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Intelligenza – Camus la ipotizza venefica sulla bellezza. In un chiostro di Palma (di Maiorca), il “piccolo chiostro gotico di san Francisco”, con un pozzo, di acqua fresca, dove “il mondo perdurava, pudico, ironico e discreto (come certe forme dolci e riservate dell’amicizia femminile)”, si ritrova “inscritto per un breve istante nella durata del mondo”. E aggiunge: “E so perché allora pensavo agli occhi privi di sguardo degli Apollo dorici o ai personaggi ardenti e immobili di Giotto”. Aggiungendo in nota: “Con la comparsa del sorriso e dello sguardo iniziano la decadenza della scultura greca e la dispersone dell’arte italiana. Come se la bellezza cessasse dove comincia l’intelletto” – Amore di vivere”, racconto-saggio in “Il diritto e il rovescio”.
Ironia – “Il senso dell’ironia è una forte garanzia
di libertà”, Maurice Barrès. Propria, si può pensare, e altrui. Romain Gary ne
fa “una buona garanzia d’igiene mentale”.
Sainte-Beuve non l’apprezza e anzi la
disprezza – la teme: “Guardiamoci dall’ironia giudicando. D i tutte le
disposizioni dello spirito è la meno intelligente”.
È tema esclusivamente letterario, si direbbe dalle citazioni e dall’uso,
specie in lingua tedesca, di Thomas Mann, di Musil – e in italiano dei
siciliani, Pirandello, Sciascia (“Il razionalismo
genera sempre il distacco dell’ironia. Perché la realtà non corrisponde alla
ragione”), Tomasi di Lampedusa, Camilleri. L’unica riflessione è di Jankélévitch – dopo l’uso consigliato da Lord
Shaftesbury nella “Lettera sull’entusiasmo”, come rimedio al fanatismo, specie quello
religioso (e analogamente poi in Hegel, che ne fa il perno dell’aborrito
idealismo di Fichte, “soggettività che riconosce se stessa come cosa suprema”).
Ma non è all’origine del pensiero razionale – Socrate?
Libertà – È individuale, al fondo e nella durata (vita). È la fonte della creatività, Benedetto Croce: “La virtù creatrice si svolge in libertà” - “L’Anticristo che è in noi”. Nelle pagine in cui contesta il Behemot, la tirannia, che poi è lo Stato - ma Croce, hegeliano (poco) pentito, non può dirlo: gli ideali sono gli stessi per tutti, il vero, il bello, il bene, e solo con l’apporto di tutti e di ognuno si realizzano, il poco che se ne può realizzare.
Si può poetare, sognare, creare anche in cattività, ma con la mente
libera, se non con il corpo.
Natura – È più celebrata, e più per la sua capacità di
distruzione, nello storicismo integrale. È “la Forza vitale”, luogo e meccanismo
della vitalità: così la intende Croce. A lungo, benché la sua propria esistenza
ne sia stata condizionata, dal terremoto - ma non sempre, non alla fine, dopo
la seconda guerra mondiale. Insindacabile anche nei suoi effetti nefasti: “Possiamo
noi forse biasimare e condannare i modi e le operazioni con le quali si è formato
e si conserva e di volta in volta si riassetta, mercé di terremoti e di
eruzioni vulcaniche e d’inondazioni e di diluvî, questo globo terracqueo, senza del quale né la civiltà umana né l’uomo
stesso sarebbe?” Nel saggio che intitola “La fine della civiltà”, ma ancora
compassionevole, verso gli agenti della fine - tra essi la forza bruta, purché
vincente: “E possiamo noi biasimare e condannare i modi con cui si formano
i grandi organismi dei popoli e dei loro
Stati, che sono guerre e distruzioni e conquiste e dominazioni del più forte?”
Una sorta di panteismo naturalistico s’impone anche al liberalismo più aperto,
meno astringente, meno ideologizzato, qual è quello dell’autore del “Perché non
possiamo non dirci cristiani”, ma astretto al solipsismo morale, estraneo alla
religione. Fino, curiosamente, al problema di oggi: “Che alle forze vitali dei
popoli, da quelle che spinsero dalle preistoriche immigrazioni e alla storiche
invasioni barbariche dei primi secoli dell’evo medio, e alle conquiste
islamitiche, fino alle ultime a cui si è testé assistito e si assiste, sia dalla
storia riconosciuto il diritto di attuarsi seminando sangue e desolazione, è
cosa che non dà luogo a obiezione”.
Una sorta di panteismo naturalistico s’impone anche al liberalismo più aperto,
meno astringente, meno ideologizzato, qual è quello dell’autore del “Perché non
possiamo non dirci cristiani”, ma astretto al solipsismo morale, estraneo alla
religione. Fino, curiosamente, al problema di oggi: “Che alle forze vitali dei
popoli, da quelle che spinsero dalle preistoriche immigrazioni e alla storiche
invasioni barbariche dei primi secoli dell’evo medio, e alle conquiste
islamitiche, fino alle ultime a cui si è testé assistito e si assiste, sia dalla
storia riconosciuto il diritto di attuarsi seminando sangue e desolazione, è
cosa che non dà luogo a obiezione”.
Forze vitali,
dunque, ingovernabili e incontestabili, la guerra motore della storia, lo
hegeliano rimedio all’“infiacchimento dei popoli”, solo un gradino più basso
della guerra igiene dell’umanità. Al “pessimista Leopardi con amaro sarcasmo”
Croce oppone – continua a opporre dopo la seconda guerra mondiale che pure lo
aveva terrorizzato – Hegel, “lo Hegel della possanza della natura” e “lo Hegel
della potenza dello Stato”, con “la congiunta morale lezione della guerra che
restaura la sanità morale dei popoli facendo sperimentare l’indifferenza verso
le sussistenti determinazioni finite e salvandole così dall’impigrire e
corrompersi nella troppo lunga pace o
nella pace perfetta, come il soffiare dei venti salva le acque
dall’imputridire”. La guerra come il soffio dell’aria. Con la curiosa imputazione
alla chiesa cattolica: “La stessa religione vieta di ribellarsi alla
provvidenza del creatore del mondo, che ha creato il mondo, cioè, solo nel suo
consiglio, ossia logicamente, poteva, e perciò nel crearlo ha approvato per
buona l’opera sua”.
Lo
stesso Croce opina per il male: “Gli stessi dolori e strazî che le azioni che essi (gli Stati, n.d.r.)
perseguono arrecano alle genti umane, o l’una all’altra gente umana, sono pur
la condizione senza la quale non sorgerebbero al mondo virtù, bontà,
sacrificio, eroismo, libertà, tutto quanto sulla terra amiamo come celeste,
veneriamo come divino, e a cui essi offrono la materia che la nuova forma
idealizza e supera”. E se ci fossero dubbi: “Tutto quanto ci commuove e ci
sublima nella poesia, sin dalla prima grande poesia della nostra civiltà europea,
i canti omerici e le tragedie elleniche, così pieni di affanni ed errori…”.
Irrinunciabili,
imprescindibili, le forze della natura vanno appropriate (secondate),
confrontarle non si può – oggi, per esempio, con le immigrazioni? Una sorta di
fatalismo nella libertà. Nella dottrina, e anzi nell’ideologia, della libertà.
“La
guerra e la politica e l’economia” lo storicista integrale Croce considera “le leggi
della forze vitali dell’uomo”. Una natura estesa.
Risentimento – L’artista ne è hanté, per definizione?
Per Camus “due pericoli contrapposti minacciano ogni artista, il risentimento e
la soddisfazione”.
È qualcosa, dice anche (senza
dirlo), di analogo all’invidia, “il difetto tra noi più diffuso, vero cancro
delle società e delle dottrine” – tra “noi” intellettuali. Più diffusa dell’invidia
sociale: “La povertà non implica necessariamente l’invidia”, attesta sulla base
dell’esperienza personale, familiare.
Storia - “La storia trova il suo senso nell’etica”, B. Croce,
storicista assoluto pentito - “La fine della civiltà”. Che subito poi ha però “lo
spettacolo della storia”?
“Il sole m’insegnò che la storia non è tutto”,
riflette Camus nel 1958, presentando la riedizione dei suoi primi racconti-saggi,
1935-36, “Il diritto e il rovescio”: “La miseria mi impedì di credere che tutto
è bene sotto il sole e nella storia: il sole mi insegnò….”.
Viaggio – “Un paese in cui non mi annoio è un paese che
non mi insegna niente”, A. Camus, “La morte nell’anima” (in “Il diritto e il
rovescio”): è una realtà “priva di fondale”. Ma subito dopo racconta di Vicenza,
dove sta cinque giorni, fuori città, in collina, e non c’è momento che non
ricordi con commozione, sebbene non faccia nulla tutto il giorno e nulla abbia
da fare: si emoziona a un cambio impercettibile di luce, al taglio della collina,
di un cipresso. Quello che intende è forse che nello spaesamento “il velo delle
abitudini, la trama rassicurante delle parole e dei gesti, nei quali il cuore
si assopisce piano, si solleva per mostrare finalmente il volto livido
dell’inquietudine. L’uomo è faccia a faccia con se stesso”. Il che, per la
verità, può accadere anche nella stanza di casa.
Sta nello spaesamento il fascino del viaggio,
nell’incognito, nel diverso che emerge, in una scoperta riflessa – non
progettata ma immanente nello spostamento stesso, fisico, materiale. Camus
stesso lo dice in altro racconto, nella stessa raccolta, “Amore di vivere”. In
una diversa situazione, di piacere e non di angustia: “Sta proprio nella paura
tutto il valore del viaggio. Esso distrugge in noi una specie di scenario
interiore”. Perlomeno cambia le quinte.
zeulig@antiit.eu
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