Fine della storia
“L’Anticristo non
vive tra noi ma è in noi”. Il laicissimo Croce che si occupa dell’Anticristo? È
un ritorno indietro dallo storicismo integrale. Croce ritorna su Hegel, sulla
razionalità del reale, e in vecchiaia, con l’esperienza del male emersa nella
guerra (dopo il terremoto omicida subìto nell’adolescenza), dal 1942, dal “Perché
non possimo non dirci cristiani”, avvia un percorso autocritico che finisce
nell’apocalissi, nei brevi saggi di questa raccolta.
Un apocalitticismo,
va detto, di incredibile preveggenza, o finezza: “Si è fatta viva dappertutto la
stringente inquietudine di una fine che si prepara, e che potrebbe nei prossimi
tempi attuarsi, della civiltà o, per designarla col nome della sua
rappresentante storica e del suo simbolo, della civiltà europea”. È l’attacco
del primo saggio qui recuperato, “La fine della civiltà”. Che, letto con la
guerra in corso al centro dell’Europa, dopo le tante condotte inutilmente in
Africa e in Asia per celenrare “la fine della stroia”, e con il covid, la crisi
climatica, la ccrisi economica, si legge come profetica.
Seguono alla
profezia due frasi lunghe, di corsa, senza fiato, per rifare la stroia – la storia
“europea” e non “occidentale”. Contro quella che già venne detta “la fine della
storia” da un alto, la caduta dell’impero romano dopo sei o sette secoli di vita.
E contro l’intellettualismo, il giacobinismo, il radicalismo, ma anche contro la “pratica
liberale”: nessuna ricetta è risolutiva, la Vitalità (le forze della natura),
già celebrata forza animatrice dell’universo, è analizzata come incontrollabile,
e anche distruttiva.
Un ritorno a Kant,
rivedendo radicalmente Hegel, e ai temi morali più che logici, in qualche modo anche
alla religione che pure rifiuta. Gli stessi titoli dei saggi, “Il peccato
originale”, “L’Anticristo che è in noi”, ”La fine di tutte le cose”, il curatore
Ilario Bertoletti che rinviare a Kant, “Il male radicale”, “La fine di tutte
le cose”: “Venuto meno il necessìtarismo della storia, in Croce non solo l’etica
assume le sembianze di una morale del dover essere, ma, al pari che in Kant, la
filosofia per rendere conto dell’esperienza
limite del male abbisogna di concetti-limite” – dei “teologumena”, “forma particolare
di pensiero metafisico”, ipotesi teologiche analizzate o vissute come fatti storici:
proprio “quelle sottocategorie che per la logica dello storicismo assoluto erano
erano una forma deprecabile di filosofia teologizzante” (quella dalla quale Hegel
proveniva, si può aggiungere, nello Stift di Tubinga con Hölderlin e
Schelling, da qui forse il rifiuto radicale).
La luga e densa
postfazione del curatore è una riflessione sul passaggio di Croce in numerosi scritti
degli ultimi suoi dieci anni dallo storicismo integrale a una sorta di teologia
laica – “saggi fra i più teoreticamente tesi dell’ultimo Croce”. Ai teologumena.
Croce, dice Bertoletti senza ironia, faceva teologia senza saperlo: “L’assolutizzazione
della dialettica degli opposti, declinantesi in un calvario dello Spirito, era
indice di un irriflesso teologismo”. La radice emerge con la guerra. Già nel
primo saggio, 1942, “Perché non possiamo non dirci cristiani”: “Il nome di
Cristo è assente”, nota Bertoletti, “ma Gesù – al pari di Paolo e di Giovanni -
è posto tra i «genii della profonda azione», tra i «creatori di ethos»”.
Benedetto Croce, La
fine della civiltà – L’Anticristo che è in noi, Morcelliana, pp. 97 € 10
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