Il deserto sul mare – una parabola del Sud
Una pioggia di
sabbia provoca una curiosa situazione di isolamento, fisica e psicologica.
Curiosa perché, leggendone adesso, è una sorta di prequel del covid: un
evento subito mortale, che molte coscienze travia, e al fondo inspiegato,
malgrado le tante spiegazioni. Con fenomeni analoghi: le fughe in massa, con i
treni, le automobili, l’incetta di beni di consumo, la mobilitazione dell’esercito
a mo’ di cordone sanitario, e anche un po’ di malvivenza – qui parecchia.
“L’assedio” è il
terzo romanzo di Rocco Carbone, già affermato critico letterario, destinato a
una morte prematura da incidente in motorino, pubblicato venticinque ani fa.
Ambientato nella “città di R.”, Reggio Calabria. Un thriller - malgrado
il titolo enunciativo - letterario. Duro, sebbene su un fondo di speranza:
l’orizzonte è ristretto, anzi chiuso, cupo, il tempo fermo. Ma giocato con
maestria.
“Non ci resta che
aspettare”: la sopravvivenza cambia con gli umori anche i registri. La speranza
è del futuro, ma per questo bisogna sopravvivere: “Quando la nostra vita di
ogni giorno, le nostre piccole convinzioni morali, i nostri affetti familiari e
le abitudini non servono più a farci sopravvivere, tra non fare il bene e fare
il male c’è una differenza sempre più sottile, che può annullarsi del tutto”,
ammonisce Retez, il prete. Dal mondo che si trasforma in una prigione, naturale
e umana – i banditi hano preso il controllo della città. Ma non bisogna
disperare: Retez, tra i più colpiti dall’evento, continua a pregare.
Un “conte
philosophique” sul solco di Camus, “La peste”, più che di Buzzati, cui è stato
avvicinato, “Il deserto dei tartari”, o di Kafka – “L’assedio” è un racconto di
personaggi umani, che interagiscono, non un racconto di visioni o di
situazioni. Con lo stesso passo ordinario-straordinario della “Peste” di Camus.
Anche se di senso anti-Camus, contro il Camus de “La speranza”, che la
nega.
Il richiamo è
anche nell’ambientazione: la “città di R.” è come Orano, digradante sul mare. E
delle due città il racconto è anche, indirettamente, di un ritorno. La
geografia della “città di R.” è quella di Reggio Calabria, dove Carbone, nato e
cresciuto in un paesino dell’entroterra, Cosoleto, fece gli studi da
adolescente. Un’ambientazione come un’immedesimazione. Totale, malgrado la
formazione cosmopolita (Carbone si era addottorato alla Sorbona), dell’autore
con le origini. Un “ritorno” qui rafforzato dal linguaggio: dalle cadenze, e da
alcuni idiomatismi. “Nel Dio che non può vedere la violenza”, p. 19, usa vedere
nel senso locale, dialettale, di sopportare, accettare. O: “Che vuol dire?” nel
senso di “Che vuole dire?”.
Lo stesso che in
Camus, parigino da oltre un decennio, che nel 1947 ritorna con “La Peste” a
Orano. in Algeria, la città
dell’infanzia e della fanciullezza. Altra città occlusa benché di mare, come
R.. Con figure analoghe, il prete e il dottore. E con l’incertezza, e il
timore, di qualcosa sempre di peggio. Con un di più, in Carbone, che l’assedio
può configurare realisticamente: come è, o è stato, della “città di R.” avvinta
sotto la sabbia e anzi governata dai “banditi”, dalla mafia. Nel racconto come
di fatto avviene – è avvenuto: l’esercito (le forze della repressione) in
attesa, fuori città, la città controllata dai violenti armati, con soprusi di
ogni genere – basterà un raggio di sole per disperderli, e così probabilmente
potrebbe essere.
“La peste”,
romanzo postbellico, fu letto come una prefigurazione della guerra appena
conclusa, un po’ come oggi si può dire de “L’assedio” rispetto alla pandemia –
o, localmente, all’assedio della malavita (una sorta di parabola del Sud se ne
potrebbe trarre). Ma più forte l’eco viene dal senso di claustrofobia che la
narrazione suscita, che segna la città dal vivo, dal vero, malgrado l’apertura
digradante, caratteristica delle città di mare, e le fondamenta solide,
post-terremoto, delle abitazioni. Come di un destino solitario, chiuso
piuttosto che aperto dall’orizzonte vasto, le spalle al resto del mondo. In
questo caso, della “città di R.”, il senso di claustrofobia che la narrazione
sviluppa, a prima vista incongruo in una città aperta sul mare, corrisponde al
modo d’essere della città, come chiusa in se stessa, voltando le spalle al
retroterra – effetto forse della storia della “città”, fino a pochi decenni fa
ancora agglomerato di paesi e comunità di piccola consistenza.
Un racconto allo
stesso modo che in Camus “filosofico”, benché non astratto. L’aneddoto
ispiratore è semplice: piove sabbia sullo Jonio occidentale e il basso Tirreno
nei giorni di scirocco (termine usato impropriamente: lo scirocco è vento di
Sud-Est, “siriaco”, mentre la sabbia sulle coste italiane tra Jonio e Tirreno -
qualche anno fa anche a Roma - è estensione del ghibli, il vento del deserto
libico). Come quando c’è la peste, che non si sa da dove viene – né quando e
come finirà. Sulla traccia - inavvertita?
- di Nicola Pugliese “Malacqua”, di Napoli sommersa dalla pioggia.
Rocco Carbone, L’assedio,
Rubbettino, pp. 197 € 18
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