lunedì 10 aprile 2023

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (521)

Giuseppe Leuzzi


La donna del Sud
Nell’elzeviro “dolore”, anni 1960, poi raccolto in “Ieri, oggi e … non domani”, 1967, Palazzeschi ricorda l’uso del lutto: “Accadeva d’imbatterci lungo le vie cittadine in persone che dal cappello alle scarpe, ai guanti, e al bastone, fino al manico dell’ombrello, tutto era di un nero opaco e tremendo”. Era il lutto “stretto”. “E veniva portato per un anno giusto, dopodiché con l’aprirsi dell’anno nuovo aveva inizio il mezzo lutto”.
Se non che, si sa, i lutti non finiscono mai. “Se poi, dopo due anni un altro componente di quella prospera famiglia se ne volava al cielo, si rifacevano da capo”, il lutto stretto e il mezzo lutto.
Palazzeschi li ricorda, il lutto e il mezzo lutto, “parecchie decine d’anni fa”. Ma non dovevano essere molte decine, poiché lui ne aveva sei, più o meno.
Del lutto perpetuo, che Palazzeschi deve aver visto a Firenze, o a Roma, le sue città, si è fatto per  un secolo e passa, subito a partire dall’unità, il. cliché della “donna del Sud”.
 
Il nostos – o restanza
Il cardinale Ravasi, milanese di formazione e di storia, romano ormai da qualche decennio, porporato e accademico in Vaticano, vicino a entrambi gli ultimi due papi, confida a pranzo con Paolo Bricco sul “Sole 24 Ore”: “Mi è stato molto utile per lungo tempo rientrare, ogni fine settimana, in parrocchia a Osnago, in Brianza, per dire messa e per fare le confessioni ai fedeli. Con le persone più anziane parlo ancora in dialetto lombardo, che ho appreso quando ero piccolo dai miei genitori e dai miei nonni nella versione lecchese e che poi ho affinato studiando le poesie in milanese di Carlo Porta”.
Il ritorno è un ritrovarsi. Non si emigra mai veramente. Non del tutto. La vita non si può spezzare, non lo sopporta e non è possibile – il senso di una vita, il gusto, la lingua. Giustamente la lingua si dice natìa, del luogo in cui si è nati – e non come morfologicamente sarebbe più giusto, “natale, “familiare”. E la lingua resta un pezzo di noi indefettibile, sia pure declinata o esercitata in forme, caratteri e suoni nuovi e diversi. Anche quando ne adottiamo una di forme, caratteri e suoni diversi, a Cleveland essendo partiti dall’Abruzzo. Pure se mutiamo il nome, le generalità. E con la lingua non perdiamo il gusto, il palato, l’odorato, perfino l’occhio - i sensi, quali si sono primariamente esercitati e formati.
Ci sono permanenze nel mutamento, anche in quello radicale, l’alluvione, il terremoto. Perfino nella morte. Vito Teti ha analizzato il caso di Vaccarizzo, un agglomerato calabrese semidistrutto da una frana, che il governo ha ricostruito piuttosto prontamente e con materiali di pregio, che i vecchi abitanti si rifiutano di abitare. Teti ha anche successivamente teorizzato la “restanza, o restare per ripartire, “andare per ritornare”, “il recto e il verso di un radicamento «in cammino»”:
http://www.antiit.com/2022/08/restare-per-ripartire.html
Un pendolo che il radicamento agita. Il radicamento di cui poco si è riflettuto, forse solo Simone Weil (con Cristina Campo) prima di Teti.
Ma poesia è casa: vigilie, feste, quiete, tempeste. E casa è se stessi, in Leopardi, il più cosmopolita dei poeti e letterati - più di D’Annunzio, per dire, che scrive in francese (lo farà anche Malaparte): D’Annunzio non scrisse di Pescara, o di malavoglia – è lo sradicamento che di lui lascia perplessi (lo relega all’estetismo). Nomi, luoghi, figure, albe, tramonti, suoni, attese, eventi, più o menol reali, più o meno narrativi. La poesia è appartenenza, anche solo di ritorno, il ritorno è necessario.
Il giovane Scotellaro che tardivamente si celebra - che il Pci dominante volle ai margini (si dice “la critica marxista”, ma Gramsci, che era marxista, avrebbe apprezzato) – diceva: “La terra mi tiene”.Il poeta di “Sud è il mio amore” (“Margherite e rosolacci”). E: “Dove si nacque, è arca di memorie” (“La casa”).
 
Sudismi\sadismi
Si vuole il “regionalismo differenziato” - che è un atto di superbia del Nord, ognuno lo vede -   l’arco di volta della costituzione, della democrazia, del diritto, eccetera. Poi quando il presidente della Regione Sicilia Schifani dice che non vuole i pannelli solari, il “Corriere della sera” lo rimbrotta, con Ado Grasso, in prima pagina, con asprezza. I pannelli, dice Schifani, “non sono belli, danneggiano i terreni, non producono lavoro e sono gestiti da remoto”. Rovinano il paesaggio, aggiunge, oltre che i terreni, sono un incentivo all’abbandono della terra, non danno nessun utile localmente – “questi impianti danno il 3 per cento di energia ai Comuni come risarcimento per il danno ambient le”.
Per Grasso è già tanto, bisogna contentarsi, il Sud si lamenta, e quando ha qualcosa da offrire – “c’è più sole in Sicilia che in Val d’Aosta” – è ingeneroso. La devoluzione va bene solo al Nord, lì è giusta, equa, salutare, buona, perfino affettuosa, il Sud si ferma al “sovranismo energetico” – sovranismo?
 
La cucina italiana è americana
Il miglior parmigiano si fa nel Wisconsin. La carbonara è una ricetta americana. La pizza è americana: la prima pizzeria fu aperta non in Italia ma a New York, nel 1911. La pizza è una novità degli anni 1950, “la maggior parte degli italiani non ne sapeva nulla prima”. Il panettone e il tiramisù sono invenzioni recenti. Curioso dialogo a due voci, di grande attrattiva per il settimanale “Financial Times Week End” un paio di settimane fa, che lo spalanca a due pagine, con foto lusinghiere e interrogativi-esclamativi, di un professore italiano di storia, Alberto Grandi, con la vice-capo redattore centrale del giornale londinese, Marianna Giusti. Con la quale il professsre ha anche registrato un podcast fortunato. Sempre per parlare male del cibo italiano, che comunque non è italiano. Curiosa duplice negazione del professore. Ma questo non importa.
Il professore di fatto non dice nulla che non si sappia – eccetto il parmigiano del Wisconsin, e la pizza all’anagrafe di New York. Per esempio che la pancetta è stata aggiunta alla carbonara durante l’occupazione americana – fu aggiunta perché all’improvviso ce ne fu in abbondanza, seppure in scatola, n.d.r.. Ma lo dice con astio. Per cui tutto, o quasi, finisce per essere americano – perfino inglese, della famosa cucina della regina…. Anzi, a Giusti lo dice: “La cucina italiana in realtà è più americana che italiana”. Ma lo dice professandosi marxista, cioè uno che va al fondo delle cose. Allievo nella sua disciplina, lo studio delle tradizioni, di Eric Hobsbawm, uno storico marxista inglese rimasto famoso per la “invenzione della tradizione”.
Il professore è un tipo strano. Non sembra quello a caccia di presenziate in tv, come parrebbe dalle sciocchezze che dice. Con Giusti insiste, che è andata a parlarci a Parma, dove insegna: “Qui mi odiano”, e al ristorante parla sottovoce. Si sente bisognoso di “protezione, come Salman Rushdie”. Ma al telegiornale che gli chiede conto dell’uscita sul “FT WeeekEnd” si diminuisce, professandosi unicamente storico. E sembra vero, sembra un timido. Invece si scopre che sono anni che si diletta di fare propaganda contro il made in Italy, in particolare contro le 800 igp, indicazioni geografiche protette, riconosciute giuridicamente dalla Ue. Pur sapendo, da storico, che è una pratica commerciale, ma tra le più onorevoli, quantomeno non disonorevole. Lo ha fatto in convegni internazionali, pare, lo fa nell’intervista, e nel podcast, ghignando: “Ho sempre odiato la montatura che si fa della cucina italiana”.
Grandi lo spalleggia con ricordi familiari. Della Nonna Fiore a Massa, Fiorella Tazzini, 88 anni, che da bambina la rimpinzava di roba surgelata, facendole l’occhiolino: “Non dirlo a tua mamma” – e ora vanta di avere servito le lasagne ad alcuni ospiti inglesi, su richiesta del figlio (Antonio, l’ospite generoso di Montale?), sempre surgelate. La nonna ha visto la pizza “la prima volta a 19-20 anni”, ora ne ha 88, cioè nel 1963, a Viareggio, e attorno a quell’anno scoprì pure la mozzarella. Per il padre del professore peggio: “Per mio padre negli anni 1970 la pizza era altrettanto esotica che il sushi oggi per noi”. Mentre per la prozia di un’amica siciliana di Giusti, la signora Serafina Cerami, di 95 anni, la mozzarella era ben un cibo comune anteguerra. Era cioè roba meridionale - non lo era, la mozzarella è campana, non siciliana, del basso Lazio che una volta era Campania, la Sicilia l’ha scoperta dopo Milano, probabilmente via Galbani. Ma anche questo non importa. Né che Giusti ricordi che suo nonno in guerra sia sopravvissuto mangiando castagne – le Apuane vissero di castagne nel lunghissimo inverno della Linea Gotica, dell’occupazione tedesca – e che la dieta comune era fatta di fagioli e patate (“non ingredienti tipicamente associati con la cucina italiana”: chi glielo ha detto? dove ha vissuto, coi bastoncini Findus della nonna?).
No, il problema è la tradizione. Hobsbawm ne criticò l’invenzione in epoca coloniale, quando fu utilizzata per tenere meglio sottoposte le popolazioni colonizzate – era strumento dell’indirect rule, con cui Londra gestiva l’impero, attraverso intermediari locali, reucci, regine, capetti, stregoni, legati dalla “tradizione” che Londra gli creava attorno, piuttosto che con le armi.
C’è del resto un’invenzione della tradizione che è anche buona, positiva. Walter Scott ha letteralmente inventato la sua Scozia, per sottrarla alla fama – e alla realtà – di terra barbarica, di pastori irsuti incolti. Inventò i clan, inventò i colori dei clan, ne assortì il pedigree, e oggi anche gli indo-africani che governano il Regno Unito si esibiscono in kilt, onorandosi di qualche clan. Personalmente, la scoperta della tradizione culinaria avvenne in Germania, al primo Goethe-Institut, a Grafing bei München, dove il direttore professava la cucina toscana, mentre la moglie dichiarava di preferire la cucina emiliana - una coppia di ragazzi cinquantenni che viaggiava in Bmw 250, la ricostruzione in Germania era partita dal nulla, anche per i marchi prestigiosi (la Bmw 250 era la Isetta della Iso Rivolta, un modello che la casa bavarese aveva rilevato e rilanciato, un quadriciclo a quattro posti, di cui i due posteriori rivolti verso il retro – una macchinetta che toccò sperimentare una domenica, perché, incrociato a fare autostop con la ragazza, la moglie del direttore fu fuori di sé dalla felicità di dare un passaggio a due giovani innamorati). La differenza fra le due cucine diceva qualcosa, avendo fatto gli studi a Firenze, non molto. Ma l’idea fu geniale un decennio dopo, operando presso l’Eni-Agip, di specializzare i posti ristoro del Cane a sei zampe (allora quasi monopolista) lungo l’autostrada nella cucina locale (“regionale”), per un revamping lusinghiero immediato. E di cosa in cosa, la cucina “regionale”, e la cucina italiana (come la moda, specie il prêt-à-porter milanese, inventato di sana pianta) a fronte della francese per esempio, nella ristorazione, diventò ottima impresa - e poi, gradualmemte, agroindustria. Gradevole anche – come poi sarà la cucina etnica, abbiamo ora perfino la cucina ahmarà.
Per chi viene da una formazione cosmopolita, anni 1950-1960, non è il caso del professore, classe 1967, la professione identitaria, dal “buy American” in poi, è stata spiacevole – come del resto oggi la Critical (Race) Theory. Ma è un fatto, ormai da un cinquantennio.
Che c’entra tutto questo con il Sud? Che sentendo il professor Grandi è come sentir parlare un intellettuale del Sud, causidico e masochista – come pure la giornalista, Marianna Giusti: sembra quella che, dalle Apuane invece che dall’Aspromonte, ha fatto carriera a Milano, e ritorna a casuccia giusto per la nonna.
 
Calabria
Caminia, il borgo a mare di Stalettì sullo Jonio nel golfo di Squillace, è spiaggia celebrata, di colori e profumi. Kaminia nell’isola di Lesbo è il luogo di una stele del VI secolo a.C., col profilo di un armato e 33 parole in grafia greca di una lingua della famiglia etrusca. “Fu portata dagli Etruschi migranti dall’Anatolia o arrivati dall’Italia”, Emanuele Papi si chiede sul “Sole 24 Ore” domenica. L’una è l’altra ipotesi è affascinante, anche gli Etruschi “migrati dall’Anatolia”. Almeno loro, non erano ‘ndranghetisti.
 
“The Good Mothers”, ottimo racconto dello scrittore inglese di viaggi Alex Perry,  
http://www.antiit.com/2018/07/la-mafia-e-delle-donne.html
sulle donne di ‘ndrangheta pentite, mogli o figlie, e sulla Pm Anna Colace, che le aveva capite, ne aveva capito la funzione, trasposta in tv in una serie Netflix, non piace al critico. Gianluigi Rossini rimprovera “il moralismo e certa superficialità” – “personaggi un po’ tropo monodimensionali e poca suspense”. E non piace alle dirette interessate. Giuseppina Pesce, benché sempre sotto copertura, quindi a rischio, obietta al ritratto del padre capo-‘ndrangheta: “Descritto come un orco”, invece è “sempre stato amorevole con la figlia”. Mentre Marisa Garofalo, sorella di Lea, una pentita trucidata dal marito, si vede in scena a una festa attorniata da ‘ndranghetisti: lei, la sorella, la sua famiglia, non ci avevano nulla a che fare, è stato il matrimonio di Lea sfortunato.
 
“La parte più interessante” di “The Good Mothers”, continua il critico, “forse è quella visiva, gli scorci dei paesi calabresi privati di ogni romanticismo, fatti di case abbandonate, muri senza intonaco e abusi edilizi”. O non di un luogo comune al rovescio, non romantico?
 
“The Good Mothers”, libro importante oltre che di lettura, non è stato tradotto. Si pubblicano in Italia mediamente un centinaio di libri tradotti ogni giorno. La Calabria non legge, e agli altri non interessa.
La serie tv è Disney, autore il britannico Stephen Butchard, con qualche attore italiano.
 
È di Falerna, sotto Cosenza ma in provincia di Catanzaro, Sonny Vaccaro, che ha creato il mito delle Nike, cinquant’anni fa, puntando col modello Air sul principiante Michael Jordan. Se suo papà nel 1938 fosse emigrato in Italia invece che in Pennsylvania?
Un po’ come Rocco Commisso, che invece è emigrato con i suoi piedi.
 
Fazio è riuscito a fare una puntata di “Che tempo che fa” sul film “Air”, parlando a lungo col regista Ben Affleck, specie del protagonista, Matt Damon, un Matt Damon gonfiato, com’è ora il protagonista della storia, che racconta la storia di Vaccaro e Jordan, senza mai nominare Vaccaro. Sembra incredibile, ma è vero.
 
Ha due sole entrate nella classifica Fai-Banca Intesa dei 138 Luoghi del Cuore, anche se a un onorevole 20mo posto, per un museo Mulino Belfiore di San Giovanni in Fiore, che ha saputo mobilitare 11 mila firme. E al fondo della classifica per un forte militare a Campo Calabro, nobilitato da un migliaio di firme. Non si apprezza, forse – o il Fai è poco attivo nella regione. Di sicuro non sa che la pubblicità è l’anima del commercio.
 
Ha il record dei risarcimenti giudiziari. “Dei ventottomila risarcimenti per ingiusta detenzione pagati in Italia tra il 1990 e il 2018, la maggiore incidenza rispetto alla popolazione si registra in Calabria” – Alessandro Barbano, “L’Inganno”, p. 153: “Nei primi nove mesi del 2018, nel distretto della Corte d’Appello di Catanzaro si contano 182 ordinanze di pagamento su 895 nazionali, con un costo pari quasi a un terzo del totale: 103 milioni su 333”. E “la Corte d’Appello di Catanzaro, competente su questa materia, ha fissato con il contagocce le udienze per ingiusta detenzione”.
A Catanzaro istruisce i processi il simpatico giudice Gratteri, che non se la prende mai in tv e sorride, ma ha l’arresto facile, ogni volta ne sbatte dentro a centinaia. Meglio abbondare che scarseggiare? Ma poi scarseggiano le spese per la giustizia – in Calabria ognuno lo sa.
 
Nel raccontino “Finanza”, il secondo della raccolta “Ieri, oggi e... non domani”, Palazzeschi evoca il padre commerciante che gli insegnava come i buoni affari volessero onestà, e per ammonimento gli mostrava nella Loggia del Porcellino a Firenze un certo marmo sul quale usava dare “giusto castigo e pubblico scorno al mercante fallito, tirandogli giù i calzoni e a posteriore scoperto sbattendolo e risbattendolo per un’infinità di volte su quel marmo”. È la vecchia pena dell’Acculattata – che il vocabolario più non registra. Ma è rimasto nel dialetto: avere o sbattere “il culo ‘a cciappa”.
 
È calabrese, di genitori calabresi, emigrati in Germania da Caulonia, Daniela Cavallo, la prima donna a capo del consiglio di fabbrica Volkswagen – dei 66 mila lavoratori del gruppo cioè – e per questo parte del consiglio d’amministrazione. In una posizione, per gli statuti sindacali tedeschi (codetermianzione, cioè cogestione), per molti aspetti la più importante dirigente. In VW dai 18 anni, ora ne ha 47, bella dona, due figli, sorridente e tenace. A lei si è rivolto il mese scorso il cancelliere Scholz, per promuovere la transizione verde nella mobilità – al centro dello sforzo tedesco per mantenere in Europa l’industria “verde” dell’automobile: “È importante che questa sia sempre stata la tua preoccupazione e che tu faccia un tale sforzo” – il tu usa ancora in Germania tra “compagni” socialisti.
 
“Mio nonno Enrico era un figlio illegittimo, nato in Calabria nell’anno della battagia di Mentana, cui dovette il suo cognome” – Enrico Mentana a Cazzullo sul “Corriere della sera”. Sempre risorgimentale, garibaldina, anche nelle piccole cose.
 
Napoleone nell’esilio di Sant’Elena, apprendendo che uno dei suoi carcerieri, l’ammiraglio Sidney-Smith, aveva combattuto alla testa di irregolari calabresi contro le sue truppe, lo apostrofò “comandante di traditori”. 

leuzzi@antiit.eu

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