Giuseppe Leuzzi
Un bandito di Vieste, Marco Caruano, evade dal carcere “di
massima sicurezza” di Badu e’ Carros in Sardegna, e a Vieste si fanno i fuochi
d’artificio. Non è vero. Ma è “naturale” scriverlo. Il sindaco protesta. Ma, si
sa, i sindaci… La “narrazione” è quella, ineluttabile.
Caruano evade col lenzuolo, come nei romanzi. Sotto l’occhio
di una telecamera. Questo chiunque può vederlo, ma non si dice – non si
commenta: come la criminalità viene contrastata.
“Terra di tutti e di nessuno\ terra dove abitano i morti\ terra
che entra ed esce\ con la forza di un bacio\ terra che conosce\ lo slancio del
perdono\ terra che abiti lontano\ e uccidi per amore”.
Alda Merini, “Terra del Sud” – in Id., “Ogni volta ti vedo
fiorire”
“Buone notizie”, il settimanale del “Corriere della sera”,
racconta di una curiosa inchiesta di alcune Ong nella Casamance, il Mezzogiorno
del Senegal, sui migranti di ritorno. Riprovati dai familiari, non più
considerati nella comunità, isolati. L’inchiesta è vera, si può testimoniare,
ma va inquadrata nella mercificazione tribale, dei legami familiari e comunitari
– quante famiglie non sono in golosa attesa in Nigeria degli euro della figlia,
sorella, nipote prostituta a Roma o Livorno. È vero però che l’emigrato di ritorno
non ha più status, non solo in Casamance, o più genericamente in Africa.
Pentite di banca
Sono quattro donne, tre membre
del consiglio d’amministrazione della Juventus, Laurence Debroux, Suzanne
Heywood, Daniela Marilungo, e una sindaca, Maria Cristina Zoppo, le “gole profonde” dei pm torinesi professi
odiatori del club. Incontenibili, non lasciano inappagata nessuna ipotesi di reato che i giudici sollevano, anzi ci mettono del proprio. La cosa si svolge a
Torino, ma c’è sentore di Sud in queste chiamate di correo senza la correità.
Le quattro non sono le sole. Segue a ruota una consigliera di
Unicredit, Jayne-Anne Gadhia, “donna d’affari britannica” (wikipedia),
cavaliera dell’Impero (DBE): presidente del comitato Remunerazioni del gruppo
bancario, si dimette per non aumentare quella dell’ad Orcel – che non è uno
qualsiasi: ha raddoppiato in diciotto mesi il valore del titolo, ora sui 20 euro,
e veleggia verso quota 24.
Un tempo si sarebbero
liquidate le consigliere come casi di “isterismo”. Oggi vanno a rimpolpare la schiera
dei “pentiti”, quelli che dopo avere attizzato l’inferno si fanno angeli. Avevamo
i “pentiti” di mafia, avremo le “pentite” dei consigli d’amministrazione. Al
peggio non c’è limite, come si suol dire, non c’è fine alla vergogna, la peste dilaga,
o il colera, o il covid, eccetera. Un-a “pentito-a” sa di taumaturgia, capace
di miracoli di Cana, di moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Ora, Unicredit è di un’altra galassia rispetto al Sud. Ma non si può
dire, il pentitismo è infettivo - anche la squadra di calcio degli Agnelli si
pensava di un’altra galassia. Se poi, con le quote paritarie, diventa
femmina...
Gadhia non è andata dai Procuratori, Orcel evidentemente
(ancora) non ha nemici, è andata al “Financial Times”, ma è lo stesso: il
potere è del blocco Procure-media.
Però, sempre il
potere è maschile in agguato, dei Procuratori.
Scalfari calabrese
Di Eugenio Scalfari molto c’è ancora da dire. Del suo appassionato
cinismo, un ossimoro inevitabile, perché vero. Non cattivo, giocoso, e
soprattutto “naturale”, istintivo. Distintivo della “calabresità”. Mediata dal padre,
probabilmente, e dai due o tre anni che passò a Vibo, con la famiglia del padre,
notabile della città, nel primo dopoguerra. E con i nonni Capialbi, famiglia
preminente, dai quali fu iniziato alla massoneria.
Poche ma grate memorie, nelle conversazioni con Gnoli e Merlo
di “Grand Hotel Scalfari” e in altre opere della vecchiaia, fino a dichiararsi “calabrese”.
Dell’infanzia a Sanremo, a scuola, ricordando che lo chiamavano “Napoli”. Perché
di padre calabrese, ancorché di vocazione “continentale”, “parigina”, quale era
della borghesia meridionale Fine Secolo-inizio Novecento: Pietro Scalfari finì per dirigere il Casino di
Sanremo, aperto da Mussolini, dopo aver perso tutto al gioco, dopo Fiume con
D’Annunzio, e dopo un paio d’anni al fronte, medaglia di bronzo nella Grande
Guerra – da cui il fratello maggiore, medaglia d’argento, uscì tanto menomato
da arrivare presto al suicidio.
Calabrese si può dire per la peculiare diffidenza della
politica. Lui diceva dei partiti ma in realtà della politica. Un gioco senza le
fiches, nessun capitale immobilizzato, da battitore libero – in cui non
si perde. Vissuto con leggerezza, da “zannella” dice il dialetto, rinviando
agli antichi “zanni”, da giocherelloni. In vecchiaia lo dice lui stesso allegramente,
di essere stato fascista,
antifascista, liberale e radicale, socialista e antisocialista, anticomunista e
comunista. Solo democristiano precisando di non essere stato, ma sempre beffardo:
la campagna antisocialista fece per De Mita prima che per Berlinguer, per le
banche di De Mita, le banche pubbliche, di Napoli e di Roma.
Un capolavoro,
di questo speciale aspetto calabrese, fu il suo peculiare tardo
“comunismo”, nella forma del berlinguerismo. Dell’erotismo, come diceva, di
Berlinguer. Mentre girava per il giornale sghignazzando che “i comunisti non
hanno ancora scoperto il tasso di sconto”, la potenza di Baffi dopo Carli, della
Banca d’Italia, della politica monetaria.
(continua)
Sud manomorta
“Un sistema che ha prodotto una gigantesca manomorta
pubblica, in assenza di qualsiasi capacità gestionale”, Alessandro Barbano può
dire in “L’Inganno” la normativa e la pratica delle “misure di prevenzione” del
crimine, sequestri e confische. Ai danni del Sud com’è ovvio, essendo le
“misure di prevenzione”, amministrative, prefettizie, di polizia, slegate da un
giudizio di colpevolezza, legate alla “mafia”: è il Sud che è mafioso,
variamente ma interamente.
Manomorta è in gergo giuridico – era – l’insieme di immobili
(terreni e7 fabbricati, con coltivazioni, impianti di trasformazione, macchinari,
depositi, e ogni altra fonte di reddito) in proprietà a soggetti privati, inalienabili
e insieme esentasse. Secondo un istituto giuridico di origine longobarda. Una
sorta di dotazione a fin di bene.
L‘appropriazione della manomorta, a più riprese, dello Stato sabaudo
e poi ita.liano, fu all’origine della borghesia italiana. Della sua parte
improdutitva, che la connota, seppure non ne è la parte maggiore: notabilare,
petulante, e un po’ mafiosa, anch’essa. Lo Stato nazionalizzò la manomorta, e
la cedette, praticamente gratis, agli amici e agli amici degli amici. Nacque
così la borghesia improduttiva caratteristicamente italiana, il notabilato.
Ma tutto questo avvenne soprattuto al Sud. Fu a Napoli, come
già denunciava nel 1862 Pasquale Villari, e in Sicilia che la manomorta ecclesiastica
fu confidata alle persone di fiducia, non necessariamente massone – Napoli lasciando,
spiegava Villari, senza alcuna assistenza pubblica, che la manomorta eccelesistica
assicurava, in qualche misura. Da qui l’origine della speciale borghesia
meridionale, per lo più notabilare e improduttiva – e senza stamina contro
i facinorosi e i violenti, i mafiosi, anzi singolarmente mite. Lo stesso si può
dire, dalle cifre che Barbano accumula, e dai test-case che racconta,
ora. Lo Stato toglie alla borghesia produttiva, accusandola di mafia, per salassare
le aziende a vantaggio di amministratori giudiziari anche poco capaci ma molto
amici, dei tribunali delle misure di prevenzione.
Assistenza sociale alla mafia
Graziella Crialesi lascia la Calabria, dove è nata e
cresciuta, per non sottostare al maschilismo, al familismo. Va in Emilia, dove
diventa campionessa italiana di sollevamento pesi e sposa uno che poi la
picchia.
Ma non è la sola lezione della sua vita. Vedova del terzo marito,
si trasferisce a Roma con l’ultimo figlio e rileva un bar. Lo rileva a
Cinecittà Est, uno stradone prospiciente la Romanina, il quartiere dove i
Casamonica sono padroni, i mafiosi rom.
È un locale che paga poco, probabilmente, uno spazio
commerciale a livello strada, ricavato però tra due appartamenti. Uno a destra
e uno a sinistra, assegnati dal Comune, dall’assistenza sociale, a donne sole
con bambini. Assegnatarie che ospitano quantità numerose di persone. Meglio per
il locale? No, perché la fauna che i due appartamenti “sociali” ospitano si
serve voluttuosa al bar, pretende di non pagare, e di utilizzarne il bagno per
fare le dosi, da vendere poi poco lontano.
Le prime donne che entrano vogliono, per saggiare la nuova
gestione, caramelle e tè, gratis. Graziella dice no. Insulti, calci, strattoni,
ma Graziella è ancora forte e si difende.
Uomini in attesa delle due donne osservano dall’altro lato della
strada. Non intervengono perché Graziella intanto ha chiamato il 112. Ma sputano,
giurano che bruceranno il locale, sghignazzano che Graziella non sa con chi a
che fare, con i Casamonica.
Non è la prima volta dei Casamonica naturalmente, sono lì da
tre generazioni almeno, se non quattro. Tra furti, droga e usura. In un’area della
capitale grande più di qualsiasi città della Calabria. Noti a tutti. Ricchi sfondati, di supercar, ville
e ori. Privilegiati dall’assistenza comunale. Com’è possibile?
P.S. Pignatone, Prestipino, Lo Voi, i giudici palermitani che
la “linea della palma” di Sciascia hanno portato su fino a Roma, i tre ultimi
Procuratori Capo, pensano veramente che la mafia sia solo siciliana?
Napoli
Si celebra
sempre molto, a opera di comici, cananti, registi, ma non più per la cultura,
che ebbe di prim’ordine – in Italia poi, da sempre patrimonio dell’umanità.
Sappiamo sempre molto dello stento illuminismo milanese, ma poco e niente di quello florido napoletano, Vico, Genovesi, Galiani, Filangieri, la lista sarebbe interminabile.
O la musica, operistica e non. O l’Ottocento filosofico, che tanto contruibuì
al rinnovamento dell’idea d’Italia: si celebra molto la (piccola)
modernizzazione agricola introdtta da Cavour in Piemonte e nulla di Hegel in
Italia, di De Sanctis e Spaventa, e più giù, fino a Labriola, Croce, Gentile,
alla mediazione di Marx.
Si ricorda l’economista
Palomba in età avanzata, a fine anni 1980, quando si discuteva di
deindustrializzare Napoli, partendo dall’acciaieria. Scandalizzato dalla “supeficialità”
con cui si poneva la questione. “Pensano di far vivere i napoletani con le
pizze e i gelati”, commentava sconsolato, dei tanti discorsi che la città
faceva sul passaggio a un’economia di servizi.
L'acciaieria,
impianto pubblico, di Stato, era stata rinnovata nel 1985 con un investimento
di 1.200 miliardi di lire. Nel 1989 fu deciso di dismetterla, e gli impianti furono
svenduti per 20 miliardi alla Cina e all’India. Ma di questo Napoli non ha
colpa, solo delle chiacchiere. Che ancora si fanno sui resti dell’acciaieria.
Curiosamente
credono nella città – ne hanno convenienza – il business della moda, milanese, per l’arte
incomparabile del lavoro à façon (che la “Gomorra” frimata
Saviano ridocolizza), l’ex Fiat ora Stellantis, e ancora i grandi gruppi
pubblici, seppure sempre meno, Finmeccanica-Leonardo, Fincantieri.
Si sono
dimenticati Spaventa e De Sanctis totalmente anche per le celebrazioni del centocinquantenario
dell’unità, a Napoli e altrove. L’ultimo ricordo dell’introduzione di Hegel e
di Marx in Italia risale, scrive Fernanda Gallo, “Gli hegeliani di Napoli e il
Risorgimento”, a Eugenio Garin: “Se
una cosa deve dirsi dell’hegelismo italiano, e non solo dell’Ottocento, è che
non si è trattato mai di un fatto accademico. Il nome di Hegel in Italia è
indissolubilmente legato ai grandi eventi della storia, sia che si tratti
dell’opera degli Spaventa e di De Sanctis nel Risorgimento, o di Antonio
Labriola nelle battaglie socialiste; sia che si pensi alle “riforme” della
dialettica hegeliana di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile, o all’Hegel
“romantico e mistico” fra le due guerre, o alla discussione del rapporto
Hegel-Marx dopo la seconda guerra mondiale. Proprio perché non neutrale né
accademica, la “presenza” di Hegel in Italia è stata varia secondo i momenti:
diverse le vie di accesso, diverse le opere “tradotte”, discusse, assimilate”.
Gallo insegna
all’università della Svizzera Italiana a alla Queen Mary di Londra. Garin
scriveva nel 1972, “L’opera e l’eredità di Hegel”, quando Laterza ancora se ne
occupava.
“Napoli” – si censura
troppo Malaparte, nel caso “La pelle”: è uno dei pochi italiani che conosceva le
lingue e più culture, aveva anche viaggiato - “è la più misteriosa città
d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come
Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell’immane
naufragio della civiltà antica. Napoli è una città che non è mai stata sepolta.
Non è una città: è un mondo”.
Città di mare e
di altura, come si sarebbe poi provato a fare per i grandi scali marittimi, a
difesa dai malintenzionati, Amalfi, Genova – a differenza di Pisa, Marsiglia,
Venezia.
Si eclissa nelle
memorie dei viaggiatori dell’Ottocento, già prima dell’unità, in favore di Ercolano,
Pompei, Capri, Sorrento. Risorge nel Novecento, in controluce della nascente
“questione meridionale”, del Risorgimento “incompiuto” o “tradito”. Napoli è la
“questione”.
Vive da tempo
nel Pallone, molto prima del tifo quest’anno, e di Maradona. La notizia della
riconquista di Napoli da parte del cardinale Ruffo, il 13 giugno 1799, arrivò a
Ferdinando IV in esilio a Palermo mentre assisteva a una partita di pallone. Lo
annota lui stesso nel “Diario segreto”: “Alle sei andato con i miei soliti a
vedere giuocare al pallone fuori la porta di Craste, dove la partita è stata
buona ed il concorso grande. Ricevuto la consolante notizia di esser entrati i realisti
in Napoli”. La “notizia” viene dopo, solo “consolante”.
leuzzi@antiit.eu
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