La versione di Tina
Battistina, “Tina”,
Pizzardo si racconta, la “donna del destino” di molto Pavese – a torto. Si racconta
fino alla storia vissuta con Pavese. Ma è un racconto di come si vveva, male,
negli anni 1920-1930, i suoi venti e trent’anni, da giovani e anche spensierati
soggetti a sorveglianze, perquisizioni, ammonizioni, arresti, processi.
Antifascista, per
tutto il lungo racconto, e anche dopo, fa d’acchito i conti col l’antifascismo,
“una vita sprecata” considerando la sua: “Perché anzitutto il fascismo sotto
varie maschere è ben vivo nel mondo, poi perché il fascismo italiano è stato
abbattuto non certo dai suoi strenui oppositori, ma da quegli stessi che
vent’anni prima lo avevano, per loro tornaconto, instaurato. Chi nella lotta ha
lasciato al vita è morto per niente”. Lei per tutti i venti anni che racconta
ne ha subito le pene: sorveglianza, obbligo di frima, carcere, precarietà, una
vita affannosa di insegnante privata a ore, benché matematica, allieva di Peano.
Un racconto
scritto tardi, dopo che il suo nome era stato insinuato quale colpevole del
suicidio di Pavese. Rimasto inedito, come tutto ciò che Tina-Battistina ha scritto
- aveva provato già prima della morte di Pavese, a partire dal 1948, di
pubblicare un romanzo che poi è andato perduto, “Fuga in prigione”, presumibilmente
sulle stesse “avventure” di questo “Senza pensarci due volte”. Pubblicato postumo,
nel 1996, per la cura del figlio Vittorio. Si riprende, per la cura della
vedova di Vittorio, la nuora Vanna Lorenzoni Rieser, dopo 27 anni, a ridosso
del revival Pavese, con la scadenza dei diritti. Aveva tentato di pubblicare “Fuga
in prigione” per dieci lunghi anni, informa Sandra Petrignani, “La versione di
Tina”, una nota che funge da prefazione alla riedizione: “Apprezzato da Primo
Levi ma bocciato da Einaudi e in seguito da Feltrinelli”.
Un racconto
veridico, anche perché non si fa sconti, pur evitando l’autoflagellazione. Vivace,
sempre leggibile. E unico per molti aspetti. Di donna intrepida, molto libera e
molto autonoma. Che ebbe molti flirt e anche qualche fidanzato. I più noti più
giovani di lei, Altiero Spinelli di quattro anni, Cesare Pavese di cinque. Un racconto
di un’età, gli anni del fascismo. Da un altro punto di vista, personale, e umano.
Di persone e situazioni vere, non di maniera, trascurate dalle storie. Le carceri.
Le carcerate, tante, diverse. Le madri superiore delle carceri femminili, anche
loro molto diverse, dalla sadica alla complice. Tante carceri, tutte diverse,
ben rappresentate in breve: Le Nuove a Torino, Marassi, Piacenza, Bologna, Ancona,
Grosseto, le Mantellate. Ognuna un mondo a sé. Con alcuni punti in comune: “La
carta igienica era marrone, perché non si potesse scriverci sopra”. Con le
“politiche” divise dalle “comuni”. Tra le quali il lesbismo è pratica diffusa.
Protetta, in qualche carcere, dalla suora secondina. Con una compagna di
branda, naturalmente una “politica”, tenta anche una disinvolta fuga, senza
sapere dove andare, ma con tanto di buco nel muro e di corda arrotolata pronta
all’uso. Fuga poi abortita perché la stessa mattina la compagna viene messa in
libertà – il regime, la burocrazia, è imprevedibile.
Un tratto felice
delinea una selva di eprpsoanggi in breve e br evissimo. “Togliattino” - “fratello
di Palmiro, morì giovane” - che la “presenta” per la tessera al partito Nazionalista,
al quale i conoscenti all’università la ritenevano destinata essendo stato il
padre militare. Il salotto di Barbara Allason. La facondia di “don Benedetto”
(Croce) Velio Spano a lungo e con affetto,
che la presenta al Partito, il partito Comunista, con Renzo Montagnana, primo
cognato di Togliatti.
Il partito subito
la manda a Roma. Dove è ospite in un istituto di suore, per le cure e a spese
del cugino Pizzarro, alora monsignore, presto cardinale. È, e sarà tutta la
vita, una comunista “nipote di un gesuita, nipote di una badessa agostiniana, pronipote
di due suore di San Vincenzo (una, o tutt’e due, in odor di santità), cugina di
un cardinale”.
Il “contatto” a Roma,
alla cellula universitaria, è Altriero Spinelli. “Altiero non aveva ancora 20
anni, e io ne avevo 24” è la prima notazione. Un rapporto intimo s’instaura che
durerà nove anni. Gli anni del carcere di Altiero, di cui Tina sarà la
“fidanzata”, quella cioè autorizzata a scrivergli, e a riceverne le lettere. Perché
presto i comunisti clandestini sono traditi, nel 1930, da un comapgno che
fungeva da corriere tra le città e quindi ne sconosceva molti. Tina è salvata,
forse casualmente, da un commissario della politica, che rimuove dalle carte a
lei sequestrate le sole due che provavano la sua appartenenza al partito Comunista.
Altiero e altri sono mandati al tribunale speciale e condannati. Ma un rapporto
sempre in clima di militanza. “Non si piange sui caduti, perché a quel tempo
nel partito si crede che il fascismo avrà vita breve”. Spinelli specialmente lo
crede. In uno degli incontri clandestini “lungo la linea Roma-Milano dove lui
doveva recarsi come corriere” (ma in realtà a Lucca), dopo l’attentato Zamboni,
fine ottobre 1926, Altiero le ha assicurato “che il partito saprà resistere e,
entro due o tre anni, vincere”.
Il legame con Spinelli
prigioniero Tina lascia ambiguo. La corrispondenza tra “fidanzati” dura nove
anni. Lui al ricorda poco nelle memorie, Lei, ricorda, “l’8 ottobre 1927 gli
scrivevo da carcere a carcere la prima delle mille e forse più lettere che gli
avrei scritto fino al maggio del ’35 quando, per essere stata di nuovo arrestata,
mi sarà impossibile continuare”. Con l’affetto dei familiari di Altiero, la
madre, le sorelle, almeno uno dei fratelli. Di lui non si sa, anche se avrà
scritto anche lui le sue mille lettere. Il tributo è unico, in tanta
memorialistica, a Maria Spinelli, la madre di Altiero, “una donna che tra la scuola
(ha insegnato per quarant’anni), otto figli estrosi, un marito dispotico, le
frequenti difficoltà finanziarie, gli alti e bassi di una malattia cronica, è
sempre riuscita, mossa dall’innata bontà e dagli ideali socialisti della sua
lontana giovinezza, prodigarsi per tutti”
– la sua madre “adottiva”.
Gli ultimi quattro
capitoli sono dedicati al rapporto con Pavese. Dopo un quintultimo capitolo sul
rapporto in un primo tempo casuale con quello che sarà suo marito, Henek Rieser,
comunista, polacco, ebreo. Prima di Pavese, un forte ricordo è dedicato a Leone
Ginzburg, “il più intelligente, ma soprattutto il più buono, più fraterno, più
caro, dei nuovi amici”, quelli di Giustizia e Libertà, del salotto di Barbara Allason. “Ciuffo, pipa, scontrosità me lo fanno riconoscere prima che mi sia presentato", è la prima immagine di Pavese: "Penso che di lui so tutto e che ci piacciono le stesse cose. Più tardi scoprirò
che tutto ciò che so di lui è tutto un po’ sbagliato. Ha tradotto ‘Moby Dick’,
quindi ama il mare. No, odia il mare….”, etc. È misogino. Non ama la politica –
“Non so quante volte lo vedo in casa di Barbara, certo poche perché non ci
veniva volentieri: si parla troppo di politica…
e tutte quelle smorfiose… e il the... roba che non fa per lui”.
Non è stato un
colpo di fulmine, né da una parte né dall’altra. Non c’è stato nemmeno un rapporto
intimo. A Pavese piacerà pensarlo nel confino di Brancaleone nel 1935 - che
dura solo sei mesi, non un’eternità, come si è indotti a pensare, presto arriva
la grazia. Né al ritorno a Torino c’è stata la scena teatrale messa in giro da
Davide Lajolo, “Il vizio assurdo”: l’incontro alla stazione, l’annuncio del
matrimonio di Tina, lo svenimento. Ci sono stati incontri, con la proposta di
matrimonio, che Tina ha ritenuto inappropriata al loro rapporto, di amicizia.
Sa che Pavese ne scriverà e, soprattutto, ne parlerà male. Ma sa anche che
Pavese non ha una concezione qualsiasi di un rapporto a due con una donna – si attribuirà
molteplici amori, con una “dichiarazione” perfino alla diciottenne Romilda Bollati
baronessa di Saint-Pierre, dopo le sorelle Dowling. Una “tendenza”, quella del
suicidio, che ora si sa aveva coltivato, e minacciato, in più occasioni. Era
pure un bell’uomo: “Mi pare ancora di vederlo”, scrive Tina dell’incontro
fortuito sul Po il 31 luglio 1933, il primo incontro a due, quando Pavese,
maestro della navigazione “a punta”, imbarca malvolentieri Tina che andava a remi
con un amico comune, al quale aveva appena esternato il desiderio d’imparare ad
andare “a punta”: “Alto, corpo d’adolescente annerito dal sole, mutandine da
bagno e cappellaccio di feltro calcato fino agli occhiali. (C’era solo lui sul
Po a portare il cappello con le mutandine da bagno, lui e i sabbiadori)”. “La versione
di Tina” si fa leggere, e anche credere.
Tina Pizzardo,
Senza pensarci due volte, il Mulino, pp. 255, ill. € 18
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