A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (521)
Giuseppe Leuzzi
La donna del Sud
Nell’elzeviro “dolore”,
anni 1960, poi raccolto in “Ieri, oggi e … non domani”, 1967, Palazzeschi
ricorda l’uso del lutto: “Accadeva d’imbatterci lungo le vie cittadine in
persone che dal cappello alle scarpe, ai guanti, e al bastone, fino al manico dell’ombrello,
tutto era di un nero opaco e tremendo”. Era il lutto “stretto”. “E veniva
portato per un anno giusto, dopodiché con l’aprirsi dell’anno nuovo aveva
inizio il mezzo lutto”.
Se non che, si
sa, i lutti non finiscono mai. “Se poi, dopo due anni un altro componente di
quella prospera famiglia se ne volava al cielo, si rifacevano da capo”, il
lutto stretto e il mezzo lutto.
Palazzeschi li
ricorda, il lutto e il mezzo lutto, “parecchie decine d’anni fa”. Ma non
dovevano essere molte decine, poiché lui ne aveva sei, più o meno.
Del lutto perpetuo,
che Palazzeschi deve aver visto a Firenze, o a Roma, le sue città, si è fatto
per un secolo e passa, subito a partire
dall’unità, il. cliché della “donna del Sud”.
Il nostos – o restanza
Il cardinale
Ravasi, milanese di formazione e di storia, romano ormai da qualche decennio,
porporato e accademico in Vaticano, vicino a entrambi gli ultimi due papi,
confida a pranzo con Paolo Bricco sul “Sole 24 Ore”: “Mi è stato molto utile per
lungo tempo rientrare, ogni fine settimana, in parrocchia a Osnago, in Brianza,
per dire messa e per fare le confessioni ai fedeli. Con le persone più anziane
parlo ancora in dialetto lombardo, che ho appreso quando ero piccolo dai miei
genitori e dai miei nonni nella versione lecchese e che poi ho affinato
studiando le poesie in milanese di Carlo Porta”.
Il ritorno è un
ritrovarsi. Non si emigra mai veramente. Non del tutto. La vita non si può
spezzare, non lo sopporta e non è possibile – il senso di una vita, il gusto,
la lingua. Giustamente la lingua si dice natìa, del luogo in cui si è nati – e
non come morfologicamente sarebbe più giusto, “natale, “familiare”. E la lingua
resta un pezzo di noi indefettibile, sia pure declinata o esercitata in forme, caratteri
e suoni nuovi e diversi. Anche quando ne adottiamo una di forme, caratteri e
suoni diversi, a Cleveland essendo partiti dall’Abruzzo. Pure se mutiamo il
nome, le generalità. E con la lingua non perdiamo il gusto, il palato, l’odorato,
perfino l’occhio - i sensi, quali si sono primariamente esercitati e formati.
Ci sono permanenze nel mutamento, anche in
quello radicale, l’alluvione, il terremoto. Perfino nella morte. Vito Teti ha
analizzato il caso di Vaccarizzo, un agglomerato calabrese semidistrutto da una
frana, che il governo ha ricostruito piuttosto prontamente e con materiali di pregio,
che i vecchi abitanti si rifiutano di abitare. Teti ha anche successivamente
teorizzato la “restanza”, o restare per
ripartire, “andare per ritornare”, “il recto e il verso di un radicamento «in cammino»”:
http://www.antiit.com/2022/08/restare-per-ripartire.html
Un pendolo che il radicamento agita. Il radicamento di cui poco si è riflettuto, forse solo Simone Weil (con Cristina Campo)
prima di Teti.
Ma poesia è
casa: vigilie, feste, quiete, tempeste. E casa è se stessi, in Leopardi, il più
cosmopolita dei poeti e letterati - più di D’Annunzio, per dire, che scrive in
francese (lo farà anche Malaparte): D’Annunzio non scrisse di Pescara, o di
malavoglia – è lo sradicamento che di lui lascia perplessi (lo relega all’estetismo).
Nomi, luoghi, figure, albe, tramonti, suoni, attese, eventi, più o menol reali,
più o meno narrativi. La poesia è appartenenza, anche solo di ritorno, il
ritorno è necessario.
Il giovane Scotellaro
che tardivamente si celebra - che il Pci dominante volle ai margini (si dice “la
critica marxista”, ma Gramsci, che era marxista, avrebbe apprezzato) – diceva: “La
terra mi tiene”.Il poeta di “Sud è il mio amore” (“Margherite e rosolacci”). E:
“Dove si nacque, è arca di memorie” (“La casa”).
Sudismi\sadismi
Si vuole il “regionalismo
differenziato” - che è un atto di superbia del Nord, ognuno lo vede - l’arco
di volta della costituzione, della democrazia, del diritto, eccetera. Poi
quando il presidente della Regione Sicilia Schifani dice che non vuole i
pannelli solari, il “Corriere della sera” lo rimbrotta, con Ado Grasso, in
prima pagina, con asprezza. I pannelli, dice Schifani, “non sono belli,
danneggiano i terreni, non producono lavoro e sono gestiti da remoto”. Rovinano
il paesaggio, aggiunge, oltre che i terreni, sono un incentivo all’abbandono
della terra, non danno nessun utile localmente – “questi impianti danno il 3
per cento di energia ai Comuni come risarcimento per il danno ambient le”.
Per Grasso è
già tanto, bisogna contentarsi, il Sud si lamenta, e quando ha qualcosa da
offrire – “c’è più sole in Sicilia che in Val d’Aosta” – è ingeneroso. La
devoluzione va bene solo al Nord, lì è giusta, equa, salutare, buona, perfino affettuosa,
il Sud si ferma al “sovranismo energetico” – sovranismo?
La cucina
italiana è americana
Il miglior parmigiano
si fa nel Wisconsin. La carbonara è una ricetta americana. La pizza è americana:
la prima pizzeria fu aperta non in Italia ma a New York, nel 1911. La pizza è una
novità degli anni 1950, “la maggior parte degli italiani non ne sapeva nulla
prima”. Il panettone e il tiramisù sono invenzioni recenti. Curioso dialogo a
due voci, di grande attrattiva per il settimanale “Financial Times Week End” un
paio di settimane fa, che lo spalanca a due pagine, con foto lusinghiere e interrogativi-esclamativi,
di un professore italiano di storia, Alberto Grandi, con la vice-capo redattore
centrale del giornale londinese, Marianna Giusti. Con la quale il professsre ha
anche registrato un podcast fortunato. Sempre per parlare male del cibo
italiano, che comunque non è italiano. Curiosa duplice negazione del professore.
Ma questo non importa.
Il professore
di fatto non dice nulla che non si sappia – eccetto il parmigiano del Wisconsin,
e la pizza all’anagrafe di New York. Per esempio che la pancetta è stata
aggiunta alla carbonara durante l’occupazione americana – fu aggiunta perché
all’improvviso ce ne fu in abbondanza, seppure in scatola, n.d.r.. Ma lo dice
con astio. Per cui tutto, o quasi, finisce per essere americano – perfino
inglese, della famosa cucina della regina…. Anzi, a Giusti lo dice: “La cucina
italiana in realtà è più americana che italiana”. Ma lo dice professandosi marxista,
cioè uno che va al fondo delle cose. Allievo nella sua disciplina, lo studio
delle tradizioni, di Eric Hobsbawm, uno storico marxista inglese rimasto famoso
per la “invenzione della tradizione”.
Il professore è
un tipo strano. Non sembra quello a caccia di presenziate in tv, come parrebbe dalle
sciocchezze che dice. Con Giusti insiste, che è andata a parlarci a Parma, dove
insegna: “Qui mi odiano”, e al ristorante parla sottovoce. Si sente bisognoso
di “protezione, come Salman Rushdie”. Ma al telegiornale che gli chiede conto
dell’uscita sul “FT WeeekEnd” si diminuisce, professandosi unicamente storico. E
sembra vero, sembra un timido. Invece si scopre che sono anni che si diletta di
fare propaganda contro il made in Italy, in particolare contro le 800
igp, indicazioni geografiche protette, riconosciute giuridicamente dalla Ue. Pur
sapendo, da storico, che è una pratica commerciale, ma tra le più onorevoli,
quantomeno non disonorevole. Lo ha fatto in convegni internazionali, pare, lo
fa nell’intervista, e nel podcast, ghignando: “Ho sempre odiato la montatura
che si fa della cucina italiana”.
Grandi lo spalleggia
con ricordi familiari. Della Nonna Fiore a Massa, Fiorella Tazzini, 88 anni,
che da bambina la rimpinzava di roba surgelata, facendole l’occhiolino: “Non
dirlo a tua mamma” – e ora vanta di avere servito le lasagne ad alcuni ospiti
inglesi, su richiesta del figlio (Antonio, l’ospite generoso di Montale?), sempre
surgelate. La nonna ha visto la pizza “la prima volta a 19-20 anni”, ora ne ha
88, cioè nel 1963, a Viareggio, e attorno a quell’anno scoprì pure la mozzarella.
Per il padre del professore peggio: “Per mio padre negli anni 1970 la pizza era
altrettanto esotica che il sushi oggi per noi”. Mentre per la prozia di
un’amica siciliana di Giusti, la signora Serafina Cerami, di 95 anni, la mozzarella
era ben un cibo comune anteguerra. Era cioè roba meridionale - non lo era, la
mozzarella è campana, non siciliana, del basso Lazio che una volta era
Campania, la Sicilia l’ha scoperta dopo Milano, probabilmente via Galbani. Ma
anche questo non importa. Né che Giusti ricordi che suo nonno in guerra sia sopravvissuto
mangiando castagne – le Apuane vissero di castagne nel lunghissimo inverno della
Linea Gotica, dell’occupazione tedesca – e che la dieta comune era fatta di fagioli
e patate (“non ingredienti tipicamente associati con la cucina italiana”: chi
glielo ha detto? dove ha vissuto, coi bastoncini Findus della nonna?).
No, il problema
è la tradizione. Hobsbawm ne criticò l’invenzione in epoca coloniale, quando fu
utilizzata per tenere meglio sottoposte le popolazioni colonizzate – era strumento
dell’indirect rule, con cui Londra gestiva l’impero, attraverso
intermediari locali, reucci, regine, capetti, stregoni, legati dalla “tradizione”
che Londra gli creava attorno, piuttosto che con le armi.
C’è del resto
un’invenzione della tradizione che è anche buona, positiva. Walter Scott ha letteralmente
inventato la sua Scozia, per sottrarla alla fama – e alla realtà – di terra barbarica,
di pastori irsuti incolti. Inventò i clan, inventò i colori dei clan, ne
assortì il pedigree, e oggi anche gli indo-africani che governano il
Regno Unito si esibiscono in kilt, onorandosi di qualche clan. Personalmente,
la scoperta della tradizione culinaria avvenne in Germania, al primo Goethe-Institut,
a Grafing bei München, dove il direttore professava la cucina toscana, mentre
la moglie dichiarava di preferire la cucina emiliana - una coppia di ragazzi
cinquantenni che viaggiava in Bmw 250, la ricostruzione in Germania era partita
dal nulla, anche per i marchi prestigiosi (la Bmw 250 era la Isetta della Iso
Rivolta, un modello che la casa bavarese aveva rilevato e rilanciato, un
quadriciclo a quattro posti, di cui i due posteriori rivolti verso il retro –
una macchinetta che toccò sperimentare una domenica, perché, incrociato a fare
autostop con la ragazza, la moglie del direttore fu fuori di sé dalla felicità
di dare un passaggio a due giovani innamorati). La differenza fra le due cucine
diceva qualcosa, avendo fatto gli studi a Firenze, non molto. Ma l’idea fu
geniale un decennio dopo, operando presso l’Eni-Agip, di specializzare i posti
ristoro del Cane a sei zampe (allora quasi monopolista) lungo l’autostrada
nella cucina locale (“regionale”), per un revamping lusinghiero
immediato. E di cosa in cosa, la cucina “regionale”, e la cucina italiana (come
la moda, specie il prêt-à-porter milanese, inventato di sana pianta) a fronte
della francese per esempio, nella ristorazione, diventò ottima impresa - e poi,
gradualmemte, agroindustria. Gradevole anche – come poi sarà la cucina etnica,
abbiamo ora perfino la cucina ahmarà.
Per chi viene
da una formazione cosmopolita, anni 1950-1960, non è il caso del professore, classe
1967, la professione identitaria, dal “buy American” in poi, è stata spiacevole
– come del resto oggi la Critical (Race) Theory. Ma è un fatto, ormai da un
cinquantennio.
Che c’entra
tutto questo con il Sud? Che sentendo il professor Grandi è come sentir parlare
un intellettuale del Sud, causidico e masochista – come pure la giornalista,
Marianna Giusti: sembra quella che, dalle Apuane invece che dall’Aspromonte, ha
fatto carriera a Milano, e ritorna a casuccia giusto per la nonna.
Calabria
Caminia, il borgo a mare di Stalettì
sullo Jonio nel golfo di Squillace, è spiaggia celebrata, di colori e profumi. Kaminia
nell’isola di Lesbo è il luogo di una stele del VI secolo a.C., col profilo di
un armato e 33 parole in grafia greca di una lingua della famiglia etrusca. “Fu
portata dagli Etruschi migranti dall’Anatolia o arrivati dall’Italia”, Emanuele
Papi si chiede sul “Sole 24 Ore” domenica. L’una è l’altra ipotesi è affascinante,
anche gli Etruschi “migrati dall’Anatolia”. Almeno loro, non erano ‘ndranghetisti.
“The Good Mothers”, ottimo
racconto dello scrittore inglese di viaggi Alex Perry,
http://www.antiit.com/2018/07/la-mafia-e-delle-donne.html
sulle donne di ‘ndrangheta pentite,
mogli o figlie, e sulla Pm Anna Colace, che le aveva capite, ne aveva capito la
funzione, trasposta in tv in una serie Netflix, non piace al critico. Gianluigi
Rossini rimprovera “il moralismo e certa superficialità” – “personaggi un po’
tropo monodimensionali e poca suspense”. E non piace alle dirette interessate.
Giuseppina Pesce, benché sempre sotto copertura, quindi a rischio, obietta al
ritratto del padre capo-‘ndrangheta: “Descritto come un orco”, invece è “sempre
stato amorevole con la figlia”. Mentre Marisa Garofalo, sorella di Lea, una pentita
trucidata dal marito, si vede in scena a una festa attorniata da ‘ndranghetisti:
lei, la sorella, la sua famiglia, non ci avevano nulla a che fare, è stato il matrimonio
di Lea sfortunato.
“La parte più interessante”
di “The Good Mothers”, continua il critico, “forse è quella visiva, gli scorci
dei paesi calabresi privati di ogni romanticismo, fatti di case abbandonate,
muri senza intonaco e abusi edilizi”. O non di un luogo comune al rovescio, non
romantico?
“The Good Mothers”, libro importante
oltre che di lettura, non è stato tradotto. Si pubblicano in Italia mediamente un
centinaio di libri tradotti ogni giorno. La Calabria non legge, e agli altri
non interessa.
La serie tv è Disney, autore
il britannico Stephen Butchard, con qualche attore italiano.
È di Falerna, sotto Cosenza
ma in provincia di Catanzaro, Sonny Vaccaro, che ha creato il mito delle Nike,
cinquant’anni fa, puntando col modello Air sul principiante Michael Jordan. Se
suo papà nel 1938 fosse emigrato in Italia invece che in Pennsylvania?
Un po’ come Rocco Commisso, che
invece è emigrato con i suoi piedi.
Fazio è riuscito a fare una
puntata di “Che tempo che fa” sul film “Air”, parlando a lungo col regista Ben
Affleck, specie del protagonista, Matt Damon, un Matt Damon gonfiato, com’è ora
il protagonista della storia, che racconta la storia di Vaccaro e Jordan, senza
mai nominare Vaccaro. Sembra incredibile, ma è vero.
Ha due sole entrate nella classifica
Fai-Banca Intesa dei 138 Luoghi del Cuore, anche se a un onorevole 20mo posto, per un museo Mulino Belfiore
di San Giovanni in Fiore, che ha saputo mobilitare 11 mila firme. E al fondo della classifica per
un forte militare a Campo Calabro,
nobilitato da un migliaio di firme. Non
si apprezza, forse – o il Fai è poco attivo nella
regione. Di sicuro non sa che la
pubblicità è l’anima del commercio.
Ha il record dei
risarcimenti giudiziari. “Dei ventottomila risarcimenti per
ingiusta detenzione pagati
in Italia tra il 1990 e il 2018, la maggiore
incidenza rispetto alla popolazione si registra
in Calabria” – Alessandro Barbano,
“L’Inganno”, p. 153: “Nei
primi nove mesi del 2018, nel distretto
della Corte d’Appello di Catanzaro si
contano 182 ordinanze di pagamento
su 895 nazionali, con un costo pari quasi a un terzo del
totale: 103 milioni su 333”. E “la Corte d’Appello di Catanzaro, competente su
questa materia, ha fissato con il contagocce le
udienze per ingiusta detenzione”.
A Catanzaro istruisce i processi il simpatico giudice Gratteri, che
non se la prende mai in tv e sorride, ma ha l’arresto facile, ogni volta ne sbatte
dentro a centinaia. Meglio abbondare che scarseggiare? Ma poi scarseggiano le
spese per la giustizia – in Calabria ognuno lo sa.
Nel raccontino “Finanza”, il
secondo della raccolta “Ieri, oggi e... non domani”, Palazzeschi evoca il padre
commerciante che gli insegnava come i buoni affari volessero onestà, e per ammonimento
gli mostrava nella Loggia del Porcellino a Firenze un certo marmo sul quale usava
dare “giusto castigo e pubblico scorno al mercante fallito, tirandogli giù i
calzoni e a posteriore scoperto sbattendolo e risbattendolo per un’infinità di volte
su quel marmo”. È la vecchia pena dell’Acculattata – che il vocabolario più non
registra. Ma è rimasto nel dialetto: avere o sbattere “il culo ‘a cciappa”.
È calabrese, di genitori
calabresi, emigrati in Germania da Caulonia, Daniela Cavallo, la prima donna a
capo del consiglio di fabbrica Volkswagen – dei 66 mila lavoratori del gruppo
cioè – e per questo parte del consiglio d’amministrazione. In una posizione, per
gli statuti sindacali tedeschi (codetermianzione, cioè cogestione), per molti
aspetti la più importante dirigente. In VW dai 18 anni, ora ne ha 47, bella
dona, due figli, sorridente e tenace. A lei si è rivolto il mese scorso il cancelliere
Scholz, per promuovere la transizione verde nella mobilità – al centro dello sforzo
tedesco per mantenere in Europa l’industria “verde” dell’automobile: “È importante
che questa sia sempre stata la tua preoccupazione e che tu faccia un tale sforzo”
– il tu usa ancora in Germania tra “compagni” socialisti.
“Mio nonno Enrico era un
figlio illegittimo, nato in Calabria nell’anno della battagia di Mentana, cui
dovette il suo cognome” – Enrico Mentana a Cazzullo sul “Corriere della sera”.
Sempre risorgimentale, garibaldina, anche nelle piccole cose.
Napoleone
nell’esilio di Sant’Elena, apprendendo che uno dei suoi carcerieri,
l’ammiraglio Sidney-Smith, aveva combattuto alla
testa di irregolari calabresi contro le sue truppe, lo apostrofò “comandante di traditori”.
leuzzi@antiit.eu
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