo, e per i ragazzi dalla
stagionalità dei giochi, uno per ogni mese. La mancanza di conglomerati
metropolitani può – poteva – essere perfino benefica.
“Niente si fa per niente”, dicono le
montanare friulane nel film “Piccolo corpo”, e vogliono essere ricompensate,
dalla giovane mamma povera e sola che porta il cadaverino della figlia nata
morta in una scatola di legno a un “santuario del respiro” remoto su in montagna
- un racconto di derelizioni, povertà, fatica, fame, ignoranza, violenza,
seppure nella fede, opera di una regista triestina, Laura Samani. Una battuta
così al Sud sarebbe suonata stonata.
A Simenon occasionale cronista di nera nel
1933, “un pezzo grosso di Scotland Yard” spiega (“Dietro le quinte della
polizia”, p. 53) che la criminalità organizzata fiorisce perché è “protetta”
dalle leggi a “tutela della libertà individuale”. Così è negli Stati Uniti e nel
Regno Unito, e avverrà in Francia che nello stesso anno ha passato ai giudici
ogni indagine, anche un semplice perquisizione: “Con la vostra nuova legge
conoscerete anche in Francia il gangsterismo” (Simenon sottolinea). Mentre prima “la Francia aveva criminali che
lavoravano da soli – le bande organizzate erano rare, e timorose, perché la
legge consentiva una repressione repentina ed efficace”.
L’Italia è stata una nazione prima che uno
Stato. In Francia invece, per esempio, lo Stato precede di molto la nazione. Ma
l’effetto storico è incrociato: la Francia è una nazione salda, l’Italia una
debole, divisa, pericolante, al meglio burocratica (inefficace, incapace).
Lo Stato ha funzione costituente, anche del
sentito nazionale. Il ritardo dello Stato in Italia produce il leghismo
ricorrente. Ma è un problema soprattutto per il Sud: la questione meridionale è
la questione dello Stato – debole, incapace.
Il Parco
degli Ulivi
L’ulivo è dunque il mangiapolveri per
eccellenza. Almeno quello della Piana di Lucca. Uno “Studio per la Piana di
Lucca, 2021-2022”, della Fondazione Carilucca, su un’area maglia nera da molti
anni in Toscana per il PM10, il particolato atmosferico, insomma per
inquinamento dell’aria, individua un certo tipo di vegetazione come la più
adatta a “mangiarsi” le polveri: l’ulivo in prima posizione, con l’alloro,
l’oleandro, la magnolia e il lauroceraso. Questa la conclusione dello studio “Veg – Pm10 – Azioni
multidisciplinari e integrate per il monitoraggio e la riduzione del particolato
atmosferico nella piana lucchese”.
L’Airs, Agenzia Internazionale Ricerche sul
Cancro, denuncia l’inquinamento atmosferico nel Gruppo 1 delle sostanze
carcinogene per l’uomo. Come il più pericoloso. Gli alberi “pulitori” sarebbero
quindi da salvaguardare come patrimonio dell’umanità, terapeutico. La Piana di
Gioia Tauro, un’area da 30 per 40 km. di lato, il territorio di 31 Comuni, a
forte densità arborea, è un “mare di ulivi”, della specie di alto fusto e ampia
e folta chioma. Un paradiso naturale quindi per i residenti, e un polmone
importante per la Calabria e la finitima Sicilia. Perché non si penserebbe la
Piana di Gioia Tauro, che da troppo tempo si vuole centro di mafia, un parco
unico al mondo: naturalistico, produttivo, e terapeutico insieme? L’idea non è
balzana.
“Porto degli Ulivi” è oggi, in territorio
di Gioia Tauro anche se nel comune di Rizziconi, un centro commerciale,
ovviamente ripulito degli ulivi, per esigenze di accessi, parcheggi, megaempori. In
amministrazione fiduciaria perché sequestrato, o confiscato, per mafia. Se il
miracolo si è fatto per un centro commerciale ideato da mafiosi, perché un
Parco degli Ulivi non si saprebbe fare dagli onesti? L’area a più alta
intensità di produzione di olio d’oliva quale è oggi che diventa anche in parco
naturalistico d’attrazione – vivo e produttivo anche nella lunga estate, di
sei-sette mesi, che è la sua stagione morta.
Milano portata dal Sud
“Quello che oggi pensa
Milano, domani lo penserà l’Italia” non l’ha detto un milanese ma Salvemini. Lo
ha detto e scritto, licenziando la sua prima opera, “I partiti politici
milanesi nel secolo XIX”: “Le lotte amministrative milanesi non sono se non
episodi o meglio i prodromi delle lotte politiche italiane. Quello che oggi
pensa Milano, domani lo penserà l’Italia.”
Nel 1899, a 26 anni,
già collaboratore di “Critica Sociale”, il periodico del riformismo socialista,
può pubblicare questo studio. Anche dettagliato, di circa duecento pagine. Salvemini
visse tra Lodi e Milano per tre anni soltanto – nel 1901 ebbe la cattedra di
Storia Moderna all’università di Messina. Che però ricorderà come fra “i più
belli” della sua vita.
Salvemini, di Molfetta,
aveva studiato a Firenze, in particolare sintonia con Pasquale Villari. Si
interessò dapprima di Medio Evo, poi della Rivoluzione francese e del Risorgimento.
Suo interesse principale già nei suoi primi incarichi di insegnante, di Storia e
Geografia nel liceo Torricelli di Faenza per due anni, dal 1896, e al classico
di Lodi “Pietro Verri” dal 1898 – dopo un breve esperienza a Palermo, insegnate
di latino in una scuola media. Arrivava a Milano – a Lodi – già socialista, e
studioso ed estimatore di Cattaneo, nella variopinta (e non sempre concorde,
spiega nel suo saggio) politica milanese nei confronti dell’Austria.
Un secolo dopo un altro molfettese di grande qualità, Riccardo
Muti, che pure a Milano era cresciuto professionalmente e artisticamente,
veniva espulso dalla Scala, dal teatro cittadino. Dall’orchestra della Scala, ma
poi dal teatro nel suo insieme. Senza una ragione, non una argomentabile.
Come al maestro Muti così è capitato a molti. A sorpresa. A
tanti che sapevano tutto di Milano, anche la programmazione del Pasquirolo (era
un cinema), ma non l’essenziale. Il leghismo è stata una scoperta tardiva. Ancora
oggi uno fatica ad imputarlo a Milano, ma era la dottrina politica di Milano 1,
presto diffusa nel popolo milanese, non di un pazzerellone Bossi qualsiasi,
medico mancato e vagabondo.
La mafia non uccide
“Un assassino, si sa, uccide per rubare, o per un’eredità, o per l’indennizzo di un’assicurazione. Fa un lavoro ingrato, sporco e volgare: ascia, coltello o revolver, un lago di sangue, impronte, vestiti macchiati, biasimo generale”, e la certezza di una condanna a vita. Al contrario del truffatore, del criminale internazionale, che, benché violento, si arricchisce a danno degli altri senza uccidere. “Sicché possiamo affermare questo: «Un assassino intelligente deciderebbe di diventare un truffatore, un truffatore idiota finirebbe a fare l’assassino»”.
Queste mezza pagina di Simenon cronista di
nera (“Dietro le quinte della polizia”, p. 97) non è persuasiva. Il criminale
uccide e come. Anche se, certo, è difficile arrivare agli abissi di Riina, un minus
habens che ha fatto per trenta e più anni centinaia di assassinii, forse
qualche migliaio, per le tante stragi, o di Messina Denaro. Ma è vero che le mafie sono come i “criminali
internazionali”, non uccidono, “avvertono”, intimidiscono. Uccidono anche, ma
gli altri mafiosi. E se si trovano chiusa ogni via d’uscita, si pentono.
Nel caso della potente mafia dei terreni nella
Piana di Gioia Tauro il clan forse più spietato, quello dei Mammoliti di Castellace,
fu debellato per un omicidio, che forse il capoclan non aveva nemmeno ordinato –
ma era stato commesso da un ragazzo di poco lume suo affiliato. Di cui la
sorella della vittima, Teresa Cordopatri, tenne viva la memoria finché non
riuscì a imputare la responsabilità vera quando all’Interno arrivò un ministro
“non indifferente”, Maroni. Benché a viso scoperto, questa mafia aveva imperversato
per mezzo secolo senza alcun contrasto, evitando la violenza alla persona – la
proprietà non è roba da Carabinieri. L'antimafia fatica e recepire la semplice
constatazione di Simenon.
La mafia del pizzo, degli appalti, dei terreni,
agricoli e edificabili. Dovunque basta danneggiare gli altri per arricchirsi,
senza ucciderli.
Calabria
Calamitò
l’attenzione di Fëdor Sidorovič Brenson, un russo emigrato, pittore e incisore,
arrivato in Italia nel 1924, che ne fece 52 disegni, di luoghi per lo più, poi
raccolti, nel 1929, in “Visioni di Calabria”, con l’editore Vallecchi – dopo la
pubblicazione si trasferì a Parigi, e dal 1941, con la guerra e l’occupazione,
negli Stati Uniti, incisore e insegnante d’arte in vari college della costa
Est. Attratto dalla Calabria, spiega Antonella D’Amelia (“La Russia
oltreconfine”, 82) “sia per la fisionomia mediterranea (il clima, la natura),
correlata a una vita spensierata e solare, sia per le tracce dell’antico
passato (greco, romano, bizantino)”.
Ricordando sul
“Venerdì di Repubblica” Alessandro Bozzo, il giornalista morto suicida a
Cosenza dieci anni fa a 40 anni, Giuseppe Baldessarro e Alessia Candito accusano
la Calabria, dove Bozzo viveva e lavorava, a “Calabria Ora”. Senza un motivo specifico.
“Una vita da cronista senza tutele né stipendio” è del settanta, anche ottanta,
anche novanta per cento del giornalismo italiano: un tanto a riga, o pochi
centesimi a parola, una miseria, paghe come rimborsi spese, forfait da fame,
ritardi, contestazioni, abusi d’ogni sorta. Anche di testate nazionali non
ignote a Baldessarro e Candito. Però la Calabria si vuole diversa.
Baldessarro e
Candito non si chiedono perché in Calabria non si legga. Non i giornali locali
– le due testate locali vendono meno, complessivamente, delle testate nazionali,
che non hanno le cronache paesane.
“I calabresi sono letteralmente attaccati a
tutto”, secondo Filosa e Zurlo, “Cosma&Mito, L’assedio dei pruppi”: “Non
importa che si tratti di affascino e malocchi affini, allucinazioni da alcol,
divinità o spiriti, ambizioni esagerate, o gelosie e invidie senza limiti…. C’è
una sola certezza: ogni cosa creata da uomo, tempo e natura, è animata e ci
parla”. Nello sconforto o scontento generale, abissale, c’è chi ci crede e si
crede. Non male, è il principio dell’essere. Anche dell’esistere.
Giuseppe Bono, il manager di Pizzoni, Vibo
Valentia, che ha risanato e rilanciato Fincantieri, ora gruppo mondiale, era molto
religioso. L’aneddotica vuole che abbia lasciato il varo di una grande nave per
non perdersi la processione della Madonna a Tagliacozzo, in Abruzzo, dove aveva
acquistato l’abitazione di famiglia, una villetta a schiera.
A vedere, campagne ricche e ricchissime,
montagne verdi, mare cristallino, si direbbe il paradiso. Leggendo il giornale
si scopre che viene ultima o quasi per qualità della vita, ogni anno perdendo
posizioni invece di guadagnarle. A viverci si soffre la mancanza di mentalità
del servizio – un primo contatto va bene, al bar, al ristorante, dal macellaio,
all’alimentari, anche coi vecchi amici, ma non di più, l’interesse scema
presto, anche il garbo. Non c’è il bisogno – escludendo l’appannamento
dell’amicizia, inevitabile con gli anni? È una teoria. Ma allora perché vi si sta
così male, come dice il giornale? No, è che il guadagno dev’essere tutto subito – il “bene” più apprezzato sono i contributi pubblici, subito
e senza fatica. Ecco, manca l’applicazione. Di gente che per secoli
aveva accumulato nomea di cocciutaggine, testardaggine.
Ci sono i morti di ogni dove, nei due giornali
della Calabria, “Gazzetta del Sud” e “Il Quotidiano del Sud”. Anche incidentali,
anche in posti remoti, Poggibonsi o Crevalcore. Anche non di particolare gravità,
o modalità. Un vezzo delle cronache locali, che non si sanno riempire d’altro?
C’è effettivamente una propensione al mortuario, qualcuno le legge? È anche vero
che i giornali non sono molto letti in Calabria – Totò Delfino ricordava che
Feltri, direttore del “Giornale”, gli era affezionato perché, diceva, “mi fa
vendere 400 copie”. Per due milioni di persone.
Entrando in Calabria sull’autostrada Salerno-Reggio,
la prima stazione di servizio si trova a 102 km. dall’ultima in Campania (Sala
Consilina), a Frascineto. Da Frascineto a Lamezia gli intervalli sono normali,
30-40 km. – è la provincia di Cosenza. Dopo Lamezia bisogna aspettare altri 84 km.,
fino a Rosarno. E da Rosarno ancora 50 km., fino a Villa San Giovanni. Non si guadagna
abbastanza per mettere su una stazione di servizio? Non in Calabria rispetto
ala Campania, dove invece il servizio è regolare? Non vi si guadagna tutto
subito.
“Camici bianchi allo stremo. A Vibo un
dottore sviene e si rompe una costola. È successo al pronto soccorso”. Dove sono
rimasti in sei, la metà dell’organico. Effetto del lungo commissariamento della
sanità, oltre un decennio, nelle mani di pensionati dei partiti al governo a
caccia di un lauto nonfarniene. I medici calabresi che si formano a Roma
rimangono nella capitale, quelli che si laureano, e si specializzano, in
Calabria se ne vanno in Lombardia, perché per lavorare in Calabria bisogna
avere già medici in famiglia, che “aprano le porte”. La Regione deve assumere medici
cubani per riempire i buchi, e questi non le sono perdonati. Si potrebbe dire:
la Calabria deve morire – sembra un (buon) titolo per la sanità.
Il dottor Mangialavori di Vibo Valentia,
già senatore di Forza Italia e ora deputato, candidato a vice-ministro, anche per
dare un minimo di rappresentanza nel governo Meloni alla regione, viene seppellito
sotto voci di ‘ndranghetismo. Forse. Forse non lui, forse la moglie. No, forse
il suocero. Mah, non si sa. Il “Corriere della sera” evita la querela con
un’intervistina dopo il fattaccio. Ma è facile fare fuori un calabrese. Mafia?
leuzzi@antiit.eu
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