Il signor John Smith, cinquantenne, bloccato a letto per una
settimana, da gotta e reumatismi, consigliato dal medico passerà il tempo
scrivendo. Di ciò che gli passa per la testa. È un personaggio anonimo, con una
vita anonima, non sappiamo nemmeno di che vive, ma ha molte idee su molte cose,
specie di letteratura, e se le racconta a ruota libera.
Un esercizio, si direbbe oggi, di autofiction. Ma è
piuttosto una divagazione alla Sterne – uno dei pochi autori che la “Narrativa”
non cita. Di politica, della Germania, delle Piramidi, della biblioteca, della
letteratura, di tutto. Di sé non avendo nulla da dire, giovane medico,
venticinquenne, alla prima condotta, a Southsea, sobborgo di Portsmouth, a metà
del 1882, un estraneo, con pochi mezzi, e con pochi pazienti – è due anni più
tardi che potrà riferire con orgoglio alla madre di accudire “cento famiglie” e
di fare consulenza una società di assicurazioni, la Gresham Life.”
Un esercizio in minimalismo, sulla professione di scrittore,
se tema si vuole individuare. Verso la metà del racconto riflette anche sul suo
stato “narrativo”, di personaggio cioè. Sempre su consiglio del medico, che ammonisce
contro il “dolce far niente”, già allora italiano, e non esclude la
circolazione inavvertita di “muti ingloriosi Milton”, per dirla con Thomas
Gray, “Elegia in un cimitero campestre”. Anche se, ammonisce, scrivere è
fatica: “I migliori scrittori e più di successo sembrano trovare l’avvio di un
nuovo lavoro uno sforzo penoso. Carlyle parla di tornare alla scrittura non
come un guerriero che va al campo di battaglia, ma come uno schiavo risospinto al
suo compito”.
Insomma, Conan Doyle giovane di belle speranze si parla doppiamente,
come medico e come autore, e autorevolmente. Prima ancora del successo, prima
ancora anzi di sapere se sarebbe stato pubblicato, faceva i conti con la
critica malevola, i “mosconi”. È irresistibile, una tentazione, argomenta
subito, alle prime pagine: “Una persona abbia cinquanta delle più nobili virtù
e un solo piccolo vizio, incontinente il critico moscone si avventerà su
questo” – “Addison era uno stimabile uomo di buon cuore - «ma un ubriacone»,
ronza il moscone. Burns era generoso e di mente nobile - «ma un dissoluto»
ronza il moscone. Coleridge ci ha lasciato parole che respirano l’intimo
spirito della virtù - «Oppio! Oppio!» sussurra il moscone”. Su Carlyle, celebratore degli eroi, ritorna spesso, “il
san Tommaso di Chelsea” - santo per essere stato ferito da indiscrezioni e malevolenze
dopo la morte: “Di tutti i tristi casi letterari”, creati dai “mosconi della
letteratura”, “gli attacchi alla memoria del grand’uomo quando la terra era
ancora fresca sulla sua tomba fu uno per me i più destabilizzanti”. Inedito,
già si vedeva crocefisso.
Del
tutto inedito Conan Doyle non era, aveva pubblicato versi e racconti su riviste sparse, anche di nome, ma senza guadagno, e
anonimi o con pseudonimi. Il primo racconto di un certo successo, anonimo, era
stato attribuito a Stevenson. Anche come medico, non era alle prime
armi. Aveva lavorato per il dott. Reginald Radcliffe Hoare a Birmingham, il suo
“secondo padre”. E già prima, dopo una sorta di laurea breve, aveva fatto il medico
di bordo per sei mesi, da febbraio ad agosto 1880, su una baleniera, la “Hope”
– una sorta di rito di passaggio, dirà di questa esperienza nelle “Memorie”.
Prima di stabilirsi a Southsea aveva fatto il medico di bordo sulla nave
passeggeri “Mayumba”, sulla rotta dell’Africa Occidentale, un viaggio che gli
costò una quasi fatale febbre tropicale.
Si
direbbe un antiromanzo, senza il contesto biografico, questa prima opera di un giovane medico
che sarà poligrafo instancabile, soprattutto di romanzi, di ogni genere, oltre
che di Sherlock Holmes. Un primo romanzo di cui le poste si perdettero il
manoscritto. E Conan Doyle determinato riscrisse. Romanzo “fantasma” nella
edizione curata da Masolino D’Amico (Il Saggiatore), un po’ perché romanzo del
niente, ma soprattutto perché andato perduto. E, riscritto, ha dovto aspettare
128 anni per essere pubbicato, il 2011 – Conan Doyle non lo completò, e sebbene
lo ricordasse lo aveva riposto.
Un racconto di
digressioni con l’avvertenza che le digressioni non aiutano: “È tanto impertinente
quanto inartistico per un romanziere vagare lontano dalla sua storia per darci le
sue opinioni su questo o quell’argomento”. Anzi, il debuttante dottorino sa il
segreto, semplice, del romanzo di successo: “No, il segreto di un romanzo è
l’intreccio”. Non lo pubblicò perché senza intreccio?
Sulla scia di Sterne, all’evidenza
incoscia, questo racconto come viene è un esercizio triplamente post-moderno.
Dell’autore che s’impersona. Sdoppiandosi. Per non mettere in scena nessun
romanzo. Questo per duecento pagine di romanzo. Nel mezzo, in poche righe, la
quintessenza della “scrittura”: “Il nostro autore ha la meglio nella grammatica
e nella finitura, ma gli appunti del reporter fanno una narrativa più vivida”.
Come sarà di Sherlock Holmes, buttato giù come viene. Non c’è il morto, ma c’è
già Sherlock Holmes. Anche la distribuzione è già di Sherlock Holmes: interlocutori
della narrativa sono sopratuttto il dottore, e la padrona di casa – la triade
di Baker Street. La sola differenza è che qui la padrona di casa, Mrs. Burns, è
“prosperosa, timorosa”. In linea con la difesa appena fatta da John Smith del
corpo, del corpo umano, “indebitamente snobbato e diffamato da ecclesiastici e
teologi”.
Arthur Conan
Doyle, La storia di John Smith, Castelvecchi, pp. 256 16
Romanzo fantasma, Il Saggiatore,
pp. 208 € 20
Un esercizio, si direbbe oggi, di autofiction. Ma è piuttosto una divagazione alla Sterne – uno dei pochi autori che la “Narrativa” non cita. Di politica, della Germania, delle Piramidi, della biblioteca, della letteratura, di tutto. Di sé non avendo nulla da dire, giovane medico, venticinquenne, alla prima condotta, a Southsea, sobborgo di Portsmouth, a metà del 1882, un estraneo, con pochi mezzi, e con pochi pazienti – è due anni più tardi che potrà riferire con orgoglio alla madre di accudire “cento famiglie” e di fare consulenza una società di assicurazioni, la Gresham Life.”
Un esercizio in minimalismo, sulla professione di scrittore, se tema si vuole individuare. Verso la metà del racconto riflette anche sul suo stato “narrativo”, di personaggio cioè. Sempre su consiglio del medico, che ammonisce contro il “dolce far niente”, già allora italiano, e non esclude la circolazione inavvertita di “muti ingloriosi Milton”, per dirla con Thomas Gray, “Elegia in un cimitero campestre”. Anche se, ammonisce, scrivere è fatica: “I migliori scrittori e più di successo sembrano trovare l’avvio di un nuovo lavoro uno sforzo penoso. Carlyle parla di tornare alla scrittura non come un guerriero che va al campo di battaglia, ma come uno schiavo risospinto al suo compito”.
Insomma, Conan Doyle giovane di belle speranze si parla doppiamente, come medico e come autore, e autorevolmente. Prima ancora del successo, prima ancora anzi di sapere se sarebbe stato pubblicato, faceva i conti con la critica malevola, i “mosconi”. È irresistibile, una tentazione, argomenta subito, alle prime pagine: “Una persona abbia cinquanta delle più nobili virtù e un solo piccolo vizio, incontinente il critico moscone si avventerà su questo” – “Addison era uno stimabile uomo di buon cuore - «ma un ubriacone», ronza il moscone. Burns era generoso e di mente nobile - «ma un dissoluto» ronza il moscone. Coleridge ci ha lasciato parole che respirano l’intimo spirito della virtù - «Oppio! Oppio!» sussurra il moscone”. Su Carlyle, celebratore degli eroi, ritorna spesso, “il san Tommaso di Chelsea” - santo per essere stato ferito da indiscrezioni e malevolenze dopo la morte: “Di tutti i tristi casi letterari”, creati dai “mosconi della letteratura”, “gli attacchi alla memoria del grand’uomo quando la terra era ancora fresca sulla sua tomba fu uno per me i più destabilizzanti”. Inedito, già si vedeva crocefisso.
Sulla scia di Sterne, all’evidenza incoscia, questo racconto come viene è un esercizio triplamente post-moderno. Dell’autore che s’impersona. Sdoppiandosi. Per non mettere in scena nessun romanzo. Questo per duecento pagine di romanzo. Nel mezzo, in poche righe, la quintessenza della “scrittura”: “Il nostro autore ha la meglio nella grammatica e nella finitura, ma gli appunti del reporter fanno una narrativa più vivida”. Come sarà di Sherlock Holmes, buttato giù come viene. Non c’è il morto, ma c’è già Sherlock Holmes. Anche la distribuzione è già di Sherlock Holmes: interlocutori della narrativa sono sopratuttto il dottore, e la padrona di casa – la triade di Baker Street. La sola differenza è che qui la padrona di casa, Mrs. Burns, è “prosperosa, timorosa”. In linea con la difesa appena fatta da John Smith del corpo, del corpo umano, “indebitamente snobbato e diffamato da ecclesiastici e teologi”.
Arthur Conan Doyle, La storia di John Smith, Castelvecchi, pp. 256 16
Romanzo fantasma, Il Saggiatore, pp. 208 € 20
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