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domenica 15 gennaio 2023

Secondi pensieri - 502

zeulig


Intelligenza – Camus la ipotizza venefica sulla bellezza. In un chiostro di Palma (di Maiorca), il “piccolo chiostro gotico di san Francisco”, con un pozzo, di acqua fresca, dove “il mondo perdurava, pudico, ironico e discreto (come certe forme dolci e riservate dell’amicizia femminile)”, si ritrova “inscritto per un breve istante nella durata del mondo”. E aggiunge: “E so perché allora pensavo agli occhi privi di sguardo degli Apollo dorici o ai personaggi ardenti e immobili di Giotto”. Aggiungendo in nota: “Con la comparsa del sorriso e dello sguardo iniziano la decadenza della scultura greca e la dispersone dell’arte italiana. Come se la bellezza cessasse dove comincia l’intelletto” – Amore di vivere”, racconto-saggio in “Il diritto e il rovescio”.


Ironia – “Il senso dell’ironia è una forte garanzia di libertà”, Maurice Barrès. Propria, si può pensare, e altrui. Romain Gary ne fa “una buona garanzia d’igiene mentale”.
Sainte-Beuve non l’apprezza e anzi la disprezza – la teme: “Guardiamoci dall’ironia giudicando. D i tutte le disposizioni dello spirito è la meno intelligente”.
È tema esclusivamente letterario, si direbbe dalle citazioni e dall’uso, specie in lingua tedesca, di Thomas Mann, di Musil – e in italiano dei siciliani, Pirandello, Sciascia (“Il razionalismo genera sempre il distacco dell’ironia. Perché la realtà non corrisponde alla ragione”), Tomasi di Lampedusa, Camilleri. L’unica riflessione è di Jankélévitch – dopo l’uso consigliato da Lord Shaftesbury nella “Lettera sull’entusiasmo”, come rimedio al fanatismo, specie quello religioso (e analogamente poi in Hegel, che ne fa il perno dell’aborrito idealismo di Fichte, “soggettività che riconosce se stessa come cosa suprema”). Ma non è all’origine del pensiero razionale – Socrate?


Libertà – È individuale, al fondo e nella durata (vita). È la fonte della creatività, Benedetto Croce: “La virtù creatrice si svolge in libertà” - “L’Anticristo che è in noi”. Nelle pagine in cui contesta il Behemot, la tirannia, che poi è lo Stato - ma Croce, hegeliano (poco) pentito, non può dirlo: gli ideali sono gli stessi per tutti, il vero, il bello, il bene, e solo con l’apporto di tutti e di ognuno si realizzano, il poco che se ne può realizzare.

Si può poetare, sognare, creare anche in cattività, ma con la mente libera, se non con il corpo.


Natura – È più celebrata, e più per la sua capacità di distruzione, nello storicismo integrale. È “la Forza vitale”, luogo e meccanismo della vitalità: così la intende Croce. A lungo, benché la sua propria esistenza ne sia stata condizionata, dal terremoto - ma non sempre, non alla fine, dopo la seconda guerra mondiale. Insindacabile anche nei suoi effetti nefasti: “Possiamo noi forse biasimare e condannare i modi e le operazioni con le quali si è formato e si conserva e di volta in volta si riassetta, mercé di terremoti e di eruzioni vulcaniche e d’inondazioni e di diluvî, questo globo terracqueo, senza del quale né la civiltà umana né l’uomo stesso sarebbe?” Nel saggio che intitola “La fine della civiltà”, ma ancora compassionevole, verso gli agenti della fine - tra essi la forza bruta, purché vincente: “E possiamo noi biasimare e condannare i modi con cui si formano i  grandi organismi dei popoli e dei loro Stati, che sono guerre e distruzioni e conquiste e dominazioni del più forte?”
Una sorta di panteismo naturalistico s’impone anche al liberalismo più aperto, meno astringente, meno ideologizzato, qual è quello dell’autore del “Perché non possiamo non dirci cristiani”, ma astretto al solipsismo morale, estraneo alla religione. Fino, curiosamente, al problema di oggi: “Che alle forze vitali dei popoli, da quelle che spinsero dalle preistoriche immigrazioni e alla storiche invasioni barbariche dei primi secoli dell’evo medio, e alle conquiste islamitiche, fino alle ultime a cui si è testé assistito e si assiste, sia dalla storia riconosciuto il diritto di attuarsi seminando sangue e desolazione, è cosa che non dà luogo a obiezione”.
Una sorta di panteismo naturalistico s’impone anche al liberalismo più aperto, meno astringente, meno ideologizzato, qual è quello dell’autore del “Perché non possiamo non dirci cristiani”, ma astretto al solipsismo morale, estraneo alla religione. Fino, curiosamente, al problema di oggi: “Che alle forze vitali dei popoli, da quelle che spinsero dalle preistoriche immigrazioni e alla storiche invasioni barbariche dei primi secoli dell’evo medio, e alle conquiste islamitiche, fino alle ultime a cui si è testé assistito e si assiste, sia dalla storia riconosciuto il diritto di attuarsi seminando sangue e desolazione, è cosa che non dà luogo a obiezione”.
Forze vitali, dunque, ingovernabili e incontestabili, la guerra motore della storia, lo hegeliano rimedio all’“infiacchimento dei popoli”, solo un gradino più basso della guerra igiene dell’umanità. Al “pessimista Leopardi con amaro sarcasmo” Croce oppone – continua a opporre dopo la seconda guerra mondiale che pure lo aveva terrorizzato – Hegel, “lo Hegel della possanza della natura” e “lo Hegel della potenza dello Stato”, con “la congiunta morale lezione della guerra che restaura la sanità morale dei popoli facendo sperimentare l’indifferenza verso le sussistenti determinazioni finite e salvandole così dall’impigrire e corrompersi  nella troppo lunga pace o nella pace perfetta, come il soffiare dei venti salva le acque dall’imputridire”. La guerra come il soffio dell’aria. Con la curiosa imputazione alla chiesa cattolica: “La stessa religione vieta di ribellarsi alla provvidenza del creatore del mondo, che ha creato il mondo, cioè, solo nel suo consiglio, ossia logicamente, poteva, e perciò nel crearlo ha approvato per buona l’opera sua”.
Lo stesso Croce opina per il male: “Gli stessi dolori e strazî che le azioni che essi (gli Stati, n.d.r.) perseguono arrecano alle genti umane, o l’una all’altra gente umana, sono pur la condizione senza la quale non sorgerebbero al mondo virtù, bontà, sacrificio, eroismo, libertà, tutto quanto sulla terra amiamo come celeste, veneriamo come divino, e a cui essi offrono la materia che la nuova forma idealizza e supera”. E se ci fossero dubbi: “Tutto quanto ci commuove e ci sublima nella poesia, sin dalla prima grande poesia della nostra civiltà europea, i canti omerici e le tragedie elleniche, così pieni di affanni ed errori…”.
Irrinunciabili, imprescindibili, le forze della natura vanno appropriate (secondate), confrontarle non si può – oggi, per esempio, con le immigrazioni? Una sorta di fatalismo nella libertà. Nella dottrina, e anzi nell’ideologia, della libertà.
“La guerra e la politica e l’economia” lo storicista integrale Croce considera “le leggi della forze vitali dell’uomo”. Una natura estesa.
 
Risentimento – L’artista ne è hanté, per definizione? Per Camus “due pericoli contrapposti minacciano ogni artista, il risentimento e la soddisfazione”.
È qualcosa, dice anche (senza dirlo), di analogo all’invidia, “il difetto tra noi più diffuso, vero cancro delle società e delle dottrine” – tra “noi” intellettuali. Più diffusa dell’invidia sociale: “La povertà non implica necessariamente l’invidia”, attesta sulla base dell’esperienza personale, familiare.
 
Storia - “La storia trova il suo senso nell’etica”, B. Croce, storicista assoluto pentito - “La fine della civiltà”. Che subito poi ha però “lo spettacolo della storia”?
 
“Il sole m’insegnò che la storia non è tutto”, riflette Camus nel 1958, presentando la riedizione dei suoi primi racconti-saggi, 1935-36, “Il diritto e il rovescio”: “La miseria mi impedì di credere che tutto è bene sotto il sole e nella storia: il sole mi insegnò….”.
 
Viaggio – “Un paese in cui non mi annoio è un paese che non mi insegna niente”, A. Camus, “La morte nell’anima” (in “Il diritto e il rovescio”): è una realtà “priva di fondale”. Ma subito dopo racconta di Vicenza, dove sta cinque giorni, fuori città, in collina, e non c’è momento che non ricordi con commozione, sebbene non faccia nulla tutto il giorno e nulla abbia da fare: si emoziona a un cambio impercettibile di luce, al taglio della collina, di un cipresso. Quello che intende è forse che nello spaesamento “il velo delle abitudini, la trama rassicurante delle parole e dei gesti, nei quali il cuore si assopisce pi
ano, si solleva per mostrare finalmente il volto livido dell’inquietudine. L’uomo è faccia a faccia con se stesso”. Il che, per la verità, può accadere anche nella stanza di casa.
Sta nello spaesamento il fascino del viaggio, nell’incognito, nel diverso che emerge, in una scoperta riflessa – non progettata ma immanente nello spostamento stesso, fisico, materiale. Camus stesso lo dice in altro racconto, nella stessa raccolta, “Amore di vivere”. In una diversa situazione, di piacere e non di angustia: “Sta proprio nella paura tutto il valore del viaggio. Esso distrugge in noi una specie di scenario interiore”. Perlomeno cambia le quinte.

zeulig@antiit.eu

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