venerdì 17 marzo 2023

La versione di Tina

Battistina, “Tina”, Pizzardo si racconta, la “donna del destino” di molto Pavese – a torto. Si racconta fino alla storia vissuta con Pavese. Ma è un racconto di come si vveva, male, negli anni 1920-1930, i suoi venti e trent’anni, da giovani e anche spensierati soggetti a sorveglianze, perquisizioni, ammonizioni, arresti, processi.
Antifascista, per tutto il lungo racconto, e anche dopo, fa d’acchito i conti col l’antifascismo, “una vita sprecata” considerando la sua: “Perché anzitutto il fascismo sotto varie maschere è ben vivo nel mondo, poi perché il fascismo italiano è stato abbattuto non certo dai suoi strenui oppositori, ma da quegli stessi che vent’anni prima lo avevano, per loro tornaconto, instaurato. Chi nella lotta ha lasciato al vita è morto per niente”. Lei per tutti i venti anni che racconta ne ha subito le pene: sorveglianza, obbligo di frima, carcere, precarietà, una vita affannosa di insegnante privata a ore, benché matematica, allieva di Peano.  
Un racconto scritto tardi, dopo che il suo nome era stato insinuato quale colpevole del suicidio di Pavese. Rimasto inedito, come tutto ciò che Tina-Battistina ha scritto - aveva provato già prima della morte di Pavese, a partire dal 1948, di pubblicare un romanzo che poi è andato perduto, “Fuga in prigione”, presumibilmente sulle stesse “avventure” di questo “Senza pensarci due volte”. Pubblicato postumo, nel 1996, per la cura del figlio Vittorio. Si riprende, per la cura della vedova di Vittorio, la nuora Vanna Lorenzoni Rieser, dopo 27 anni, a ridosso del revival Pavese, con la scadenza dei diritti. Aveva tentato di pubblicare “Fuga in prigione” per dieci lunghi anni, informa Sandra Petrignani, “La versione di Tina”, una nota che funge da prefazione alla riedizione: “Apprezzato da Primo Levi ma bocciato da Einaudi e in seguito da Feltrinelli”.
Un racconto veridico, anche perché non si fa sconti, pur evitando l’autoflagellazione. Vivace, sempre leggibile. E unico per molti aspetti. Di donna intrepida, molto libera e molto autonoma. Che ebbe molti flirt e anche qualche fidanzato. I più noti più giovani di lei, Altiero Spinelli di quattro anni, Cesare Pavese di cinque. Un racconto di un’età, gli anni del fascismo. Da un altro punto di vista, personale, e umano. Di persone e situazioni vere, non di maniera, trascurate dalle storie. Le carceri. Le carcerate, tante, diverse. Le madri superiore delle carceri femminili, anche loro molto diverse, dalla sadica alla complice. Tante carceri, tutte diverse, ben rappresentate in breve: Le Nuove a Torino, Marassi, Piacenza, Bologna, Ancona, Grosseto, le Mantellate. Ognuna un mondo a sé. Con alcuni punti in comune: “La carta igienica era marrone, perché non si potesse scriverci sopra”. Con le “politiche” divise dalle “comuni”. Tra le quali il lesbismo è pratica diffusa. Protetta, in qualche carcere, dalla suora secondina. Con una compagna di branda, naturalmente una “politica”, tenta anche una disinvolta fuga, senza sapere dove andare, ma con tanto di buco nel muro e di corda arrotolata pronta all’uso. Fuga poi abortita perché la stessa mattina la compagna viene messa in libertà – il regime, la burocrazia, è imprevedibile.   
Un tratto felice delinea una selva di eprpsoanggi in breve e br evissimo. “Togliattino” - “fratello di Palmiro, morì giovane” - che la “presenta” per la tessera al partito Nazionalista, al quale i conoscenti all’università la ritenevano destinata essendo stato il padre militare. Il salotto di Barbara Allason. La facondia di “don Benedetto” (Croce)  Velio Spano a lungo e con affetto, che la presenta al Partito, il partito Comunista, con Renzo Montagnana, primo cognato di Togliatti.
Il partito subito la manda a Roma. Dove è ospite in un istituto di suore, per le cure e a spese del cugino Pizzarro, alora monsignore, presto cardinale. È, e sarà tutta la vita, una comunista “nipote di un gesuita, nipote di una badessa agostiniana, pronipote di due suore di San Vincenzo (una, o tutt’e due, in odor di santità), cugina di un cardinale”.
Il “contatto” a Roma, alla cellula universitaria, è Altriero Spinelli. “Altiero non aveva ancora 20 anni, e io ne avevo 24” è la prima notazione. Un rapporto intimo s’instaura che durerà nove anni. Gli anni del carcere di Altiero, di cui Tina sarà la “fidanzata”, quella cioè autorizzata a scrivergli, e a riceverne le lettere. Perché presto i comunisti clandestini sono traditi, nel 1930, da un comapgno che fungeva da corriere tra le città e quindi ne sconosceva molti. Tina è salvata, forse casualmente, da un commissario della politica, che rimuove dalle carte a lei sequestrate le sole due che provavano la sua appartenenza al partito Comunista. Altiero e altri sono mandati al tribunale speciale e condannati. Ma un rapporto sempre in clima di militanza. “Non si piange sui caduti, perché a quel tempo nel partito si crede che il fascismo avrà vita breve”. Spinelli specialmente lo crede. In uno degli incontri clandestini “lungo la linea Roma-Milano dove lui doveva recarsi come corriere” (ma in realtà a Lucca), dopo l’attentato Zamboni, fine ottobre 1926, Altiero le ha assicurato “che il partito saprà resistere e, entro due o tre anni, vincere”.
Il legame con Spinelli prigioniero Tina lascia ambiguo. La corrispondenza tra “fidanzati” dura nove anni. Lui al ricorda poco nelle memorie, Lei, ricorda, “l’8 ottobre 1927 gli scrivevo da carcere a carcere la prima delle mille e forse più lettere che gli avrei scritto fino al maggio del ’35 quando, per essere stata di nuovo arrestata, mi sarà impossibile continuare”. Con l’affetto dei familiari di Altiero, la madre, le sorelle, almeno uno dei fratelli. Di lui non si sa, anche se avrà scritto anche lui le sue mille lettere. Il tributo è unico, in tanta memorialistica, a Maria Spinelli, la madre di Altiero, “una donna che tra la scuola (ha insegnato per quarant’anni), otto figli estrosi, un marito dispotico, le frequenti difficoltà finanziarie, gli alti e bassi di una malattia cronica, è sempre riuscita, mossa dall’innata bontà e dagli ideali socialisti della sua lontana giovinezza,  prodigarsi per tutti” – la sua madre “adottiva”.
Gli ultimi quattro capitoli sono dedicati al rapporto con Pavese. Dopo un quintultimo capitolo sul rapporto in un primo tempo casuale con quello che sarà suo marito, Henek Rieser, comunista, polacco, ebreo. Prima di Pavese, un forte ricordo è dedicato a Leone Ginzburg, “il più intelligente, ma soprattutto il più buono, più fraterno, più caro, dei nuovi amici”, quelli di Giustizia e Libertà, del salotto di Barbara Allason. “Ciuffo, pipa, scontrosità me lo fanno riconoscere prima che mi sia presentato", è la prima immagine di Pavese: "Penso che di lui so tutto e che ci piacciono le stesse cose. Più tardi scoprirò che tutto ciò che so di lui è tutto un po’ sbagliato. Ha tradotto ‘Moby Dick’, quindi ama il mare. No, odia il mare….”, etc. È misogino. Non ama la politica – “Non so quante volte lo vedo in casa di Barbara, certo poche perché non ci veniva volentieri: si parla troppo di politica…  e tutte quelle smorfiose… e il the... roba che non fa per lui”.
Non è stato un colpo di fulmine, né da una parte né dall’altra. Non c’è stato nemmeno un rapporto intimo. A Pavese piacerà pensarlo nel confino di Brancaleone nel 1935 - che dura solo sei mesi, non un’eternità, come si è indotti a pensare, presto arriva la grazia. Né al ritorno a Torino c’è stata la scena teatrale messa in giro da Davide Lajolo, “Il vizio assurdo”: l’incontro alla stazione, l’annuncio del matrimonio di Tina, lo svenimento. Ci sono stati incontri, con la proposta di matrimonio, che Tina ha ritenuto inappropriata al loro rapporto, di amicizia. Sa che Pavese ne scriverà e, soprattutto, ne parlerà male. Ma sa anche che Pavese non ha una concezione qualsiasi di un rapporto a due con una donna – si attribuirà molteplici amori, con una “dichiarazione” perfino alla diciottenne Romilda Bollati baronessa di Saint-Pierre, dopo le sorelle Dowling. Una “tendenza”, quella del suicidio, che ora si sa aveva coltivato, e minacciato, in più occasioni. Era pure un bell’uomo: “Mi pare ancora di vederlo”, scrive Tina dell’incontro fortuito sul Po il 31 luglio 1933, il primo incontro a due, quando Pavese, maestro della navigazione “a punta”, imbarca malvolentieri Tina che andava a remi con un amico comune, al quale aveva appena esternato il desiderio d’imparare ad andare “a punta”: “Alto, corpo d’adolescente annerito dal sole, mutandine da bagno e cappellaccio di feltro calcato fino agli occhiali. (C’era solo lui sul Po a portare il cappello con le mutandine da bagno, lui e i sabbiadori)”. “La versione di Tina” si fa leggere, e anche credere.    
Tina Pizzardo,
Senza pensarci due volte, il Mulino, pp. 255, ill. € 18

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