venerdì 6 gennaio 2023

Il deserto sul mare – una parabola del Sud

Una pioggia di sabbia provoca una curiosa situazione di isolamento, fisica e psicologica. Curiosa perché, leggendone adesso, è una sorta di prequel del covid: un evento subito mortale, che molte coscienze travia, e al fondo inspiegato, malgrado le tante spiegazioni. Con fenomeni analoghi: le fughe in massa, con i treni, le automobili, l’incetta di beni di consumo, la mobilitazione dell’esercito a mo’ di cordone sanitario, e anche un po’ di malvivenza – qui parecchia. 
“L’assedio” è il terzo romanzo di Rocco Carbone, già affermato critico letterario, destinato a una morte prematura da incidente in motorino, pubblicato venticinque ani fa. Ambientato nella “città di R.”, Reggio Calabria. Un thriller - malgrado il titolo enunciativo - letterario. Duro, sebbene su un fondo di speranza: l’orizzonte è ristretto, anzi chiuso, cupo, il tempo fermo. Ma giocato con maestria.
“Non ci resta che aspettare”: la sopravvivenza cambia con gli umori anche i registri. La speranza è del futuro, ma per questo bisogna sopravvivere: “Quando la nostra vita di ogni giorno, le nostre piccole convinzioni morali, i nostri affetti familiari e le abitudini non servono più a farci sopravvivere, tra non fare il bene e fare il male c’è una differenza sempre più sottile, che può annullarsi del tutto”, ammonisce Retez, il prete. Dal mondo che si trasforma in una prigione, naturale e umana – i banditi hano preso il controllo della città. Ma non bisogna disperare: Retez, tra i più colpiti dall’evento, continua a pregare.
Un “conte philosophique” sul solco di Camus, “La peste”, più che di Buzzati, cui è stato avvicinato, “Il deserto dei tartari”, o di Kafka – “L’assedio” è un racconto di personaggi umani, che interagiscono, non un racconto di visioni o di situazioni. Con lo stesso passo ordinario-straordinario della “Peste” di Camus. Anche se di senso anti-Camus, contro il Camus de “La speranza”, che la nega. 
Il richiamo è anche nell’ambientazione: la “città di R.” è come Orano, digradante sul mare. E delle due città il racconto è anche, indirettamente, di un ritorno. La geografia della “città di R.” è quella di Reggio Calabria, dove Carbone, nato e cresciuto in un paesino dell’entroterra, Cosoleto, fece gli studi da adolescente. Un’ambientazione come un’immedesimazione. Totale, malgrado la formazione cosmopolita (Carbone si era addottorato alla Sorbona), dell’autore con le origini. Un “ritorno” qui rafforzato dal linguaggio: dalle cadenze, e da alcuni idiomatismi. “Nel Dio che non può vedere la violenza”, p. 19, usa vedere nel senso locale, dialettale, di sopportare, accettare. O: “Che vuol dire?” nel senso di “Che vuole dire?”.
Lo stesso che in Camus, parigino da oltre un decennio, che nel 1947 ritorna con “La Peste” a Orano.  in Algeria, la città dell’infanzia e della fanciullezza. Altra città occlusa benché di mare, come R.. Con figure analoghe, il prete e il dottore. E con l’incertezza, e il timore, di qualcosa sempre di peggio. Con un di più, in Carbone, che l’assedio può configurare realisticamente: come è, o è stato, della “città di R.” avvinta sotto la sabbia e anzi governata dai “banditi”, dalla mafia. Nel racconto come di fatto avviene – è avvenuto: l’esercito (le forze della repressione) in attesa, fuori città, la città controllata dai violenti armati, con soprusi di ogni genere – basterà un raggio di sole per disperderli, e così probabilmente potrebbe essere.
“La peste”, romanzo postbellico, fu letto come una prefigurazione della guerra appena conclusa, un po’ come oggi si può dire de “L’assedio” rispetto alla pandemia – o, localmente, all’assedio della malavita (una sorta di parabola del Sud se ne potrebbe trarre). Ma più forte l’eco viene dal senso di claustrofobia che la narrazione suscita, che segna la città dal vivo, dal vero, malgrado l’apertura digradante, caratteristica delle città di mare, e le fondamenta solide, post-terremoto, delle abitazioni. Come di un destino solitario, chiuso piuttosto che aperto dall’orizzonte vasto, le spalle al resto del mondo. In questo caso, della “città di R.”, il senso di claustrofobia che la narrazione sviluppa, a prima vista incongruo in una città aperta sul mare, corrisponde al modo d’essere della città, come chiusa in se stessa, voltando le spalle al retroterra – effetto forse della storia della “città”, fino a pochi decenni fa ancora agglomerato di paesi e comunità di piccola consistenza.  
Un racconto allo stesso modo che in Camus “filosofico”, benché non astratto. L’aneddoto ispiratore è semplice: piove sabbia sullo Jonio occidentale e il basso Tirreno nei giorni di scirocco (termine usato impropriamente: lo scirocco è vento di Sud-Est, “siriaco”, mentre la sabbia sulle coste italiane tra Jonio e Tirreno - qualche anno fa anche a Roma - è estensione del ghibli, il vento del deserto libico). Come quando c’è la peste, che non si sa da dove viene – né quando e come finirà. Sulla traccia - inavvertita? - di Nicola Pugliese “Malacqua”, di Napoli sommersa dalla pioggia.
Rocco Carbone, L’assedio, Rubbettino, pp. 197 € 18

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