martedì 24 gennaio 2023

L’islam al femminile

Si è potuto rivedere su Sky Documentaries - si può rivedere in streaming – un documentario americano in più puntate sulla “crisi degli ostaggi” in Iran nel 1980-81, “Hostages”. Sull’assalto all’ambasciata americana a Teheran da parte degli “studenti della rivoluzione”, e la presa dei diplomatici e dipendenti in ostaggio per quattordici mesi, dal 4 novembre 1979 al 20 gennaio 1981. Una vicenda che ha segnato il destino dell’Occidente, poiché ha portato Reagan, uno sconosciuto attore di terzo piano, alla presidenza degli Stati Uniti, che ha imposto il liberismo suicida nel quale l’Occidente è impigliato.
Si è potuto vedere nel documentario che la più determinata del commando (in realtà una folla, disordinata) era una donna, Masumeh Ebtekar. E lo è tuttora. Un altro personaggio del documentario, Ebrahim Asgharzadeh, si è detto il capo del commando e la mente del rapimento, ma Ebtekar, sotto i pepli, ne sapeva di più. Non per nulla è stata vice-presidente del governo, dal 2017 al 2021, dopo essere stata più volte ministro. Era un capo anche nelle immagini dell’epoca, quando ventenne inventava e coordinava informazioni e immagini per tenere sulla corda l’America, per 444 o più giorni.
Quella dell’ancella di Khomeiny è la stessa determinazione che ora, da due mesi, porta l’Iran in piazza contro il regime degli ayatollah. Del quale fu a suo tempo il fondamento: Khomeiny era un personaggio poco conosciuto e poco apprezzato (soprattutto a Qom, la superscuola teologica degli ayatollah) fra gli oppositori dello scià. Fu “creato” dai servizi segreti francesi, che lo pescarono dall’esilio isolato a Kerbala, in Iraq -  con la probabile collaborazione americana. Ma divenne il padrone dell’Iran per la massa d’urto delle donne coperte di nero che occuparono letteralmente le città iraniane il venerdì, per manifestare contro lo scià, e poi ogni altro giorno della settimana. Una massa d’urto contro la quale la polizia e l’esercito dello scià erano inermi.
Come Ebtekar, centinaia di altre giovani come lei, vestite di nero e incappucciate, si potevano vedere nei mesi e anni prima della rivolta, lungo i sentieri di passeggiata festiva sulle montagne sopra Teheran, addestrarsi in formazioni quadrate paramilitari, con la scusa dell’esercitazione fisica. Erano giovani donne le animatrici del movimento degli studenti filo-khomeinisti dei due anni di trapasso del regime, sotto la presidenza dell’economista Abol-Hassan Banisadr. E poi dei fidayn del popolo, la formazione islamista anti-Khomeiny.
Erano donne in età, massicce e ululanti, che occupavano per gli ayatollah i viali i Teheran nella transizione. Che presidiavano i primi tribunali politici, fuori e dentro il supercarcere di Evin. Che presidiarono ogni mattina gli ingressi e le tribune del Majlis, il Parlamento, nel lungo dibattito sul destino degli ostaggi americani, quasi tutti semplici impiegati.
Oggi fanno notizia, e rivoluzione, in Iran le donne giovani che protestano contro l’obbligo del velo. Ma sono la borghesia urbana, numerosa e affluente a Teheran – dislocata nei quartieri anche  mofolologicaente elevati (Teheran è una capitale di montagna, in salita, dai 1.100 ai 1.700 metri di altitudine), tante ricche e ricchissime cittadelle: Shemiran, “luogo fresco”, dove anche il probo Khomeiny aveva casa, Zafaraniyeh, Elahiyeh, Velenjak, Gheytarieh, Farmanieh, Kamranieh, Darband, Jamaran, Niavaran. Con i social queste rivoluzionarie sono dappertutto, ma non sono”tutte”. L’Iran era e resta – come anche la Turchia, di recente reislamizzazione – un paese rurale. Di una ruralità (tradizionalismo) che pesa anche nelle città, anche a Teheran Sud, attorno al bazar e ai bazarì, ai commercianti grandi e piccoli. Un mondo che soffre l’adozione di modi di vita diversi come una forzatura. Anche se modernizzante. E chiede alla politica quello che gli ayatollah danno: una legittimazione della tradizione, anche se sotto la forma del velo, e con la forca e lo scudiscio. Forse anche negli apparati commerciali e industriali più moderni è più alto il numero delle donne che si sentono protette dagli ayatollah, seppure con l’obbligo del velo – riconosciute, “portate” (un’analisi dell’“ayatollismo”, del radicamento sociale del regime islamico iraniano, resta ancora da fare, ma alcune cose sono chiare: senza le donne non ci sarebbe stato, e non ci sarebbe, il khomeinismo.  
Nell’ignoranza globale dei fatti mondiali, ce n’è una speciale sulle donne nell’islam. Diversa è la loro condizione – la loro mentalità e il loro status - fra l’islam desertico, nomadico ancora fino a cinquant’anni fa (Kuwait, Abu Dhabi, gli altri emirati minori, e la stessa Arabia Saudita davano premi per le tribù che si sedentarizzavano: la casa, l’automobile, le cure mediche), e quello urbano. In questo caso in Iran, civiltà da millenni urbana. Dove le donne sono al comando, seppure in casa - recluse peraltro volontarie. Tra i motivi che hanno perduto lo scià, la modernizzazione imposta alle donne è stato uno dei più diffusi, e anche determinante. Furono subiti come un abuso sia l’obbligo della coabitazione al lavoro e in società (la stretta di mano, per non dire dell’abbraccio), sia l’occidentalizzazione quasi forzata, sui modelli femminili occidentali, dal nudo alla libertà sessuale – che la donna iraniana esercita da tempo immemorabile con il sighè, matrimonio a tempo, ma senza esibizione.

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