mercoledì 29 marzo 2023

Le vene sempre aperte dell’America Latina

“Ancora oggi dura quel desiderio d’oro e di argento e si ammazzano gli spagnoli e spogliano i poveri indios e per l’oro e l’argento è già spopolato parte di questo regno, i villaggi dei poveri indios, per l’oro e l’argento”. L’epos della Conquista è tutto qui, nell’avidità. E nell’infamia: l’alternarsi è continuo di omaggi dei conquistatori a Montezuma e agli Inca, subito seguiti da tranelli, imboscate, eccidi. Una Conquista per ogni aspetto non onorevole, insomma: un furto continuato, e molto violento. Francisco Pizarro stringe patto di fratellanza con Atahualpa Inca  e subito poi, contro il parere dei suoi, lo fa garrotare e bruciare.
Una narrazione non contestata, è la versione dei fatti che anche la Spagna subito conosce. Una cronaca fu disponibile, verso il 1560-1570, “El Primer Nueva Corónica y Buen Gobierno”, in un misto di castigliano e quechua, opera di Felipe Guaman Poma de Ayala, un quechua spagnolizzato, che sempre volle i suoi nomi Guamán (falco) e Poma o Puma accanto a Felipe De Ayala. Del “lungo lavoro di 1179 pagine con circa 300 disegni e illustrazioni” il leitmotiv è questo: “Per avidità si imbarcarono molti sacerdoti e mercanti spagnoli e signore, per il Pirù, tutto fu Pirù, e ancora Pirù, Indie, e ancora le Indie, oro e argento di questo regno. Così, per amore della ricchezza, l’Imperatore mandò governatori e presidenti di tribunali e vescovi e sacerdoti e frati e spagnoli e signore. Bastava dire Pirù e ancora Pirù. “Dai centosessanta spagnoli” iniziali “e un negro Cogo, aumentò molto il numero degli spagnoli e mercanti e commercianti e merciauoli e molti mori, che ormai si miltiplicano molto più degli indios meticci, figli di sacerdoti, oro e argento del Pirù”. I tranelli di “Fra Vicente de Valverde” e di Pizarro contro Atahualpa sono un film. O la guerra tra spagnoli: tra Almagro e i fratelli Pizarro, sempre per l’oro e l’argento. O i misfatti del primo viceré del Perù, De Toledo.
Una storia-antologia, dell’antropologo e storico messicano di recente scomparso, specialista delle civiltà precolombiane, con le testimonianze azteche, maya e inca della Conquista spagnola. Vissuta come un terremoto, una catastrofe naturale. Ma animata, di presagi, tradimenti, eroismi, stragi. E dal senso comune di una sorta di rivolgimento cosmico.
La Conquista si legge risentita dagli amerindi come dai cronisti iberici, come una impresa che cambiava i destini di grandi popolazioni – grandi di numero e di passato. Ma col senso preciso di una fine, di distruzione e non di creazione. Un senso che si perpetua ancora, perfino nel millennio, nelle vicende peruviane, brasiliane, colombiane, venezuelane – dello stesso voto latino, perché no, negli Stati Uniti: la Conquista ha squassato, e continua a squassare, più che costruire. Troppe lacerazioni, troppo profonde, che i secoli non ricuciono, all’evidenza. In senso più profondo, più intimo, si può dire dell’America Latina che ha le vene sempre aperte con un altro titolo famoso, quello della dipendenza economica.
Una lettura impervia – due traduttrici vi si sono innestate, in successione, Gabriella Lapasini e Giuliana Segre Giorgi. Per un interesse, però, che invece di acuirsi si affievolisce: la ricerca di Portilla è del 1964, la traduzione del 1974, seguita da cinque edizioni di fila. La sesta, in commercio, è di dieci anni fa.
Miguel León Portilla,
Il rovescio della conquista, Adelphi, pp.186 € 18

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