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L’islam al femminile
Si è potuto
rivedere su Sky Documentaries - si può rivedere in streaming – un documentario
americano in più puntate sulla “crisi degli ostaggi” in Iran nel 1980-81,
“Hostages”. Sull’assalto all’ambasciata americana a Teheran da parte degli “studenti
della rivoluzione”, e la presa dei diplomatici e dipendenti in ostaggio per
quattordici mesi, dal 4 novembre 1979 al 20 gennaio 1981. Una vicenda che ha
segnato il destino dell’Occidente, poiché ha portato Reagan, uno sconosciuto
attore di terzo piano, alla presidenza degli Stati Uniti, che ha imposto il
liberismo suicida nel quale l’Occidente è impigliato.
Si è potuto vedere
nel documentario che la più determinata del commando (in realtà una folla, disordinata)
era una donna, Masumeh Ebtekar. E lo è tuttora. Un altro personaggio del
documentario, Ebrahim Asgharzadeh,
si è detto il capo del commando e la mente del rapimento, ma Ebtekar,
sotto i pepli, ne sapeva di più. Non per nulla è stata vice-presidente del
governo, dal 2017 al 2021, dopo essere stata più volte ministro. Era un capo anche
nelle immagini dell’epoca, quando ventenne inventava e coordinava informazioni
e immagini per tenere sulla corda l’America, per 444 o più giorni.
Quella dell’ancella
di Khomeiny è la stessa determinazione che ora, da due mesi, porta l’Iran in
piazza contro il regime degli ayatollah. Del quale fu a suo tempo il fondamento:
Khomeiny era un personaggio poco conosciuto e poco apprezzato (soprattutto a Qom,
la superscuola teologica degli ayatollah) fra gli oppositori dello scià. Fu
“creato” dai servizi segreti francesi, che lo pescarono dall’esilio isolato a
Kerbala, in Iraq - con la probabile
collaborazione americana. Ma divenne il padrone dell’Iran per la massa d’urto
delle donne coperte di nero che occuparono letteralmente le città iraniane il
venerdì, per manifestare contro lo scià, e poi ogni altro giorno della settimana.
Una massa d’urto contro la quale la polizia e l’esercito dello scià erano
inermi.
Come Ebtekar,
centinaia di altre giovani come lei, vestite di nero e incappucciate, si
potevano vedere nei mesi e anni prima della rivolta, lungo i sentieri di passeggiata
festiva sulle montagne sopra Teheran, addestrarsi in formazioni quadrate paramilitari,
con la scusa dell’esercitazione fisica. Erano giovani donne le animatrici del
movimento degli studenti filo-khomeinisti dei due anni di trapasso del regime,
sotto la presidenza dell’economista Abol-Hassan Banisadr. E poi dei fidayn del
popolo, la formazione islamista anti-Khomeiny.
Erano
donne in età, massicce e ululanti, che occupavano per gli ayatollah i viali i
Teheran nella transizione. Che presidiavano i primi tribunali politici, fuori e
dentro il supercarcere di Evin. Che presidiarono ogni mattina gli ingressi e le
tribune del Majlis, il Parlamento, nel lungo dibattito sul destino degli ostaggi
americani, quasi tutti semplici impiegati.
Oggi fanno notizia, e rivoluzione, in Iran le donne giovani che
protestano contro l’obbligo del velo. Ma sono la borghesia urbana, numerosa e
affluente a Teheran – dislocata nei quartieri anche mofolologicaente elevati (Teheran è una
capitale di montagna, in salita, dai 1.100 ai 1.700 metri di altitudine), tante
ricche e ricchissime cittadelle: Shemiran, “luogo fresco”, dove anche il probo
Khomeiny aveva casa, Zafaraniyeh, Elahiyeh, Velenjak, Gheytarieh, Farmanieh, Kamranieh, Darband, Jamaran, Niavaran. Con i social queste rivoluzionarie
sono dappertutto, ma non sono”tutte”. L’Iran era e resta – come anche la
Turchia, di recente reislamizzazione – un paese rurale. Di una ruralità (tradizionalismo)
che pesa anche nelle città, anche a Teheran Sud, attorno al bazar e ai bazarì, ai commercianti grandi e piccoli.
Un mondo che soffre l’adozione di modi di vita diversi come una forzatura.
Anche se modernizzante. E chiede alla politica quello che gli ayatollah danno:
una legittimazione della tradizione, anche se sotto la forma del velo, e con la
forca e lo scudiscio. Forse anche negli apparati commerciali e industriali più
moderni è più alto il numero delle donne che si sentono protette dagli ayatollah,
seppure con l’obbligo del velo – riconosciute, “portate” (un’analisi dell’“ayatollismo”,
del radicamento sociale del regime islamico iraniano, resta ancora da fare, ma
alcune cose sono chiare: senza le donne non ci sarebbe stato, e non ci sarebbe,
il khomeinismo.
Nell’ignoranza globale dei fatti mondiali,
ce n’è una speciale sulle donne nell’islam. Diversa è la loro condizione – la loro
mentalità e il loro status - fra l’islam desertico, nomadico ancora fino a cinquant’anni
fa (Kuwait, Abu Dhabi, gli altri emirati minori, e la stessa Arabia Saudita
davano premi per le tribù che si sedentarizzavano: la casa, l’automobile, le cure
mediche), e quello urbano. In questo caso in Iran, civiltà da millenni urbana. Dove le donne sono al comando, seppure in casa -
recluse peraltro volontarie. Tra i motivi che hanno perduto lo scià, la modernizzazione
imposta alle donne è stato uno dei più diffusi, e anche determinante. Furono subiti
come un abuso sia l’obbligo della coabitazione al lavoro e in società (la stretta
di mano, per non dire dell’abbraccio), sia l’occidentalizzazione quasi forzata,
sui modelli femminili occidentali, dal nudo alla libertà sessuale – che la donna
iraniana esercita da tempo immemorabile con il sighè, matrimonio a
tempo, ma senza esibizione.
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