Gli affari dell’antimafia
“Imprenditore
onesto denuncia la mafia, e muore di interdittive antimafia”. È una delle
storie del libro: un imprenditore di Gela, in rapporto tradizionale di lavoro
con le grandi imprese nazionali, Eni, Anas, Ferrovie, etc., “nel 2007 ha denunciato
il pizzo e fatto condannare i mafiosi” che lo pretendevano, “ma è rimasto per
anni nel mirino di una procura che lo riteneva complice”. Che non lo ha
processato per questo, lo ha sottoposto a “interdittiva antimafia”. Senza
contraddittorio. Cioè al sequestro, poi confisca, di tutti i beni, aziendali,
immobili, mobili. Ha reclamato, si è agitato, e niente, l’interdittiva non è
contestabile, il prefetto non sta sotto la legge. Solo dopo che l’imprenditore
si uccide, nel 2017, undici anni dopo il furto di Stato, il Tar del Lazio gli
dà ragione. È una delle tante storie
qui ricostruite. La prima è di un errore (della Guardia di Finanza) che non è
un errore, lo scambio di un indirizzo per un sopralluogo mai fatto – neanche
dopo, nelle more dei sequestri e le confische.
Un libro di
cronache giudiziarie che si legge come un noir. Altrettanto avvincente,
e violento. Sulle malefatte, nientemeno, di prefetti e procuratori della
Repubblica. Sotto la copertura dell’antimafia. Dedicato “alla memoria di
Leonardo Sciascia”, che s’immagina, con sofferenza, anche lui concorde, sui
“professionisti dell’antimafia”, una professione già forte ai suoi tempi. Senza
che da allora nulla sia cambiato, anzi questa antimafia perversa si è
impadronita di ogni ganglio del Sud, che non respira più. Il tema è:
“Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”. Con una mezza dozzina
di soprusi, ai danni di imprenditori e imprese, da lasciare a bocca aperta:
depredati di tutto, spesso carcerati, per poi, quando un giudice finalmente si
trova, essere assolti. Vittime non di “errore giudiziario” ma della prassi –
delle carriere dei giudici.
I casi ricostruiti
da Barbano sono specifici, ma il contesto e il contorno ne fanno un “sistema”.
Per cui basta niente, anche solo una chiacchiera, per essere accusati di
concorso esterno in associazione mafiosa e quindi depredati di tutto dallo
Stato con le interdittive prefettizie. Atti d’arbitrio, sequestri e confische,
senza aspettare un giudizio. Qui i prefetti sono celerissimi, che nominano
fidati amministratori giudiziari a duecento e trecentomila euro l’anno, a spese
del malcapitato. Svelti in questi casi anche i procuratori - con i loro comodi
gip: ogni Procura antimafia ha il suo gruppetto di giudici delle indagini
preliminari fidato, non c’è memoria di una procedura antimafia non avallata da
un gip.
Una inchiesta
inquietante. Anche per il silenzio che la avvolge. Malgrado l’avallo di
importanti giurisperiti, l’ex ministro della Giustizia Flick, l’ex presidente
della Corte Costituzionale Amato.
Un libro di
lettura, quasi un romanzo, che tocca evidentemente un nervo sensibile, poiché
non se ne parla: i media convivono con questa antimafia, prodiga di scandali,
intercettazioni, e insospettabili “mafiosi”.
All’affollata presentazione
all’Auditorium di Roma una sola voce si era levata a difendere gli attuali
assetti della giustizia, Giovanni Melillo, il Procuratore Nazionale Antimafia -
che peraltro ha operato a Napoli “in concorso” con Barbano, allora direttore de
“Il Mattino”, il giornale cittadino, per
una migliore giustizia. Solo critiche, aspre. Giuliano Amato, presidente uscente della
Corte Costituzionale, che aveva varato trent’anni fa le prime leggi speciali
contro la mafia, se ne diceva pentito. Essendone nato un apparato burocratico,
politico e affaristico fuori da ogni giusta finalità, al riparo dai controlli
di legalità e di merito. “Da giurista negli anni Sessanta”, ha detto, “ho
firmato un libro nel quale proclamavo l’insostenibilità delle misure di
prevenzione, da Presidente del Consiglio trent’anni dopo ho firmato le leggi
speciali seguite all’omicidio Borsellino. Portando dentro di me tanto
le ragioni che ostano alla pena del sospetto quanto quelle che ritengono
prioritaria la lotta alla mafia, io condivido quello che scrive l’autore del
libro, e cioè che qui abbiamo passato il segno”. Paolo Mieli, che pure da
direttore del “Corriere della sera” aveva condiviso alcune delle più efferate
intimidazioni del Procuratore di Milano Borrelli, denunciava un “lockdown
giudiziario”: “Tiene in una morsa la democrazia italiana e scatena retate
contro innocenti nell’indifferenza generale”. In particolare al Sud: “Come
mai”, si chiedeva Mieli, “abbiamo consegnato il Sud a questo stato di cose,
senza avere neanche un senso di colpa? Come mai”, rivolgendosi a Melillo, il
Procuratore Antimafia, “la scuola dell’illuminismo napoletano oggi si affanna a
contestare il libro di Barbano?”
Barbano, che il Procuratore Antimafia Melillo aveva detto “un estremista”,
poteva spiegarsi così: “Sono un estremista perché vorrei che le sentenze di
assoluzione non divergessero dalle sentenze di confisca? Perché ho criticato
l’estensione del codice antimafia ai reati contro la pubblica amministrazione,
l’estensione della pericolosità dalle persone alle cose, dai defunti agli
eredi? Sono un estremista perché chiedo che il concorso esterno sia definito da
una legge dello Stato e non cucito dalle sensibilità delle diverse sezioni
della Cassazione, e poi ricucito nella prassi attraverso le sentenze dei
tribunali fondate sul sospetto? Sono un estremista perché ricordo che la
confisca senza condanna non esiste in quasi nessun paese d’Europa, e dove pure
esiste è ancorata alle garanzie del processo penale e all’accertamento di un
reato? Sono ancora un estremista perché chiedo che la legge Rognoni-La Torre
venga ricalibrata per tornare a colpire la mafia?”
Barbano, che il Procuratore Antimafia Melillo aveva detto “un estremista”,
poteva spiegarsi così: “Sono un estremista perché vorrei che le sentenze di
assoluzione non divergessero dalle sentenze di confisca? Perché ho criticato
l’estensione del codice antimafia ai reati contro la pubblica amministrazione,
l’estensione della pericolosità dalle persone alle cose, dai defunti agli
eredi? Sono un estremista perché chiedo che il concorso esterno sia definito da
una legge dello Stato e non cucito dalle sensibilità delle diverse sezioni
della Cassazione, e poi ricucito nella prassi attraverso le sentenze dei
tribunali fondate sul sospetto? Sono un estremista perché ricordo che la
confisca senza condanna non esiste in quasi nessun paese d’Europa, e dove pure
esiste è ancorata alle garanzie del processo penale e all’accertamento di un
reato? Sono ancora un estremista perché chiedo che la legge Rognoni-La Torre
venga ricalibrata per tornare a colpire la mafia?”
Barbano solleva anche
il caso inquietante dell’amministrazione. Che ha
superato gli arbitri del fascismo - il confino senza condanna, la residenza
obbligata, la perdita dei diritti. Con lo scioglimento arbitrario dei consigli
comunali, la grande occupazione (moltiplicatrice di commissariamenti e
prebende) delle Prefetture. Con le interdittive antimafia – non c’è bisogno di
giustificarle. Con indagini sui propri personali nemici, di giudici e
investigatori, o degli informatori: indagini mirate, estenuanti, a strascico,
per anni, alla ricerca dello scoop, una frasetta, un’imprecazione -
come si fa nei social. Vittime troppo spesso sindaci e
amministratori (il caso che Barbano racconta del presidente della Regione
Calabria Oliverio è drammaticamente da ridere), a opera di giudici di opposto
colore politico. Senza scandalo.
E senza eco:
silenzio. Barbano, giornalista importante, che da direttore del “Mattino” ha
provato a disboscare questa giungla, scrive quasi come da bottiglia buttata a
mare: troppi gli interessi facili incrostati in questi abusi. Conscio cioè che
le false argomentazioni che reggono questa falsa antimafia sono irrobustite da
interessi diffusi, specie nel “terzo settore”, del “volontariato” – solo
“Libera”, l’associazione di don Ciotti, ha un network di 1.600 associazioni e
cooperative di gestione di beni sequestrati. E dalla rete poco nobile degli
amministratori giudiziari, che si diventa per chiama a diretta, di un prefetto
o di un giudice. Le interdittive sono infatti provvide di ricchezze, anche
enormi, alla foltissima schiera dei curatori giudiziari, coi i loro referenti
istituzionali, prefetti e giudici delle “misure di prevenzione”. Nonché al
“volontariato” antimafia.
In pochi anni,
poco di un decennio, il patrimonio gestito da questi tribunali senza condanna,
spesso senza nemmeno un’accusa documentata, è incalcolabile. Ed è una grande
forma di distruzione di ricchezza – se non per i beneficiari, i curatori.
Curatori della distruzione. A metà giugno 2022 le aziende confiscate o
sequestrate e assegnate a curatori giudiziari risultavano 2.245, ma solo 145
erano ancora attive, le atre 2.100 erano morte.
Sono tutte,
Barbano non lo dice ma si sa, aziende del Sud. Si pensa il Sud vittima della
mafia, e in molte parti lo è, ma ovunque è vittima dell’antimafia: niente di
buono vi è possibile, se non per caso. Per essere sfuggiti alle informative
raccogliticce dei Carabinieri, di norma curiosamente sfavorevoli ai
denuncianti, ai “pentiti” in cerca di pensione pubblica onorevole, e ai disegni
dei Procuratori della Repubblica che da trent’anni sono i padroni dell’Italia,
indisturbati – cui i giudici indifesi delle indagini preliminari, prudenti, si
accodano. I “professionisti del bene” sono probabilmente la parte meno losca di
un sistema giudiziario inquinato. Di cui la politica è succube. Barbano apre la
sua narrazione con il varo nel giugno del 2017 della legge 4.360, la “legge
Orlando”, “un solo lungo articolo suddiviso in 95 commi” – Manzoni
impallidirebbe – che allunga la prescrizione e inasprisce le pene per i delitti
di mafia, estendendole alla corruzione. Un uso talmente arbitario della
giustizia, a opera di un ministro di sinistra, anzi dell’ultra sinistra, che
Mussolini avebbe avuto pudore a imporre per legge: confische e sequestri sono
da allora possibili, e sono stati applicati, per semplice sospetto di reato.
Non solo di mafia, anche di corruzione, e di peculato anche di modesta
entità.
Alessandro
Barbano, L’inganno, Marsilio, pp. 249 € 18
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