domenica 1 gennaio 2023

Letture - 507

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Edoardo Bennato-Lucio Dalla - Ascoltando distrattamente “L’anno che verrà” in tv negli spettacoli di fine anno si pensa di stare ascoltando una hit di Edoardo Bennato. L’anno di composizione, 1978, lo consentirebbe, Bennato aveva già una sua “cifra”. Ma anche Dalla: “Gesù Bambino” (“4\3\1943” all’anagrafe) era da anni un successo planetario, rilanciata da Dalida e Chico Buarque de Hollanda. E pure “Piazza Grande”: la “cifra” di Dalla è ben nota. Sono due cantautori, entrambi strumentisti per caso, con esperienza di jazz: è questo background che crea le somiglianze?
 
Dialetto
– “Non è assolutamente giusto considerare un dialetto le espressioni linguistiche del Belli”,
Massimo Popolizio, “quello del poeta non è dialetto, è una lingua fitta di lirismo e intelligenza
teppistica. È materia vibrante”. Cioè, è dialetto.
 
Don Giovanni
– C’è una tradizione russa, che sulla straccia di Puškin. “Il convitato di pietra”, che lo fa “crudele, empio, scellerato, un senza Dio, un seduttore senza scrupoli”, lo accosta alla Morte. “Don Giovanni sposo della Morte” è un dramma di Pëtr Potëmkin e Solomon Poliakov, messo in scena da Potëmkin nel 1926 a Roma, al Teatro degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia, in cui don Giovanni in realtà corteggia, sotto le spoglie di Donna Anna, la Morte – “Ah, Leporello, sapessi quanto è terribile la Morte nel sembiante della vita!”. Lo ricorda Antonella D’Amelia nella sua ricostruzione dei russi in Italia, “La Russia oltreconfine. Artisti e scrittori nell’Italia del Novecento”, pp. Y182-187.
 
Francese - Non solo bistrattato nella pronuncia, da quando è fuoriuscito dall’insegnamento, paivot, desert, steig, se ne è erasa ogni radice culturale e di massa. Jacques Brel? Piaf? Montand? Si fa molto De André, e anche Conte, ma niente di Brassens.
Anche di narrativa e poesia si sa poco - Ernaux ha dovuto aspettare trenta o quaranta anni per essere tradotta, da un piccolo editore. Molto meno di quanto si sappia in Francia di narrativa e poesia italiane – la Francia resta grande lettrice.
 
Giornalismo – Umberto Eco ne ha dato definizione lusinghiera, perfino esaltante: “Storiografia dell’istante”. Finendo però per scrivere “Numero zero”, del giornale come covo di falsari – l’ultima sua “fatica” del genere romanzo (più polemico in effetti che brillante). Aggravando l’accusa in un’intervista demolitrice con Scalfari che si ascolta in rete.
 
Google - È diventato il supporto della lettura. Gli autori non si fermano più a spiegare un termine o un personaggio specifico, dimenticato o di rilievo limitato, il sottinteso è che, se interessa, si può digitare la ricerca sul cellulare. Il bestseller “I Netanyau” può dare per scontati gli ebrei “litvak e chassidici”.
 
Illeismo - Sarebbe parlare di se stessi in terza persona in letteratura - racconti, romanzi, poemi. Harold Bloom lo dava come un termine ricorrente raccontando a Joshua Cohen (“I Netaniahu”, 268) di Gershom Scholem, il grande amico di Walter Benjamin, presto emigrato a Gerusalemme, che appunto parlava di sé in terza persona. Almeno in tarda età, quando Harold Bloom si recò a fargli visita in Israele, come lo stesso Bloom ha raccontato a Joshua Cohen, che ne riferisce appunto in appendice a “I Netanyahu”: “Quando andai a trovarlo nel suo appartamento su Abravanel Street parlava invariantemente di se stesso in terza persona…. Quindi una sua frase tipica poteva essere: «Il giudizio di tal-dei-tali su questo-e-quello è così-così, ma Scholem pensa che….»… In letteratura quando ci si riferisce a se stesso in terza persona si dice illeismo”.
Harold Bloom accreditava l’uso, italiano, del “lei” per l’interlocutore.
 
News fatigue – Neologismo americano, su cui la rivista “The New Yorker” fa ruotare la sua scelta di articoli online per la fine dell’anno. Dopo il covid, la guerra in Europa, il rigetto da parte della Corte Suprema americana della libertà di aborto, una “news fatigue” è stata rilevata, una sorta di indigestione, che ha “colpito l’industria di settore”: una riduzione consistente delle attività digitali, dei social.
I bilanci in calo di Twitter e Facebook potrebbero esserne la riprova.
 
Papa Ratzinger - Già G. Grass lo ricordava disappetente, nelle memorie “Sbucciando la cipolla”, 2006. Reclutato a 16 anni, nel 1943, nella contraerea della Luftwaffe, l’aviazione militare, coetaneo e compagno di dadi e di filosofia durante la prigionia di guerra, entrambi diciottenni.
Pensare un ragazzo così timido, gentile, umile, col roboante Grass, fa in effetti molto teatro.
Ma “rivoluzionario” per questo – non un debole come si vuole per le dimissioni. 
 
Proust – “Trovo bizzarro, per non dire inappropriato, che scrittori come Kafka o Svevo passino per esponenti della letteratura ebraica mentre si ignora Proust”, Alessandro Piperno, che pure a Proust ha dedicato alcuni volumi, a Gnoli, “Robinson”, 31 dicembre. Ma Kafka e Joyce non hanno personaggi “ebrei” negativi, mentre Proust ne ha. Il Proust “antisemita” del primissimo saggio dello stesso Piperno, da neo francesista. Che in tutte le sue opere, anche gli scritti più occasionali, fa stato delle pratiche religiose in chiesa, o le racconta, commosso, come naturali.
 
Romanzo – Praz lo radica nel Seicento (“Pittura di genere e romanzo”, in “La crisi dell’eroe nel romanzo vittoriano”): nella pittura olandese del Seicento, della vita quotidiana. Che ha aperto il gusto letterario, e anzi la pratica, della descrizione, di ambienti e personaggi. E ha anticipato il romanzo di costume, fuori dal fiabesco o dall’eroico.
Non in Carpaccio, nelle vedute minute di Venezia, tra Quattro e Cinquecento? Era ancora epoca di gesta eroiche, fantastiche. Anche questo conta: ci sono cicli, epoche, nella storia, nel gusto, nella sensibilità. “Don Chisciotte”, coevo della pittura olandese di genere cui si riferisce Praz, si può ritenere il controcanto a conclusione di un’era, delle grandi narrazioni cavalleresche - non apre un ciclo o un genere.
 
Turchi – “Palestinese? L’ultima cosa che sono stato era ottomano”, rispondeva un giovane pasticciere arabo un sabato mattina in una Gerusalemme storica deserta. È l’accostamento con cui Joshua Cohen chiude “I Netanyahu”. La famiglia Netanyahu, compreso “Bibi” allora (1960) undicenne, l’antesignano e il leader delle politiche “identitarie”, pivot politico di Israele da un quarto di secolo, ha messo a soqquadro in America la casa del giovane professor Blum che la ospita. È dovuto intervenire lo sceriffo. Che a un certo punto sbotta: “Che gente del cazzo. Mi scusi, professore Blum, ma che gente del cazzo”. In risposta il narratore Blum confida allo sceriffo: “Sono turchi, sa…. Cosa ci si può aspettare dai turchi… giusto un branco di turchi fuori d testa”.  
 
Witz – Si dice in tedesco ma non sarà ebraico? Lo praticano gli scrittori dichiaratamente ebrei, è la cifra ricorrente, dominante, della narrativa ebraica, yiddish e americana – della comicità (Woody Allen), della filmografia. Anche di Svevo e, volendolo, di Kafka – anche di Proust, ma non della “Ricerca”, che si vuole, tutto sommato, romantica, e molto cattolica, della pietas.
Sarà stato uno dei tanti prestiti dell’ebraismo alla Germania.

letterautore@antiit.eu

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