Giuseppe Leuzzi
Dunque, nella campagna elettorale per la Regione
Lombardia, il candidato dem Majorino incitava I suoi così: “La Lombardia non è la
Calabria, è una Regione con grandi potenzialità e un sacco di gente che si dà
da fare”. Pensava di prendere i voti dei calabresi residenti in Lombardia –
qualche milione? Voleva imitare la Lega? Ma il problema non è Majorino – che
era costui? Il problema è il partito Democratico, tutti i partiti, la politica:
una mediocrità impensabile, se non fossero l’Italia.
Continua il build-up di Messina
Denaro, da primula rssa, e quindi eroe, della amfia, come già avveniva nei suoi
anni venti, nella buoa società di Palermo. Di un personaggio mediocre sotto
tutti gli aspetti, eroe di nessuna impresa memorabile, se non gli eccidi. Peraltro
ordinati, non di mano propria. Se ne fa un Personaggio per una copia o uno spettatore
in più. La mafia per sé non fa audience, non ci sono belli o buoni in un
solo momento della loro vita, i mafiosi sono mediocri. Perché farne icone?
Perché il Sud si persta a questa spettacolarizzazione che lo rovina?
Sembra strano che l’antimafia non sia
popolare nelle aree di mafia, essendo una protezione. Perché non si sa da chi.
Si provi a fare una denuncia di grassazione mafisoa. Non succede nulla. Al più
si viene indagati: perché la denuncia ora e non in passato? Si era contigui a
una mafia e ora si passa a un’altra.
Passino i beni del denunciante a una delle
associazioni o ong antimafia, dopo confisca per “contiguità” (basta la aprola,
non c’è bisogno di dimostrarlo), ogni spostamento dei membri dell’associazione
e ogni loro macchina o utensile sarà protetto militarmente.
Un film fortemene improbabile, “Koza Nostra”,
di una nonna ucraina che liquida tutto al suo paese per accorrere in Sicilia e
dare una mano alla figlia neo madre, e finisce per terremore la mafia, non è che
una commedia buffa, del genere grottesco (un gioiellino). Ma I mafiosi che inscena
non sono diversi dalla realtà: quando non sparano non sono niente, più balordi
o scimuniti che altro. Chi dice che le mafie sono invincibili? Sembra roba da
carriere facili, tra polizie e giudici. Mentre basterebbe lavorare. Non tutti I
giorni, ma qualcuno sì.
A Soreni, il paese sardo di “Accabadora”,
il racconto-saggio di Michela Murgia, “la parola «giustizia» aveva lo stesso
spazio di senso delle peggiori maledizioni, e veniva pronunciata solo quando
c’erano da evocare cieche persecuzioni contro qualcuno”. A Soreni come in tutta
la Sardegna, usava dire Cossiga, il presidente della Repubblica costituzionalista.
Come in tutto il Sud, fin dall’unità, che presto fu brutale.
Murgia spiega in breve (sgonfia) la questione
Stato al Sud: il Sud è risentito contro lo Stato, dice. No, ne ha paura.
Bellezza a perdere – e i 100 del Piria
Angela Robusti, compagna di Pippo Inzaghi, allenatore della
Reggina, padovana, architetta, si dichiara felice di stare a Reggio Calabria, a
Elvira Serra sul “Corriere della sera”: “Dalla finestra vedo l’Etna innevato,
Messina e Taormina. E magnolie secolari. Però…”. Però, “qui in centro, che
dovrebbe essere il posto migliore, i marciapiedi sono sconnessi, non esistono rampe,
ci sono buche da trenta centimetri”. Vero, anche più larghe, e profonde. Non da
ora.
La città non ha sindaco da un anno. È stato sospeso per la legge
Severino, per essere stato condannato in primo grado a un anno e quattro mesi,
reo di avere tentato la vendita di un albergo sequestrato da tempo in disuso a
un imprenditore amico invece che per asta pubblica. Ma le buche preesistevano.
Giuseppe Falcomatà, Pd, sindaco per quasi dieci anni, dal
2014, quando aveva inaugurato con Renzi in città la novelle vague dei
rottamatori, non si è occupato delle buche, né di amministrazione in genere. A differenza
del padre Italo, del cui lascito politico ha beneficiato, sindaco a fine
Novecento per due mandati, che invece aveva curato l’aspetto e il funzionamento
della città.
Ma non ci sono solo le buche a Reggio, anche “la spazzatura”,
dice Angela Robusti, “mozziconi, cartacce, plastica”. È vero, in quantitativi
che fanno impressione anche a chi è abituato alla negligenza della nettezza
urbana di Roma. Per rimediare l’architetta, di professione organizzatrice di
eventi, ha cominciato a pulire “un’aiuola, con paletta e rastrello”, poi ha
associato un’amica alla cura-fai-da-te, poi ha creato il logo #noiamiamoreggio,
poi ha imbarcato qualche ragazzo volenteroso. L’idea era di arrivare a dare una
ramazzata a tutto il lungomare. E c’è arrivata, l’altro venerdì ha pulito tutto
il lungomare, un km. o poco meno, e anche, giacché c’era, un quartiere di periferia,
Rione Marconi. Il come merita un’altra citazione.
“Un ragazzo che si voleva candidare alla rappresentanza degli
studenti dello Scientifico Vinci mi ha chiesto se poteva inserire nel programma”
l’idea della ramazzata “privata”. “Docenti entusiasti?” “Macché! La maggior parte
si è ribellata: «Fa freddo», «Non è sicuro», «È pericoloso». Perfino 200
genitori si sono opposti”. Gli studenti hanno allora deciso autonomamente: “Avrebbe
partecipato solo chi voleva, 304 ragazzi”. Ma non è finita. L’architetta ha
avuto un’altra idea: “Allora ho coinvolto il professionale Piria, e lì hanno
aderito tutti: mille. Più una cinquantina di professori”
Perché il Piria? Non si sa. Ma si può opinare: il Piria è liceo
calabrese che ogni anno a fine giugno fa imbufalire un altro padovano, di Asolo,
Gian Antonio Stella, sullo stesso giornale, perché prende troppi 100 alla maturità.
Le mafie all’Est
Nel taccuino di un viaggio in Romania nell’aprile del 1993,
c’è il ritorno da Bucarest su un volo Alitalia: “Il compagno di fila, interpellato
come avvocato e come colonnello, è conosciutissimo, a terra e a bordo, e arde
dal desiderio di sapere chi sono – o probabilmente lo sa, vuole solo
attaccare bottone. Mi cautelo dietro libri in inglese. Venendo all’aeroporto ha
portato arance per tutti, se ho ben capito. Parla con accento napoletano marcato,
di Napoli città, dei bassi e non del Vomero, che però questa volta non mi
piace. La sua facondia fa delle quattro file di business class il circolo
dell’aereo, tutti interloquiscono, anche il personale Alitalia. Un bruttissimo
e volgarissimo catanese, il tipo del gaglioffo in libertà, ha guadagnato 120
mila dollari in un anno, dice, comprando e vendendo appartamenti a Mosca. Un
suo compare di squallore, sembrano sporchi, lievemente più composto, ha arredato
due “ristoranti di lusso” a Bucarest, d’angolo su piazza, col mobilio smesso di
un suo ristorante sulle gole dell’Alcantara. Un anziano geometra barese (siamo
tutti meridionali), che combina matrimoni, sta riportando in patria due vecchi
a cui ha fatto vedere di persona alcune signore-signorine rumene. Si fa dare,
dice, due milioni e mezzo a persona, i vecchi non parlano, assentono, per il
viaggio, aereo e albergo. Viene rimproverato: “Sfrutti i poveri”. Si difende:
“Al contrario, li rendo felici”. Sono due sardi rugosi, con pochi denti – con i
sardi non si sa se sono contadini o ricchi padroni, ma senz’altro sono
contenti. L’unico altro silenzioso in business è un quaranta-cinquantenne
riccioluto che fuma, spiccicato a Carmine Alfieri, il boss della camorra. Che
gli accompagnatori a Bucarest hanno detto più volte un frequent flier
con l’Italia, ma è stato arrestato sei mesi fa. A meno che non si sia pentito
nel frattempo – il “pentimento” consente l’espatrio?
La mafia è inestirpabile, f.to Cossiga
“Dobbiamo
rassegnarci a convivere con il potere mafioso, con quello ‘ndranghetista e con
quello camorrista perché non ci sono estranei”: così, alla notizia
dell’arresto di Messina Denaro, Andrea Cangini ricorda l’opinione di Francesco
Cossiga, come l’aveva riportata nel libro a quattro mani dal titolo “cossighiano”
“Fotti il potere. Gli arcana della politica e dell’umana natura”,
pubblicato a fine maggio 2010, due mesi prima della morte dell’illustre
personaggio:
“Parlavamo,
col presidente emerito della Repubblica, di quello che Leonardo Sciascia chiamava
“il contesto”. Ovvero del perché la mafia poté metter radici in Sicilia. Il
capo brigatista Mario Moretti spiegò
che la forza delle Br stava non tanto nella loro capacità di fuoco, quanto
nella loro capacità di “influenza”. In quello che fu definitivo “brodo di
coltura”: negli oltre 600mila italiani che, secondo l’intelligence americana,
fiancheggiavano concretamente le Brigate rosse e nei tanti, tantissimi di più
che ne condividevano le motivazioni per così dire politiche. Secondo Cossiga,
per ragioni analoghe le mafie hanno prosperato, ma, a differenza delle Brigate
Rosse, sconfiggerle non sarebbe stato così facile.
“Nel salotto
del suo appartamento romano di via Ennio Quirino Visconti, dove lavoravamo al
libro-intervista “Fotti il potere, gli arcana della politica e della natura
umana”, Francesco Cossiga la mise così: “Dobbiamo rassegnarci a convivere con
il potere mafioso, con quello ‘ndranghetista e con quello camorrista perché non
ci sono estranei: sono espressione del carattere della gente cui si rivolgono e
corrispondono a un sentimento radicato in alcuni popoli italiani”. Parlava di
“popoli”, Cossiga, perché era convinto che l’identità nazionale italiana altro
non fosse che un patchwork di identità locali. E con altrettanta pervicacia era
convinto che le dominazioni straniere subite nei secoli avessero radicato negli
italiani in generale e nei “popoli” siciliano, calabrese e campano in
particolare non solo un’istintiva resistenza al potere legale dello Stato, ma
anche una naturale tendenza a dotarsi di un contropotere ovviamente illegale.
Contropotere di cui la politica, anche quando non è oggettivamente “mafiosa”,
finisce spesso per tenere conto.
“La
conclusione fu tanto amara, quanto, nello stile del presidente emerito,
paradossale: “Ci sarebbe solo un modo per estirpare la malapianta della
criminalità organizzata: il terrorismo di Stato. Farli fuori tutti,
naturalmente in silenzio. Ma è un programma troppo vasto per un piccolo Paese
come il nostro”.
E uno non sa che pensare. Cossiga parlava da presidente della
Repubblica, ex, sette anni di suprema magistratura. Dopo essere stato ministro
dell’Interno e presidente del consiglio – il ministro dell’Interno certo è
temibile, ma Cossiga lo fui controverso al tempo del sequestro e dell’assassinio
di Moro: ciclotimico, farfallone, poco impegnato nella questione della
sopravvivenza di Moro. E poi non aveva già pontificato, al tempo dell’Anonima
Sequestri in Sardegna, della balentìa inestirpabile fra la sua gente,
quando poco dopo, presi finalmente i (pochi) sequestratori, il “fenomeno” è
scomparso? Il Sud, Sardegna compresa, è vittima di se stesso – oppure si fa
convincere senza resistenza, bastano i boatos, anche pochi.
Tutto il male viene
da Milano
Ci fosse un’editoria indipendente, cioè non milanese, una narrazione
facile si potrebbe o dovrebbe costruire sul male che viene da Milano. Da Bava
Beccaris al fascismo, a piazzale Loreto, senza aver fatto la Resistenza, al terrorismo,
al leghismo, alla barbarie giudiziaria che dal processo Sofri, quindi da quarantaquattro
anni, distrugge l’Italia. Compresi, come si fa a negarlo?, i trent’anni d’inutile
caccia a un milanesissimo Berlusconi, cui Milano invidia il successo:
cinquecento perquisizioni della Guardia di Finanza in un anno sono roba da
inquisizione, e la dozzina di processi - in uno di questi “Milano” è riuscita a
condannarlo per una pratica, la costituzione di fondi all’estero attraverso
acquisti gonfiati di diritti telecinematografici, che era corrente a Milano ma
di altri soggetti (sicuramente la Rcs Corriere della sera, e probabilmente altre
emittenti non berlusconiane, nel settore questo era notorio). Un Manzoni millennial
non avrebbe dubbi a fare questa storia infame.
Ma la barbarie, certo, può essere produttiva – sicuramente avremo
un po’ di cancel culture, cos’è tutto questo ossequio alla
giustizia e alla moralità.
E la ricchezza viene per nuocere
La Calabria è l’Enotria, spiega il settimanale “I piaceri del gusto”,
“culla di civiltà e terra madre del vino”, quella che per prima ha coltivato e
poi ha diffuso in Europa e altrove le specie e gli incroci più comuni. Partendo
dal Sangiovese e dal Mantonico. Fino alla Glera, l’uva del prosecco, figlia
dell’uva Vulpea, che è figlia dell’uva Visparola, dall’Enotria-Calabria emigrata
in Sicilia, Emilia-Romagna, Toscana e Veneto. “Un’area considerata dagli
studiosi «zona di convergenza genetica», cioè il più importante centro di
diffusione della viticultura nel bacino del Mediterraneo occidentale”. Con moltissime
sottospecie, vitigni autoctoni, di cui si tenta – sarebbe opportuno tentare –
il recupero.
Periodicamente si scopre che la Calabria ha una
miniera a cielo aperto. Avrebbe, se volesse: i tesori sono naturali, la
ricchezza è umana, impegno, ingegno, fortuna anche, che però va tentata, provata.
Vanta 140 (o 180?) vitigni antichi, “autoctoni”, un record, tra cui i rossi
gaglioppo e magliocco, e i bianchi greco, mantonico e pecorella, e non produce
quasi vino. Giusto 90 mila ettolitri l’anno, poco più della Basilicata - ultima
regione in Italia per la produzione di vino, se si eccettua la valle d’Aosta.
Il Molise, con una superficie di un quarto, poco meno, e altrettanto montuoso,
ne produce due volte e mezzo.
Se la Calabria non stesse dietro al “posto”, e alle
mafie, non avrebbe di che lamentarsi. Per i vitigni come per tante altre risorse
naturali – basta fare il confronto con la natura avara dell’Emilia, o con le
valli strette delle Alpi. Avessero un decimo dei suoi vitigni a Franciacorta,
e magari un decimo della sua insolazione, secca e non umida, conquisterebbero
il mondo.
leuzzi@antiit.eu
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