mercoledì 18 gennaio 2023

Il falso, ma non troppo, Messina Denaro

“Svetonio” è il destinatario, lo scrivente “Alessio” è Matteo Messina Denaro. Un falso d’autore, pubblicato quindici ani fa da Stampa Alternativa, di cui l’autore dovrebbe essere lo scrittore Michele Magno, che ne figura il curatore. Oppure un Tonino Vaccarino, personaggio vero, lo Svetonio destinatario. Le “lettere” prendono una trentina di pagine, Salvatore Mugno provvede al resto. Una corposa introduzione e una lunga vita del personaggio, circostanziata, che si legge come un romanzo, anche se è personaggio a una sola dimensione, il sangue degli altri (una vita ripresa e ampliata nel 2011, pubblicata come biografia del mafioso latitante).
Mugno dubitava dell’autenticità delle lettere – come ogni lettore. Ma non diceva l’ovvio: che le avesse scritte il destinatario. Destinatario figurando un “professore”, forse di Filosofia, forse di Lettere, che però non lo era, lo era la moglie, ma si compiaceva di esserlo, il Vaccarino, noto eccentrico di Castelvetrano, di cui pure è stato sindaco per un anno, con una fedina penale spessa. Da ultimo qualificandosi come informatore dei servizi segreti, dell’Aisi. Da cui “Alessio”, nome con cui si firma Messina Denaro, ovvio anagramma dell’Aisi stessa. Nonché di “assioma”, termine che “Alessio” usa spesso, spesso non congruamente. Oltre che all’assioma il latitante si compiace di riferirsi a Malaussène-Pennac, Toni Negri e Jorge Amado.
Insomma, uno scherzo. Ma impiantato su un fatto: Messina Denaro è stato uno scrittore compulsivo di lettere, i suoi “pizzini” al capomafia Provenzano erano lunghi pagine, dettagliati e prolissi. Di tale natura che Camilleri ebbe a dirlo nel 2007, nel libro “Voi non sapete”, “il latinista del gruppo”. Uno scherzo però avallato da molti. Da La Licata variamente sulla “Stampa”. Massimo Onofri ne attestò la veridicità.  
Un dramma siculo, alla Pirandello, in cui ognuno è non si sa chi. Lo stesso Mugno, buon siciliano, non si priva di evocare Cellini, Caravaggio, Stradella come precedenti in fatto di “binomio artista-criminale” – come se ci fosse qui un artista – e Villon, Genet, Gregory Corso, “fino a certi nostri autori contemporanei coinvolti in vicende omicidiarie: Massimo Carlotto, Adriano Sofri, Cesare Battisti….”. E qui è evidente che in Sicilia qualcosa non funziona.
Ma non solo in Sicilia, anche nell’antimafia, con altrettanta evidenza – La Licata e Onofri non sono stati errori casuali e isolati. 
Il ridicolo avrebbe dovuto svuotare il terribilismo della mafia. Che è terribile solo nel tiro a segno, o nel plastico, a tradimento, mai a viso aperto, per il resto è sopraffazione, furfanteria e stupidità. E sicurezza di sé, soprattutto, quasi in regime d’impunità. Il superlatitante che si dice un perseguitato, vittima della mafia, a suo modo, anche lui, è un topos ricorrente, ma in questo caso – sapienza di Mugno-Vaccarino - perfino argomentato. O “Alessio” stava trattando la resa, con i beni – una parte dei beni – in libero uso ai familiari, come già avvenuto con i familiari di Provenzano”.
La vita-romanzo di Denaro prima della lunga latitanza, ormai di venticinque anni, è semplice e fantastica. È figlio di un mafioso, conosciuto per tale, ma onorato fino ai trenta anni da tutta Palermo. È autore\mandante di almeno cinquanta omicidi,  a partire dai diciotto anni – e probabilmente dei dieci morti e 106 feriti degli attentati del 1993 sul continente, ai Georgofili e gli Uffizi, a via Palestro a Milano, a san Giovanni in Laterano e a san Giorgio al Velabro. Ma fino ai trenta sconosciuto, comunque non perseguito. A tempo perso faceva il gigolò – oggi toyboy – con altri coetanei di ricche signore di mezza età di Palermo. Con molte amanti giovani strafiche, tra esse un’impiegata austriaca dell’Hotel Paradise Beach, di cui farà uccidere il mite gestore, che scherzava sulle sue imprese amatorie.
Matteo Messina Denaro, Lettere a Svetonio

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