L’ombra del carcere oscurò la musica
Il titolo è di un
film di Antonio Pietrangeli, anni 1950, prima della “Dolce vita”, un film molto
turistico (tra gli sceneggiatori Dario Fo). Autore della colonna sonora, con la
canzone del titolo, è Lelio Luttazzi, il personaggio del docufilm. Pianista
jazz, autore di canzoni swing, e anche di “Una zebra a pois” per Mina, cantante,
intrattenitore. E molto triestino, in tutto, affetti, amicizie, ricordi,
canzoni. Un artista-non-artista, creativo ma equilibrato, e felice. Finché non
viene incarcerato, per sbaglio, per detenzione e spaccio di cocaina. Starà in carcere
un mese, meno, ma basta a distruggerlo.
Verdelli lo rappresenta
nella sua integrità, di triestino, artista, manager musicale (creatore e
direttore di orchestre, produttore discografico). Ma, non fosse che per le
testimonianze della moglie e della figlia, la vicenda giudiziaria prende nello
spettatore il sopravvento sul personaggio: l’italiano teme la giustizia.
La carcerazione non
fu la fine – a differenza di un altro caso celebre, Enzo Tortora. Luttazzi pure
fu estromesso dalla Rai, dove aveva programmi popolari, e dal cinema. Ma per
poco. Si rifece con un romanzo, “Operazione Montecristo”, su cui Alberto Sordi
imbastì un film di successo, “Detenuto in attesa di giudizio”, e con un film,
entrambi autobiografici, “L’illazione”. Il film fu un flop, ma Luttazzi
riprese anche l’attività in Rai, nel mondo della canzone, e i concerti jazz. E
niente, il filo non fu riallacciato: vivrà da allora in poi, per altri quarant’anni,
non in pace con se stesso. L’anno primi di morire, nel 2009, va a Sanremo, e
accompagna al piano Arisa in “Sincerità”, tiene un concerto in piazza dell’Unità
a Trieste per Ferragosto, è ripreso da Pupi Avati in un film documentario. E niente:
l’ombra del carcere non si dissipa, anche nel film.
Giorgio Verdelli, Souvenir
d’Italie, Rai 3, Raiplay
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