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Il romanzo di Mosè, autore Freud
Il
primo esito delle sue riflessioni sulla Bibbia Freud elaborò in un primo tempo,
nel 1934, come “romanzo storico”. Si sa che di Mosé si sa poco o niente, delle
sue origini, la formazione, la vita, giusto il minimo particolare che fu
salvato dalle acque – l’elemento su cui compirà poi il suo grande miracolo. Da
qui la tesi, poi di Freud, che fosse un “generale” egiziano, a cominciare dal
nome, che non è ebraico. Ma nel 1934, non ancora in esilio, ma già sotto la
dittatura di Hitler, Freud non se la sentiva di ribaltare uno dei nodi
principali della Bibbia, e per questo adottò la forma romanzo. Che non
pubblicò.
Le
stesse riflessioni che aveva elaborato in forma di romanzo poi rielaborerà
criticamente, tra il 1934 e il 1938, pubblicando l’esito nel 1939, a Amsterdam,
sotto il titolo “L’uomo Mosé e la religione monoteistica”, in forma di “tre
studi”. Anche se manteneva, rafforzati, gli stessi scrupoli che l’avevano
dissuaso dalla pubblicazione cinque anni prima – apriva il volume con una excusatio:
“Spiegare a un popolo che non rientra nella sua identità uno che essso celebra
come il più grande di tutti i suoi figli non è qualcosa che s’intraprende di
buon cuore o alla leggera, a fortiori quando si è se stessi parte del
popolo in questione”. Erano anche gli anni in cui Mosé assurgeva a nuovo ruolo
nell’ebraismo, nell’ambito del sionismo che da lì a poco sfocerà nella
creazione di Israele, come simbolo e guida.
Mosé,
Freud confidava a Lou Andreas Salomé, lo aveva “perseguitato tutta la vita”.
Decidendo nel 1934 di non pubblicarne il “romanzo”, Freud spiega a Max
Eitingon, lo psicoanalista russo-tedesco emigrato l’anno prima in Palestina:
“Una parte del testo infligge gravi offese al sentimento ebraico, un’altra al
sentimento cristiano, due cose che è meglio evitare nell’epoca in cui viviamo”.
Introducendo il Mosé “romanzo storico” cinque anni prima, Freud si pone invece
il problema della verità. A partire dalla formula “romanzo storico”: “Per me
inventare e romanzare sono facilmente legati all’errore”.
Il
suo romanzo storico di Mosé parte dal metodo scientifico: “Trattare ogni
possibilità offerta dai dati come una base di lavoro, colmando poi le lacune
tra un frammento e l’altro secondo il principio, per così dire, della minore
resistenza, cioè favorendo le ipotesi che ci sembrano più probabili”. Una
storia ipotetica, insomma. L’esito è quello noto, dei tre studi, un po’ meno
conciso – ma più leggibile, seppure non convincente.
Sotto
forma di “romanzo” scientifico, di ipotesi fantasiosa ma a fini di credibilità
e non a sensazione, Mosè era già un classico negli anni di Freud. Dal 1790,
quando Schiller pubblicava sulla rivista “Thalia” “La missione di Mosè” –
Schiller è stato storico valente, prima che drammaturgo. C’era la rivoluzione
francese, ma Schiller si impegnava a rielaborare, in parte confutandola, la
prolusione un anno prima a Jena dell’illuminista framassone Carl Leonhard
Reinhold. Con un testo fitto, di una quindicina di pagine, come la prolusione.
Nell’ambito di un Antisemitismusdiskurs, un dibattito
sull’antisemitismo. Schiller fa nascere la parola “ebrei” con la fuga
dall’Egitto, un nome spregiativo dato ai riottosi israeliti dal faraone, che li
aveva confinati in aree separate. Ma non fa di Mosè un egiziano, bensì il
figlio di un’ebrea fatto crescere con un trucco dalla figlia del faraone, e
quindi a scuola dai preti, dai quali apprende i Misteri di Iside. È per questo
un capo opportuno ma anomalo per gli ebrei.
Il
“romanzo” è più teorico che storico: Mosé non sfugge al complesso di Edipo, al
complesso della liberazione – un padre padrone per gli ebrei. La salvezza degli
ebrei viene dal riconoscimento della colpa per avere misconosciuto il padre
Mosé. Una “colpa” che grava sugli ebrei, ma ne è anche la forza. Poiché ne
precisa e salvaguarda l’identità. È la conclusione del romanzo: “La nostra indagine ha forse fatto un po’
di luce su come il popolo ebraico abbia acquisito le qualità che lo
contraddistinguono”.
Vale la pena ricordare qui la perplessità che
Voltaire faceva valere nel breve scritto “Auteurs”, 1770 ca, rifacendosi alla
“Histoire de la philosophie” del “buon abate Bazin”, che “mai nessun autore ha citato un
passaggio di Mosè prima di Longino, che visse e morì al tempo dell’imperatore
Aureliano”. Il nome era noto, Giuseppe ne parla più volte, ma nessuno cita un
detto o uno scritto, nessuno dei profeti autori dei libri biblici - “benché
egli sia un autore divino”, aggiungeva Voltaire.
Con
una prefazione di Giovanni Filoramo, lo storico delle religoni, che fatesto a
sé, per ampiezza e impianto. E il commento di Thomas Gindele alla primapubblicazione
dell’inedito, emerso alla Biblioteca del Congresso di Washington, che conserva i
cartoni con i manoscritti che Freud non ha distrutto.
La
prima pubblicazione è stata fatta in francese, Chiara Calcagno traduce dal
francese la nota al testo di Gindele, germanista francese, che ha curato la prima
pubblicazione. Johanna Venneman traduce il romanzo dall’originale, un manoscritto
in corsivo tedesco, una scrittura praticata fino alla guerra, che Freud usa in
modo molto pulito, anche nelle cancellature, ma è di per sé una selva di
ghirigori.
Sigmund
Freud, L’uomo Mosè. Un romanzo storico, Castelvecchi, p. 384 € 25
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