sabato 18 febbraio 2023

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (516)

Giuseppe Leuzzi

Dunque, nella campagna elettorale per la Regione Lombardia, il candidato dem Majorino incitava I suoi così: “La Lombardia non è la Calabria, è una Regione con grandi potenzialità e un sacco di gente che si dà da fare”. Pensava di prendere i voti dei calabresi residenti in Lombardia – qualche milione? Voleva imitare la Lega? Ma il problema non è Majorino – che era costui? Il problema è il partito Democratico, tutti i partiti, la politica: una mediocrità impensabile, se non fossero l’Italia.
 
Continua il build-up di Messina Denaro, da primula rssa, e quindi eroe, della amfia, come già avveniva nei suoi anni venti, nella buoa società di Palermo. Di un personaggio mediocre sotto tutti gli aspetti, eroe di nessuna impresa memorabile, se non gli eccidi. Peraltro ordinati, non di mano propria. Se ne fa un Personaggio per una copia o uno spettatore in più. La mafia per sé non fa audience, non ci sono belli o buoni in un solo momento della loro vita, i mafiosi sono mediocri. Perché farne icone? Perché il Sud si persta a questa spettacolarizzazione che lo rovina?
 
Sembra strano che l’antimafia non sia popolare nelle aree di mafia, essendo una protezione. Perché non si sa da chi. Si provi a fare una denuncia di grassazione mafisoa. Non succede nulla. Al più si viene indagati: perché la denuncia ora e non in passato? Si era contigui a una mafia e ora si passa a un’altra.
Passino i beni del denunciante a una delle associazioni o ong antimafia, dopo confisca per “contiguità” (basta la aprola, non c’è bisogno di dimostrarlo), ogni spostamento dei membri dell’associazione e ogni loro macchina o utensile sarà protetto militarmente.
 
Un film fortemene improbabile, “Koza Nostra”, di una nonna ucraina che liquida tutto al suo paese per accorrere in Sicilia e dare una mano alla figlia neo madre, e finisce per terremore la mafia, non è che una commedia buffa, del genere grottesco (un gioiellino). Ma I mafiosi che inscena non sono diversi dalla realtà: quando non sparano non sono niente, più balordi o scimuniti che altro. Chi dice che le mafie sono invincibili? Sembra roba da carriere facili, tra polizie e giudici. Mentre basterebbe lavorare. Non tutti I giorni, ma qualcuno sì.
 
A Soreni, il paese sardo di “Accabadora”, il racconto-saggio di Michela Murgia, “la parola «giustizia» aveva lo stesso spazio di senso delle peggiori maledizioni, e veniva pronunciata solo quando c’erano da evocare cieche persecuzioni contro qualcuno”. A Soreni come in tutta la Sardegna, usava dire Cossiga, il presidente della Repubblica costituzionalista. Come in tutto il Sud, fin dall’unità, che presto fu brutale.
Murgia spiega in breve (sgonfia) la questione Stato al Sud: il Sud è risentito contro lo Stato, dice. No, ne ha paura.
 
Bellezza a perdere – e i 100 del Piria
Angela Robusti, compagna di Pippo Inzaghi, allenatore della Reggina, padovana, architetta, si dichiara felice di stare a Reggio Calabria, a Elvira Serra sul “Corriere della sera”: “Dalla finestra vedo l’Etna innevato, Messina e Taormina. E magnolie secolari. Però…”. Però, “qui in centro, che dovrebbe essere il posto migliore, i marciapiedi sono sconnessi, non esistono rampe, ci sono buche da trenta centimetri”. Vero, anche più larghe, e profonde. Non da ora.
La città non ha sindaco da un anno. È stato sospeso per la legge Severino, per essere stato condannato in primo grado a un anno e quattro mesi, reo di avere tentato la vendita di un albergo sequestrato da tempo in disuso a un imprenditore amico invece che per asta pubblica. Ma le buche preesistevano.
Giuseppe Falcomatà, Pd, sindaco per quasi dieci anni, dal 2014, quando aveva inaugurato con Renzi in città la novelle vague dei rottamatori, non si è occupato delle buche, né di amministrazione in genere. A differenza del padre Italo, del cui lascito politico ha beneficiato, sindaco a fine Novecento per due mandati, che invece aveva curato l’aspetto e il funzionamento della città.
Ma non ci sono solo le buche a Reggio, anche “la spazzatura”, dice Angela Robusti, “mozziconi, cartacce, plastica”. È vero, in quantitativi che fanno impressione anche a chi è abituato alla negligenza della nettezza urbana di Roma. Per rimediare l’architetta, di professione organizzatrice di eventi, ha cominciato a pulire “un’aiuola, con paletta e rastrello”, poi ha associato un’amica alla cura-fai-da-te, poi ha creato il logo #noiamiamoreggio, poi ha imbarcato qualche ragazzo volenteroso. L’idea era di arrivare a dare una ramazzata a tutto il lungomare. E c’è arrivata, l’altro venerdì ha pulito tutto il lungomare, un km. o poco meno, e anche, giacché c’era, un quartiere di periferia, Rione Marconi. Il come merita un’altra citazione.
“Un ragazzo che si voleva candidare alla rappresentanza degli studenti dello Scientifico Vinci mi ha chiesto se poteva inserire nel programma” l’idea della ramazzata “privata”. “Docenti entusiasti?” “Macché! La maggior parte si è ribellata: «Fa freddo», «Non è sicuro», «È pericoloso». Perfino 200 genitori si sono opposti”. Gli studenti hanno allora deciso autonomamente: “Avrebbe partecipato solo chi voleva, 304 ragazzi”. Ma non è finita. L’architetta ha avuto un’altra idea: “Allora ho coinvolto il professionale Piria, e lì hanno aderito tutti: mille. Più una cinquantina di professori”
Perché il Piria? Non si sa. Ma si può opinare: il Piria è liceo calabrese che ogni anno a fine giugno fa imbufalire un altro padovano, di Asolo, Gian Antonio Stella, sullo stesso giornale, perché prende troppi 100 alla maturità.
 
Le mafie all’Est
Nel taccuino di un viaggio in Romania nell’aprile del 1993, c’è il ritorno da Bucarest su un volo Alitalia: “Il compagno di fila, interpellato come avvocato e come colonnello, è conosciutissimo, a terra e a bordo, e arde dal desiderio di sapere chi sono – o probabilmente lo sa, vuole solo attaccare bottone. Mi cautelo dietro libri in inglese. Venendo all’aeroporto ha portato arance per tutti, se ho ben capito. Parla con accento napoletano marcato, di Napoli città, dei bassi e non del Vomero, che però questa volta non mi piace. La sua facondia fa delle quattro file di business class il circolo dell’aereo, tutti interloquiscono, anche il personale Alitalia. Un bruttissimo e volgarissimo catanese, il tipo del gaglioffo in libertà, ha guadagnato 120 mila dollari in un anno, dice, comprando e vendendo appartamenti a Mosca. Un suo compare di squallore, sembrano sporchi, lievemente più composto, ha arredato due “ristoranti di lusso” a Bucarest, d’angolo su piazza, col mobilio smesso di un suo ristorante sulle gole dell’Alcantara. Un anziano geometra barese (siamo tutti meridionali), che combina matrimoni, sta riportando in patria due vecchi a cui ha fatto vedere di persona alcune signore-signorine rumene. Si fa dare, dice, due milioni e mezzo a persona, i vecchi non parlano, assentono, per il viaggio, aereo e albergo. Viene rimproverato: “Sfrutti i poveri”. Si difende: “Al contrario, li rendo felici”. Sono due sardi rugosi, con pochi denti – con i sardi non si sa se sono contadini o ricchi padroni, ma senz’altro sono contenti. L’unico altro silenzioso in business è un quaranta-cinquantenne riccioluto che fuma, spiccicato a Carmine Alfieri, il boss della camorra. Che gli accompagnatori a Bucarest hanno detto più volte un frequent flier con l’Italia, ma è stato arrestato sei mesi fa. A meno che non si sia pentito nel frattempo – il “pentimento” consente l’espatrio?  
 
La mafia è inestirpabile, f.to Cossiga
“Dobbiamo rassegnarci a convivere con il potere mafioso, con quello ‘ndranghetista e con quello camorrista perché non ci sono estranei”: così, alla notizia dell’arresto di Messina Denaro, Andrea Cangini ricorda l’opinione di Francesco Cossiga, come l’aveva riportata nel libro a quattro mani dal titolo “cossighiano” “Fotti il potere. Gli arcana della politica e dell’umana natura”, pubblicato a fine maggio 2010, due mesi prima della morte dell’illustre personaggio:
“Parlavamo, col presidente emerito della Repubblica, di quello che Leonardo Sciascia chiamava “il contesto”. Ovvero del perché la mafia poté metter radici in Sicilia. Il capo brigatista Mario Moretti spiegò che la forza delle Br stava non tanto nella loro capacità di fuoco, quanto nella loro capacità di “influenza”. In quello che fu definitivo “brodo di coltura”: negli oltre 600mila italiani che, secondo l’intelligence americana, fiancheggiavano concretamente le Brigate rosse e nei tanti, tantissimi di più che ne condividevano le motivazioni per così dire politiche. Secondo Cossiga, per ragioni analoghe le mafie hanno prosperato, ma, a differenza delle Brigate Rosse, sconfiggerle non sarebbe stato così facile.
“Nel salotto del suo appartamento romano di via Ennio Quirino Visconti, dove lavoravamo al libro-intervista “Fotti il potere, gli arcana della politica e della natura umana”, Francesco Cossiga la mise così: “Dobbiamo rassegnarci a convivere con il potere mafioso, con quello ‘ndranghetista e con quello camorrista perché non ci sono estranei: sono espressione del carattere della gente cui si rivolgono e corrispondono a un sentimento radicato in alcuni popoli italiani”. Parlava di “popoli”, Cossiga, perché era convinto che l’identità nazionale italiana altro non fosse che un patchwork di identità locali. E con altrettanta pervicacia era convinto che le dominazioni straniere subite nei secoli avessero radicato negli italiani in generale e nei “popoli” siciliano, calabrese e campano in particolare non solo un’istintiva resistenza al potere legale dello Stato, ma anche una naturale tendenza a dotarsi di un contropotere ovviamente illegale. Contropotere di cui la politica, anche quando non è oggettivamente “mafiosa”, finisce spesso per tenere conto.
“La conclusione fu tanto amara, quanto, nello stile del presidente emerito, paradossale: “Ci sarebbe solo un modo per estirpare la malapianta della criminalità organizzata: il terrorismo di Stato. Farli fuori tutti, naturalmente in silenzio. Ma è un programma troppo vasto per un piccolo Paese come il nostro”.
E uno non sa che pensare. Cossiga parlava da presidente della Repubblica, ex, sette anni di suprema magistratura. Dopo essere stato ministro dell’Interno e presidente del consiglio – il ministro dell’Interno certo è temibile, ma Cossiga lo fui controverso al tempo del sequestro e dell’assassinio di Moro: ciclotimico, farfallone, poco impegnato nella questione della sopravvivenza di Moro. E poi non aveva già pontificato, al tempo dell’Anonima Sequestri in Sardegna, della balentìa inestirpabile fra la sua gente, quando poco dopo, presi finalmente i (pochi) sequestratori, il “fenomeno” è scomparso? Il Sud, Sardegna compresa, è vittima di se stesso – oppure si fa convincere senza resistenza, bastano i boatos, anche pochi.
 

Tutto il male viene da Milano
Ci fosse un’editoria indipendente, cioè non milanese, una narrazione facile si potrebbe o dovrebbe costruire sul male che viene da Milano. Da Bava Beccaris al fascismo, a piazzale Loreto, senza aver fatto la Resistenza, al terrorismo, al leghismo, alla barbarie giudiziaria che dal processo Sofri, quindi da quarantaquattro anni, distrugge l’Italia. Compresi, come si fa a negarlo?, i trent’anni d’inutile caccia a un milanesissimo Berlusconi, cui Milano invidia il successo: cinquecento perquisizioni della Guardia di Finanza in un anno sono roba da inquisizione, e la dozzina di processi - in uno di questi “Milano” è riuscita a condannarlo per una pratica, la costituzione di fondi all’estero attraverso acquisti gonfiati di diritti telecinematografici, che era corrente a Milano ma di altri soggetti (sicuramente la Rcs Corriere della sera, e probabilmente altre emittenti non berlusconiane, nel settore questo era notorio). Un Manzoni millennial non avrebbe dubbi a fare questa storia infame.
Ma la barbarie, certo, può essere produttiva – sicuramente avremo un po’ di cancel culture, cos’è tutto questo ossequio alla giustizia e alla moralità.
 
E la ricchezza viene per nuocere
La Calabria è l’Enotria, spiega il settimanale “I piaceri del gusto”, “culla di civiltà e terra madre del vino”, quella che per prima ha coltivato e poi ha diffuso in Europa e altrove le specie e gli incroci più comuni. Partendo dal Sangiovese e dal Mantonico. Fino alla Glera, l’uva del prosecco, figlia dell’uva Vulpea, che è figlia dell’uva Visparola, dall’Enotria-Calabria emigrata in Sicilia, Emilia-Romagna, Toscana e Veneto. “Un’area considerata dagli studiosi «zona di convergenza genetica», cioè il più importante centro di diffusione della viticultura nel bacino del Mediterraneo occidentale”. Con moltissime sottospecie, vitigni autoctoni, di cui si tenta – sarebbe opportuno tentare – il recupero.
Periodicamente si scopre che la Calabria ha una miniera a cielo aperto. Avrebbe, se volesse: i tesori sono naturali, la ricchezza è umana, impegno, ingegno, fortuna anche, che però va tentata, provata. Vanta 140 (o 180?) vitigni antichi, “autoctoni”, un record, tra cui i rossi gaglioppo e magliocco, e i bianchi greco, mantonico e pecorella, e non produce quasi vino. Giusto 90 mila ettolitri l’anno, poco più della Basilicata - ultima regione in Italia per la produzione di vino, se si eccettua la valle d’Aosta. Il Molise, con una superficie di un quarto, poco meno, e altrettanto montuoso, ne produce due volte e mezzo.
Se la Calabria non stesse dietro al “posto”, e alle mafie, non avrebbe di che lamentarsi. Per i vitigni come per tante altre risorse naturali – basta fare il confronto con la natura avara dell’Emilia, o con le valli strette delle Alpi. Avessero un decimo dei suoi vitigni a Franciacorta, e magari un decimo della sua insolazione, secca e non umida, conquisterebbero il mondo.

leuzzi@antiit.eu


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