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La verità delle tasse
Furono importanti
“le entrate giudiziarie, importanti per Atene, città egemonica, nella quale si
concludevano i litigi più importanti sorti nelle città alleate”. È uno dei tanti
paradossi della “giustizia tributaria” che meriterebbe reinstallare? Era uno
dei cespiti di maggiori entrate, il secondo di una ventina, della democratica, acculturata,
artistica, imperiale Atene di Pericle – al primo venivano le entrate fondiarie.
Niente imposte, invece, sul reddito, improprie per i cittadini – semmai per gli
stranieri. Le tasse vanno e vengono, opportuniste più che egualitarie, o
doverose.
Einaudi si divertiva e ancora
diverte, con questo “manuale” che va per un secolo di vita. “Rileggendomi dopo tanti anni,
confesso di essermi divertito”, si legge nella prefazione a una riedizione postuma,
del 1967 (non nell’edizione caricata online, che è la prima, 1940 – la seconda
di quello stesso anno, pure per altri aspetti ferale, di guerra): “Non mi sembrò di leggere pagine di quelle
scritture in fondo noiose le quali formano il succo delle trattazioni intorno
all’imposta”.
Innumerevoli i
motivi di interesse per il profano. Per
primo lo smontaggio della “giustizia fiscale”.
Questo fa al
capitolo Sesto, “La vuota boria dei sommi principi utilitaristici
dell’imposta”: “Alla radice dell’idea della giustizia tributaria sta la
seguente massima dell'oratore che nel consiglio grande di Firenze parlò in
difesa della imposizione della decima scalata proposta all'epoca della guerra
di Pisa. «Quella gravezza s'ha a chiamare eguale, che grava tanto el povero
quanto el ricco; perchè, e quando uno povero paga in comune una decima delle
entrate sue ed uno ricco paga una decima, ancora che la decima del ricco getti più
che quella del povero, pure molto più si disordina el povero di pagare la sua
decima, che el ricco la sua. Però la egualità di una gravezza non consiste in
questo, che ciascuno paghi per rata tanto l’uno quanto l'altro, ma che el
pagamento sia di sorte, che tanto si incommodi l'uno quanto l’altro»”.
“Decima scalata
era parola la quale significava «che chi aveva cinque ducati o manco di decima,
pagassi una decima (10 %); chi aveva dieci ducati di decima pagassi una decima
ed un quarto (12,50 %); chi n’aveva quindici, pagassi una decima e mezza (1 5
%); e così successivamente per ogni cinque ducati che l’uomo avea di decima, si
moltiplicava uno quarto più (2.50 % in più), non potendo però passare, per uno,
tre decime (30 %)». «L’incommodo » di Francesco Guicciardini ebbe nome di
«sacrificio» da Geremia Bentham, capo degli utilitaristi; ed all'idea
dell'incommodo risalgono le spiegazioni che in varie forme si danno
dell'imposta moderna. Alla radice di questa sta il concetto di un sacrificio a
cui il cittadino è chiamato a prò dello stato. La bontà o giustizia dell’imposta
non è saggiata dal confronto fra le quantità di moneta pagata dai cittadini; ma
dal confronto fra lincommodo o sacrificio o pena o dolore sofferto dai
cittadini in conseguenza del pagamento di date quantità di moneta. Non perchè
ciascuno paghi 1000 lire, o il 20 per cento del proprio reddito o l’uno per
cento del patrimonio dovrà dirsi giusta l'imposta; ma perchè la somma pagata,
qualunque sia, cagiona ad ognuno un sacrificio od incommodo che sia uguale e
proporzionale a quello di ognun altro. Lo stato, per fermo, non incassa
sacrifici, bensì moneta. Ma il criterio di decidere sul giusto quantum di
moneta da prestare è l’incommodo che quella prestazione monetaria reca al
cittadino. L’introspettivo psicologico è la premessa del concreto esteriore
monetario”.
E mille altri
paradossi e facezie attorno alle tasse, che Vincenzo Visco solo in un raptus
lisergico può aver defiito “gioiose”. “Il paradosso dell’imposta morta” viene
al capitolo Ottavo, da cui “ammortamento”, di cui Einaudi confessa di non
conoscere l’origine, ma ben capisce il senso. Il cap. V è “Fantasmi, illusioni
ed eleganze dei debiti pubblici”. Con la ricetta semplice del debito: “Anche
l'uomo semplice, dopo un po’ più di riflessione, osserva: se lo stato contrae
un prestito all'interno di un miliardo e compie opere pubbliche utili ora od in
avvenire, la ricchezza nazionale non è variata, avendo soltanto il miliardo
mutato forma, da potenza d’acquisto disponibile a cose concrete le quali
valgono ancora un miliardo; se lo stato invece butta i denari dalla finestra in
opere di lusso improduttive, come fece la Germania dopo il 1923 in parchi e
giardini e teatri, quando urgevano tante altre esigenze, il miliardo che c’era
prima non esiste più. La ricchezza nazionale è scemata o cresciuta, non a causa
o nonostante la natura interna del debito pubblico, che non c’entra, ma a causa
del cattivo o buono uso fatto del provento del prestito. Similmente per il
debito contratto all’estero. Se il miliardo straniero finì male, rimaniamo con
la ricchezza di prima e con una ipoteca di un miliardo a favore del creditore;
se servì invece alla attrezzatura economica od amministrativa del paese, si
avra un miliardo o forse più di nuovi valori creati in paese il quale
compenserà e forse al di là l’ipoteca d'altrettanto verso lo straniero. La
ricchezza nazionale italiana dal 1860 al 1880 crebbe a causa del buon uso fatto
dei prestiti esteri in ferrovie strade ponti organizzazione civile e
amministrativa; uso che non avremmo potuto fare con prestiti interni, perchè i risparmiatori
italiani producevano risparmio nella misura del possibile ma non ne producevano
abbastanza”.
Un’opera che si
vuole contro i “dottrinari”, “una delle sette piaghe d’Egitto”: “Sono stato a
lungo incerto intorno al titolo che più appropriatamente avrei dovuto dare a
questo saggio. Non sarebbe stato del tutto malvagio un titolo che dicesse: «In
difesa dello stato contro i dottrinari»; che invero in tutto il mondo
conosciuto la confraternita dei dottrinari sta diventando il pericolo «numero
uno» per la pubblica finanza. Gli amministratori pubblici, coloro i quali,
ministri delle finanze o direttori dei grandi servigi fiscali, governano la
finanza degli stati contemporanei, debbono difendere accanitamente i sistemi
vigenti, che bene o male funzionano e gittano miliardi, contro la mania riformatrice
dei dottrinari che, andando in cerca della giustizia e non contenti della
giustizia semplice grossa, che è la sola concretamente possibile, vogliono la
giustizia perfetta, che è complicata e distrugge dieci per incassare uno”.
Pieno di verità,
dimenticate. Al cap. Terzo, “Il mito dei sovrappiù”, una delle più semplici:
“Se non si vuole il balordo, occorre partire dal presupposto che la tassazione
del reddito significa tassazione sul capitale e viceversa. L’una è l'altra. La
scelta tra le due tassazioni o il contemperamento fra l’una e l’altra non è un
problema di principio, ma di metodo, di opportunità, di precedenti storici”. Certamente
non di “giustizia”, neppure sociale.
Luigi Einaudi, Miti
e paradossi della giustizia tributaria, pp. 322 free online
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