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Il falso, ma non troppo, Messina Denaro
“Svetonio”
è il destinatario, lo scrivente “Alessio” è Matteo Messina Denaro. Un falso d’autore,
pubblicato quindici ani fa da Stampa Alternativa, di cui l’autore dovrebbe essere
lo scrittore Michele Magno, che ne figura il curatore. Oppure un Tonino
Vaccarino, personaggio vero, lo Svetonio destinatario. Le “lettere” prendono una trentina di pagine, Salvatore Mugno
provvede al resto. Una corposa introduzione e una lunga vita del personaggio,
circostanziata, che si legge come un romanzo, anche se è personaggio a
una sola dimensione, il sangue degli altri (una vita ripresa e ampliata nel
2011, pubblicata come biografia del mafioso latitante).
Mugno
dubitava dell’autenticità delle lettere – come ogni lettore. Ma non diceva
l’ovvio: che le avesse scritte il destinatario. Destinatario figurando un “professore”,
forse di Filosofia, forse di Lettere, che però non lo era, lo era la moglie, ma
si compiaceva di esserlo, il Vaccarino, noto
eccentrico di Castelvetrano, di cui pure è stato sindaco per un anno, con una fedina
penale spessa. Da ultimo qualificandosi come informatore dei servizi
segreti, dell’Aisi. Da cui “Alessio”, nome con cui si firma Messina Denaro, ovvio
anagramma dell’Aisi stessa. Nonché di “assioma”, termine che “Alessio” usa
spesso, spesso non congruamente. Oltre che all’assioma il latitante si compiace
di riferirsi a Malaussène-Pennac, Toni Negri e Jorge Amado.
Insomma,
uno scherzo. Ma impiantato su un fatto: Messina Denaro è stato uno scrittore
compulsivo di lettere, i suoi “pizzini” al capomafia Provenzano erano lunghi
pagine, dettagliati e prolissi. Di tale natura che Camilleri ebbe a dirlo nel
2007, nel libro “Voi non sapete”, “il
latinista del gruppo”. Uno scherzo però avallato da molti. Da La Licata variamente sulla
“Stampa”. Massimo Onofri ne attestò la veridicità.
Un dramma
siculo, alla Pirandello, in cui ognuno è non si sa chi. Lo stesso Mugno, buon
siciliano, non si priva di evocare Cellini, Caravaggio, Stradella come
precedenti in fatto di “binomio artista-criminale” – come se ci fosse qui un
artista – e Villon, Genet, Gregory Corso, “fino a certi nostri autori contemporanei
coinvolti in vicende omicidiarie: Massimo Carlotto, Adriano Sofri, Cesare
Battisti….”. E qui è evidente che in Sicilia qualcosa non funziona.
Ma non
solo in Sicilia, anche nell’antimafia, con altrettanta evidenza – La Licata e Onofri non
sono stati errori casuali e isolati.
Il ridicolo avrebbe dovuto svuotare il
terribilismo della mafia. Che è terribile solo nel tiro a segno, o nel
plastico, a tradimento, mai a viso aperto, per il resto è sopraffazione,
furfanteria e stupidità. E sicurezza di sé, soprattutto, quasi in regime
d’impunità. Il superlatitante che si dice un perseguitato, vittima della
mafia, a suo modo, anche lui, è un topos ricorrente, ma in questo caso – sapienza
di Mugno-Vaccarino - perfino argomentato. O “Alessio” stava trattando la resa,
con i beni – una parte dei beni – in libero uso ai familiari, come già avvenuto
con i familiari di Provenzano”.
La
vita-romanzo di Denaro prima della lunga latitanza, ormai di venticinque anni,
è semplice e fantastica. È figlio di un mafioso, conosciuto per tale, ma onorato fino ai trenta anni da tutta Palermo. È autore\mandante di almeno cinquanta
omicidi, a partire dai diciotto anni – e probabilmente dei dieci morti e
106 feriti degli attentati del 1993 sul continente, ai Georgofili e gli Uffizi,
a via Palestro a Milano, a san Giovanni in Laterano e a san Giorgio al Velabro.
Ma fino ai trenta sconosciuto, comunque non perseguito. A tempo perso faceva il
gigolò – oggi toyboy – con altri coetanei di ricche signore di mezza età di
Palermo. Con molte amanti giovani strafiche, tra esse un’impiegata austriaca
dell’Hotel Paradise Beach, di cui farà uccidere il mite gestore, che scherzava
sulle sue imprese amatorie.
Matteo
Messina Denaro, Lettere a
Svetonio
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