Dalla globalizzazione al confronto, la leadership americana
La Germania
riarma, il Giappone pure, e di conseguenza la Corea: l’Occidente è perento, di fatto,
ognuno si difende da sé – non subito ma presto. Gli Stati Uniti sfidano la
Cina e l’Europa nell’industria dei chip e nella nuova frontiera industriale dell’intelligenza
artificiale. Gli Stati Uniti sfidano la Cina e la Russia con fronti di guerra a
Taiwan e in Ucraina. E contro Bruxelles, last but not least, adottano coefficienti bancari più permissivi, rispetto a quelli teoricamente obbligatori di Basilea.
Dalla
globalizzazione economica non si passa al multilateralismo politico (alla “bilancia
dei poteri” come Kissinger aveva divisato il multilateralismo), ma alla
leadership americana infine dichiarata.
Le “catene
di valore” (assetti produttivi) rimangono ancora globali, con la Cina, e sempre
più l’India, fabbriche del mondo, i guadagni sono sempre altissimi. L’interscambio cino-americano nel 2022 è stato da
record, sui 700 miliardi di dollari. Malgrado i problemi iniziali dei trasporti
marittimi, che hanno acceso l’inflazione in America, e le restrizioni covid,
specie in Cina. Ma il protezionismo
avanza. Non ancora con i dazi, ma sì col mercantilismo: con le sovvenzioni alle
industrie nazionali e i contingenti alle importazioni. “Quando attueremo questo progetti”, ha appena
detto il presidente americano Biden nel solenne discorso annuale sullo stato
dell’Unione, cioè quando saranno operative le sue due leggi per incentivare e
sussidiare infrastrutture, industrie e tecnologie americane, “compreremo
americano. Buy American è stata la legge del Paese dal 1933. Per
troppo tempo le amministrazioni del passato hanno trovato il modo di aggirarla.
Ora non più”.
Le due leggi
qualificanti del primo biennio della presidenza Biden, l’Innovation and
Competition Act del 28 marzo 2022 e il Chips and Science Act del 9 agosto,
entrambe largamente dotate, e votate all’unanimità, sono dichiaratamente protezionistiche
e aggressive. Sotto argomentazioni chiaramente pretestuose di difesa militare. La
presentazione del Chips Act è stata lasciata al consigliere presidenziale per
la Sicurezza, Jake Sullivan, per il quale si avvia “un investimento più grande del
costo reale del progetto Manhattan”, del progetto per la bomba atomica, con l’obiettivo
di “imporre costi agli avversari, e con il tempo perfino degradare la loro capacità
sul campo di battaglia”. Ma lo scopo vero e notorio è bloccare la crescita della
Cina come potenza economica al di sopra degli Stati Uniti.
È un
cambiamento – una deriva – che gli Stati Uniti impongono da un decennio, con la
presidenza Trump aggressivamente rispetto a quella felpata di Obama, e con
Biden più fattuale di Trump. Da eredi infine anche nel linguaggio della tradizione
coloniale europea dell’Otto-Novecento, dell’imperialismo come sfida di civiltà.
All’ombra cioè dei diritti di libertà e di benessere Trent’anni fa imponevano la
globalizzazione, la Cina fabbrica del mondo, con la disintegrazione del mercato
del lavoro “occidentale”, di assetti secolari di questo mercato, in Europa e
negli stessi Stati Uniti. Con la stessa buona ragione di sé, ne impongono ora lo
smantellamento. Parziale, secondo le istanze della leadership americana,
infine rivendicata.
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