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Le vene sempre aperte dell’America Latina
“Ancora oggi dura quel
desiderio d’oro e di argento e si ammazzano gli spagnoli e spogliano i poveri
indios e per l’oro e l’argento è già spopolato parte di questo regno, i
villaggi dei poveri indios, per l’oro e l’argento”. L’epos della Conquista è
tutto qui, nell’avidità. E nell’infamia: l’alternarsi è continuo di omaggi dei
conquistatori a Montezuma e agli Inca, subito seguiti da tranelli, imboscate,
eccidi. Una Conquista per ogni aspetto non onorevole, insomma: un furto continuato,
e molto violento. Francisco Pizarro stringe patto di fratellanza con Atahualpa
Inca e subito poi, contro il parere dei
suoi, lo fa garrotare e bruciare.
Una narrazione non
contestata, è la versione dei fatti che anche la Spagna subito conosce. Una cronaca
fu disponibile, verso il 1560-1570, “El Primer Nueva Corónica y Buen Gobierno”,
in un misto di castigliano e quechua, opera di Felipe Guaman Poma de Ayala, un
quechua spagnolizzato, che sempre volle i suoi nomi Guamán (falco) e Poma o
Puma accanto a Felipe De Ayala. Del “lungo lavoro di 1179 pagine con circa 300
disegni e illustrazioni” il leitmotiv è questo: “Per avidità si imbarcarono molti
sacerdoti e mercanti spagnoli e signore, per il Pirù, tutto fu Pirù, e ancora
Pirù, Indie, e ancora le Indie, oro e argento di questo regno. Così, per amore
della ricchezza, l’Imperatore mandò governatori e presidenti di tribunali e
vescovi e sacerdoti e frati e spagnoli e signore. Bastava dire Pirù e ancora
Pirù. “Dai centosessanta spagnoli” iniziali “e un negro Cogo, aumentò molto il
numero degli spagnoli e mercanti e commercianti e merciauoli e molti mori, che
ormai si miltiplicano molto più degli indios meticci, figli di sacerdoti, oro e
argento del Pirù”. I tranelli di “Fra Vicente de Valverde” e di Pizarro contro
Atahualpa sono un film. O la guerra tra spagnoli: tra Almagro e i fratelli
Pizarro, sempre per l’oro e l’argento. O i misfatti del primo viceré del Perù,
De Toledo.
Una
storia-antologia, dell’antropologo e storico messicano di recente scomparso,
specialista delle civiltà precolombiane, con le testimonianze azteche, maya e
inca della Conquista spagnola. Vissuta come un terremoto, una catastrofe
naturale. Ma animata, di presagi, tradimenti, eroismi, stragi. E dal senso
comune di una sorta di rivolgimento cosmico.
La Conquista si
legge risentita dagli amerindi come dai cronisti iberici, come una impresa che
cambiava i destini di grandi popolazioni – grandi di numero e di passato. Ma col
senso preciso di una fine, di distruzione e non di creazione. Un senso che si
perpetua ancora, perfino nel millennio, nelle vicende peruviane, brasiliane,
colombiane, venezuelane – dello stesso voto latino, perché no, negli
Stati Uniti: la Conquista ha squassato, e continua a squassare, più che
costruire. Troppe lacerazioni, troppo profonde, che i secoli non ricuciono,
all’evidenza. In senso più profondo, più intimo, si può dire dell’America
Latina che ha le vene sempre aperte con un altro titolo famoso, quello della
dipendenza economica.
Una lettura
impervia – due traduttrici vi si sono innestate, in successione, Gabriella
Lapasini e Giuliana Segre Giorgi. Per un interesse, però, che invece di acuirsi
si affievolisce: la ricerca di Portilla è del 1964, la traduzione del 1974,
seguita da cinque edizioni di fila. La sesta, in commercio, è di dieci anni fa.
Miguel León
Portilla, Il rovescio della conquista, Adelphi, pp.186 € 18
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