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I borghi non muoiono
Una ricerca
antropologica alle origini vent’anni fa della nuova attenzione ai borghi abbandonati
o semiabbandonati dell’entroterra italiano, della dorsale appenninica (con la
prefazione di Predrag Matvejevi’ nell’edizione originale), in una con i viaggi
di Paolo Rumiz. Qui senza la documentazione fotografica della grande edizione Donzelli, nel 2004. Sulla traccia, vale la pena ripetere, aperta da Pasolini – “I borghi
abbandonati degli Appennini e le Prealpi” sono già di Pasolini-Orson Welles,
“La ricotta”, 1963.
Una rivisitazione
dei “paesi abbandonati” in Calabria, l’area cui Vito Teti è rimasto legato,
anche nella vita accademica, antropologo all’università di Cosenza: Pentedattilo,
Roghudi, “il paese più infelice del mondo”, e il Chorìo di Roghudi, Savelli,
Briatico, Mileto, Oppido, Seminara, le tante baracche, ancora, del terremoto
del 1908, Belforte, Soriano, Serra San Bruno, Castelmonardo, Filadelfia, i borghi
dell’Angitola, Rocca e Francavilla, Maierato, Precacore-Samo, Bianco, le tre
Soverato, da allora diventate una specie di Rimini del Sud, e molto Africo,
Nicastrello, Capistrano, etc.. La lista è lunga. E si può dire interminabile, per
alluvioni e terremoti. Ultimamente per la decrescita demografica accoppiata all’emigrazione,
specie della borghesia inelelttuale: si può girovagare per i paesi dela
Calabria, a qualsiasi ora di qualsiasi giorno, in totale solitudine.
Africo prende
molta attenzione perché è un borgo di cui si è progettato e realizzato negli anni
della Repubblica il riposizionamento (gli africoti, limitrofi del suo San Luca,
Corrado Alvaro ricorda in una conferenza sulla Calabria tenuta al Lyceum di
Firenze nel 2029 aggirarsi sperduti nelle campagne padane, nutriti di paglia rimasticata),
lontano dal vecchio sito e di diversa ambientazione. Creando un dissidio ancora
insanato tra vecchio e nuovo – che Teti ritroverà a proposito di un altro borgo,
Cavallerizzo, franato e ricostruito a tempo record negli anni 2010, che ha
aperto una frattura fra i vecchi abitanti, alcuni dei quali rifiutano tuttora
il nuovo insediamento (ma qui la questione è probabilmente di politica).
La lunga, lenta peregrinazione
di Teti lo porta alla scoperta che, per quanto trascurati o desertificati, i paesi
continuano a vivere. Vivono di senso: di storia, caratteri, lingua, devozioni
(le più lente a morire, si può aggiungere), anche solo di pietra e di aria, di
case, capanne, grotte, sabbia, rocce, e di alberi, venti, nuvole, acque. Sono “il
luogo di una poetica”, dice Matvejevi’c. Sono un “luogo comune”, argomenta l’antropologo,
ma ben vivo – “comune” nel senso di tutti: tra memoria e riappropriazione,
rifiuto e compassione, realtà e fantasia. Il loro richiamo è fisico: “irriducibile
elemento di identità” nella memoria di chi vi ha abitato, restano nell’abbandono
di “corposa e materiale consistenza”. Si possono dire oggi, a un decennio dalle
leggi Monti che li sottopongono a usurante tassazione, ancora uno dei tanti elementi
caratterizzanti dell’Italia (la piazza, con la fontana e il putto, o il delfino),
di cui l’Italia senza urgenza o obbligo si sbarazza, per neghittosità
(stupidità).
Vito Teti, Il
senso dei luoghi, pp. 266, free online
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