Le convergenze parallele – o l’amore tangente
“Sarà buffo paragonare
una donna a una tangente, ma tant’è”, è l’ultima riga dei tre racconti. Che non
sono geometrici o algebrici come bisognerebbe supporli, insorge anche un minimo
di passione, di coinvolgimento emotivo, ma sono organizzati e raccontati come
se.
Un pedofilo assassino
in attesa dell’esecuzione ricorda come ha circuito una ragazzina, che poi si
rivela muta, da cui il titolo del racconto, “La muta”, e infine l’ha uccisa, senza un
motivo. Uno strip poker, da titolo poviano, “Mano rubata”, dove il perdente,
una lei in questo caso, può optare per il suicidio in alternativa al denudamento.
E un incontro, una curiosità, un’attrazione fra due persone sole, di sguardi
più che altro, che s’incrociano senza incontrarsi, come le “convergenze
parallele” di Aldo Moro – il racconto della donna tangente finale, ma su un
fondo realista in questo caso, dello stesso scrittore che a periodi si
allontanava dalla famiglia, senza rancori, senza rifiuti, per un oscuro bisogno
di stare solo.
Un racconto horror,
dichiaratamente – il narratore si proclama assassino, in attesa dell’esecuzione,
della condanna a morte. Ma procede verso la fine annunciata senza commozione,
né paura o indignazione. Senza pietà: la vittima è fatta vivere con lo stesso
algore del suo assassino. Protagonisti di un evento del destino – non si dice “muta
come il destino”?
Un racconto della
Necessità, attraverso il gioco, il poker a denudamento. “Ora ella era mia
eternamente”, riflette l’organizzzatore del gioco, quando infine il caso mette
la sconociuta che lo avvince di fronte all’alternativa: o denudarsi oppure perire.
Che sembra senza senso, e lo è, ma non nell’economia del racconto – la Necessità
è senza senso: è il solo che si svolge con terminologie e fra personaggi
comuni, correnti. Col lieto fine, seppure incerto: “Ti amavo e nondimeno ero
vuota”.
Un racconto dela
realtà irreale. Irreale l’uomo che rifiuta la famiglia e se ne occupa in continuazione.
Irreale la sconoscuta che lo intriga – senza motivo. E tuttavia tutto ben
solido, pratico, reale, nel lingauiggio, le supposizioni, le considerazioni.
Uno scrittore di
testa, si sa, più algido forse di Italo Calvino. E riflessivo, nei canoni dell’“assurdo”,
quale allora si teorizzava, negli anni 1950-1060. Racconti filosofici – molto (troppo?
non c’è catarsi) - come allora usava, in Francia, che si misurano
vantaggiosamente con gli analoghi di Sartre o di Camus. Tre racconti, tre
stroie diverse, ma con l’impressione per il lettore di continuare l’una nell’altra.
Come tre momenti, o situazioni diverse, di un medesimo svolgimento. Insieme preciso
e anche inafferrabile, inappagabile. Di tensione angosciosa formidabile, più e
meglio (meno diluita) che negli specialisti contemporanei del genere, Ammanniti,
Carrisi. È questo che ha isoalto Landolfi, nella emperie culturale dei suoi
anni, neo-realista o comuqnue politicamente corretta dell’epoca. Poi
dimenticato, se non per le cure della figlia Idolina, e di Adelphi.
Il risvolto presenta i racconti come storie d’amore,
inconcluse, per l’inafferrabilità del femminino: “Tre donne (e una quarta nell’ombra) sono al
centro di questi racconti in vario modo d’amore, usciti per la prima volta nel
1964. Tre destini eccentrici, accomunati dal segno di un’anomalia palese o
profonda”. Ma sono tre racconti in prima persona maschile, molto ragionati sui “temi”,
la necessità, l’incomunicabilità, il caso. L’occasionale, fortuito, combinando
cn l’Evento, il destino, l’imponderabile. Tutt’e tre regolati dalla “cifra” di Landolfi, la suspense, “la sospensione”
nella terminologia del suo più acuto compagno di merende a Firenze e poi critico,
Carlo Bo, “al gioco dell’intelligenza”. L’analogo, si può dire, di Kafka, solo
un po’ più argomentato, verboso – una forma espressiva che sarà celebrata da Dürrenmatt.
Landolfi si considerava (voleva) poeta, attesta Bo: “Gli
equilibrismi irreali dell’immaginazione” gli costavano fatica, “si spiega quel
suo ripiegare alla fine sul dato del «diario» e sull’altro delle sue esercitazioni
poetiche che a suo giudizio richiudevano la parte più alta del suo lavoro”.
Ma, alla fine, “il più puro e sincero profeta del nulla assoluto”.
Tommaso Landolfi, Tre racconti, Adelphi, pp.
126 € 12
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