Giuseppe Leuzzi
Il signor latitante
– o la lotta alla mafia
Più si va avanti,
per giunta stancamente, in questa vicenda di Messina Denaro più si resta
sconcertati. Come il giudice Montalto, uno specialista dei “concorsi esterni”, ma
anche di più. Che l’uomo più ricercato d’Italia frequentasse familiari,
parenti, amici, conoscenti. Girasse in automobile, da solo, senza staffette o
guardie del corpo, a rischio incidenti, o multe. Con più di una residenza. Uno
che faceva la spesa. E probabilmente andava al ristorante. Non ogni giorno,
certo, ogni tanto, come tutti. Con i suoi tratti fisionomici, senza maschere né
plastiche. E per contrasto, scorrendo il giornale, si legga delle indagini a
tappeto, con schieramento di almeno tre giudici della Procura di Torino, e di
decine o centinaia di Guardie di Finanza, per ascoltare, registrare,
selezionare le conversazioni quotidiane di decine di dirigenti e impiegati di una
squadra di calcio, per giorni, settimane, mesi, probabilmente anni, alla
ricerca, con insistenza, acribia, determinazione, di un qualche fumus delicti.
E questo è il quadro: al Sud si può delinquere impuniti, anche di delitti gravi
e gravissimi, mentre di una squadra di calcio si cerca anche il pelo nell’uovo.
Si dice che Messina Denaro è stato protetto dall’omertà. Non lo è stato (quanta
omertà ci sarebbe voluta nel suo caso? o, allora, si tratta di omertà dello Stato?), è stato protetto dal menefreghismo. La
stessa lentezza con cui la miriade di contatti “normali” del superlatitante emerge
dice che non c’era molto materiale già raccolto su di lui. Che si procede a
naso – a tentoni si direbbe nel falso toscano. Di fatto, senza interesse, senza
impegno, nemmeno “normale”.
Ma se l’omertà ci
fosse, di decine, centinaia di siciliani dell’agrigentino, quelli del
commissario Montalbano, e avesse protetto Messina Denaro, si capirebbe: non si
può fare il poliziotto contro lo “Stato” – c’è nei gialli americani, che il detective fa la giustizia che lo Stato non fa, ma sono
buffonate. Il servizio “I” della Guardia di Finanza, che controlla fino al
cosiddetto buco del culo della Juventus, a Torino come già a Napoli, non lo
permetterebbe.
Si potrebbe pensare
Messina Denaro protetto dall’incapacità. Ma lo stesso giudice Montalto ha
smosso montagne per avere i fratelli Graviano testimoni contro Berlusconi. Come
già la Guardia di Finanza con le sue perquisizioni quotidiane, e biquotidiane,
negli uffici e le residenze del tycoon milanese: quando si vuole si fa
l’impossibile. Il problema del Sud è che non ha Agnelli o Berlusconi, roba in
grado di stimolare il fiuto degli investigatori – non si fa carriera. Una volta
si diceva dei funzionari pubblici per un qualche motivo in disgrazia che sarebbero
stati mandati a Petralia Sottana, oppure “in Sardegna”. Si vede che non era, non
è, un modo di dire.
La bistecca
sintetica era già nata, e morta, a Reggio Calabria
Avvicinandosi
alla fine, il protagonista del romanzo di Rocco Carbone “L’apparizione”, 2002,
ritorna alla città natia, dal padre, e in macchina si spinge poi oltre, fino a
“una fabbrica, costruita a ridosso della costa, accanto alla spiaggia”, in
stato di abbandono. La città è Reggio Calabria, e la fabbrica è Saline Joniche,
costruita sotto Reggio Calabria perché senza spese, a carico dello Stato, per
la “chimica dei “pareri di conformità” dei governicchi andreottiani del compromesso
storico nei secondi anni 1970. Un luogo abbandonato che a Carbone è sembrato
propizio per ambientarvi l’esito tragico del romanzo.
Il protagonista del
romanzo “conosceva quel luogo”: “Era stato costruito quando lui era un ragazzo
ed era l’unico grande impianto industriale di tutta la regione. Avrebbe dovuto
produrre materiale biochimico, ma non era mai entrato in funzione, perché nel
lungo tempo impiegato per la sua costruzione si era scoperto che i rifiuti di
produzione erano tossici”. Il “materiale biochimico” era la “bistecca
sintetica”. Un derivato dal petrolio, su licenza della British Petroleum, che
però non l’aveva mai sperimentato industrialmente, per non sprecare
l’investimento.
L’impianto costò
la carriera a Guido Papalia, il magistrato che s’illustrerà a Verona nella
liberazione del generale Dozier, l’unica azione condotta positivamente contro
le Br. Ma anche nella lotta puntuale alla corruzione, attorno alle Casse di
risparmio, e contro le melensaggini terroristiche dell’indipendentismo padano,
del primo Bossi. Senza però andare oltre l’incarico di Procuratore Capo a
Verona, perché classificato al Csm di destra. A causa dell’indagine che aveva
aperto a Reggio Calabria sulla bistecca sintetica. Sul gruppo della bistecca
sintetica, la Liquigas di Raffaele Ursini, un ragioniere di Roccella Jonica
portato alla grande finanza da Michelangelo Virgillito, operatore di Borsa, milanese
di Paternò vicino Catania. Sul traffico di influenze, o corruzione, che aveva
facilitato i trasferimenti pubblici alla “bistecca”. E sul trasferimento di parte
di questi “trasferimenti” alla “Svizzera”, via la capogruppo Liquigas, cioè al
tesoro personale di Ursini. L’inchiesta gli fu scippata – finirà insabbiata – e il giovane
Papalia fu trasferito lontano.
Siete meridionali? State confiscati!
Stia punito! Era il leitmotiv del servizio
militare quando era d’obbligo. Ora la leva non c’è più, ma l’ordine dei servitori
dello Stato non è venuto meno: invece che punire, confiscano – e poi arrangiatevi.
Alessandro Barbano, “L’inganno”, denuncia
un “sistema” dove l’eccezione diventa regola. Al Sud sequestri e confische di
beni e patrimoni colpiscono a caso, migliaia di cittadini e imprenditori mai
processati, oppure assolti, ma con “sentenze” di condanna comunque indelebili
emesse dagli inquirenti sui media. O anche liberamente – nomn c’è
bisogno di condanna - applicati ai patrimoni dai “tribunali speciali” addetti alla
“prevenzione” del crimine. Questi giudici possono, senza dover provare niente,
sequestrare, confiscare e anche alienare i patrimoni di gente anche onesta, a
uzzo di voci e convinzioni, che spesso non è condannata – in un paio di casi nemmeno
indagata – e perde tutto (quando il patrimonio viene restituito è sempre azzerato
di valore: le confische servono a riempire le tasche di amministratori che il
tribunale di prevenzione nomina liberamente, tra amici e consoci). Barbano ricostituisce
anche storie di eredi, figli o nipoti, confiscati perché non provano in tutti
i dettagli la provenienza del patrimonio.
Si anticipano giudizialmente e si impongono leggi
inutili o cattive. Si moltiplicano i reati e le pene. Professando di fatto il
rovesciamento dello Stato di diritto, sotto l’apparenza di una migliore difesa
contro le mafie. Con un uso spropositato delle punizioni amministrative, non
contestabili, in uso nel fascismo, quali appunto le interdittive antimafia e la
carcerazione preventiva. Assortite dagli scioglimenti a iosa dei consigli
comunali, solo per distribuire incarichi e prebende ai funzionari prefettizi. Per
non dire degli arbitrii giudiziari veri e propri, che in un ordinamento costituzionalmente
regolato sarebbero materia penale. Sotto le bandiere dell’antimafia, che poco
cura le mafie, giusto quanto basta alle carriere.
Barbano cita i numeri di una ricerca dello
scrittore Mimmo Gangemi – che non è riuscito a pubblicarla – sulle retate periodicamente
disposte dal Procuratore Antimafia Gratteri e le condanne: ogni volta centinaia
di arresti, e poi una decina di condanne, anche meno. Cita anche almeno un caso
di manipolazione delle prove, a opera degli inquirenti – ma si sa che la pratica
è costante: una registrazione tagliata a metà prodotta in aula come testimonianza
d’accusa. Della moglie che chiede al marito, di una persona di cui si parla:
“Ma è mafioso?”, che diventa: “Ma è mafioso”.
E non è tutto, qualcosa
ancora andava detto, perché è il nodo centrale di un’antimafia che è diventata
una questione politica del tipo “leghista” - si ricordano ancora con orrore le
maledizioni, non remote, di Bobbio, che sulla “Stampa” di Torino il Sud voleva
recintato con i cavalli di frisia, e di Galli della Loggia, che ipotizzava un
nuovo decalogo, sempre sulla “Stampa”, “contro la mafia”, attorno al principio
che “lo Stato deve rendere la vita impossibile come e più della mafia”, tagliando
l’acqua, la luce e il telefono, togliendo la patente - e poco efficace sul piano criminale, della
prevenzione e del contrasto al crimine. Le “retate” di Gratteri nascono dalle
informative che i comandanti delle stazioni locali dei Carabinieri quotidianamente
redigono, senza accertamenti, sulla sola voce popolare. La quale, essendo i
Carabinieri ormai da quarant’anni barricati dentro caserme con le sbarre, è
quella degli informatori. I quali più spesso sono gestiti dai mafiosi. Con
l’effetto che si parla da anni, da decenni, da poco meno di un secolo ormai, degli
Alvaro di Sinopoli, dei Mancuso del Monte Poro, marine del capo Vaticano incluse, dei Grande Aracri di Crotone, che sono sempre lì – i Piromalli di Gioia Tauro, i
Mammoliti di Castellace, i Pesce di Rosarno, i Pelle di San Luca, i Crea di Rizziconi,
i Cordì e i tanti altri di Locri sono andati in bassa fortuna, ma per errori o
impicci loro.
Se mafioso era Pantaleone
Si ricorda
ancora con raccapriccio l’uso disinvolto che di queste informative, o note di
servizio, fu fatto dalla prima Antimafia parlamentare - che il giornalista “Straccio”,
Paolo Liguori, documentò sul “Giornale” di Montanelli. Le tante cattiverie raccolte
dai Carabinieri di Villalba (Caltanissetta), negli anni 1940-1960 a carico di Michele
Pantaleone, socialista,
sociologo e parlamentare, che documentò gli intrecci politici della mafia
siciliana, con libri importanti, valutati e pubblicati da Einaudi: “Mafia e
politica”, 1962, “Mafia e droga” 1966. Riproponendo tutte le voci
che lo davano intrigante in paese, borsanerista in guerra, incettatore di grano
nel dopoguerra, adultero, eccetera.
Già nel 1969 Pantaleone poteva pubblicare, sempre da Einaudi, “Antimafia:
un’occasione mancata”. Ma le voci di cui si nutriva la prima Commissione erano
le Note di servizio dei Carabinieri di Villalba, notorio centro di mafia,
controllato fin dal primo dopoguerra da Calogero Vizzini – le Note di servizio
raccolgono le voci degli informatori, che a giudizio del maresciallo comandante
la stazione, o brigadiere, hanno qualche fondamento. Oppure sono utili allo
“Stato” - al ministro, al potere.
Sicilia
È la regione italiana
con il maggior numero di abbandoni scolastici, il 21,2 per cento nel 2021, un
ragazzo su cinque.
Il presidente
della Regione Schifani dice no ai pannelli solari: “Ho deciso di sospendere il
rilascio delle autorizzazioni per il fotovoltaico. Questa attività porta
lavoro? L’energia rimane in Sicilia? No. Rimane il danno ambientale”. Elementare:
consumo e desertificazione del territorio – il verde spesso si morde la coda.
Natalia Ginzburg vi è nata, a Palermo, ma ne ha poco ricordo,
nelle tante memorie. Giusto una filastrocca, probabilmente memorizzata dalla
madre: “Palermino, Palermino,\ sei più bello di Torino”. Se ne dispiace:
“Io
ero, a quel tempo, una bambina piccola; e non avevo che un vago ricordo di
Palermo, mia città natale, dalla quale ero partita a tre anni. M’immaginavo
però di soffrire anch’io della nostalgia di Palermo, come mia sorella e mia
madre; e della spiaggia di Mondello, dove andavamo a fare i bagni, e di una
certa signora Messina, amica di mia madre, e di una ragazzina chiamata Olga,
amica di mia sorella, e che io chiamavo «Olga viva» per distinguerla dalla mia
bambola Olga”. Ma non ci è mai tornata. Neppure per presentare un libro o una
sua commedia. Era nata un 14 luglio, che è la presa della Bastiglia ma anche la
festa di Palermo, di santa Rosalia.
Palermo invece la ricorda, in due modi, come scrittrice
e come figlia: una via le ha intitolato, nella parte Est della città lungo l’Oreto,
tra la stazione centrale e Brancaccio, col nome Natalia Levi Ginzburg. Col
nome cioè anche di famiglia, il padre, professor Giuseppe Levi, insigne
anatomista, essendo stato professore a Palermo per cinque anni, dal 1914 al
1919 (con lunghi intervalli al fronte, volontario ufficiale medico), prima del
trasferimento a Torino – che si considera “la” città di Natalia.
Trattamento inverso la città riserva al padre, il professore Giuseppe Levi: nessun ricordo. Pur essendo stato, il padre di Natalia, maestro di tre premi Nobel: i torinesi
Salvatore Luria e Rita Levi Montalcini, e il calabrese (di Catanzaro) Renato
Dulbecco. La letteratura sì, la scienza non è siciliana?
“È nato mio
fratello, nella nostra famiglia siciliana c’è molta frenesia per il figlio
maschio”, racconta Stefania Craxi sul “Corriere della sera” della sua infanzia.
Domanda Cazzullo, l’intervistatore: “Suo padre non era milanese?” “Era nato a
Milano, parlava dialetto milanese, sapeva tutte le canzoni popolari, oltre a tutte
le canzoni politiche, da quelle anarchiche a quelle fasciste; ma era un siciliano”.
“Era un papà
molto fisico”, continua Stefania Craxi: “Non abbiamo una sola foto insieme in
cui non siamo abbracciati o per mano. Ma era un padre impossibile. Era
gelosissimo di me”. Tutto verosimile, al limite della caricatura – ma Craxi
allora sicuramente siciliano in questo, che non teme l’eccesso, la caricatura.
Fra i tanti questori
e commissari con cui Tina Pizzardo, la fiamma di Pavese a metà degli anni 1930,
antifascista, ebbe a che fare nel decennio, di uno conserva memoria perfino
grata, nel postumo libro di ricordi “Senza pensarci due volte”: “Un giovane siciliano
alto, con un grande naso a vela”, che si presenta come “dottor Lutri dell’ufficio
politikco”, e sbriga subito le formalità perché Tina possa andarsene dopo una
convocazione in questura. “Negli anni a venire avrò spesso da fare con
l’ufficio politico”, continua Pizzardo, “”e troverò sempre nel dottor Lutri
correttezza, comprensione e, per quanto possible, protezione dai soprusi
polizieschi”.
“Vorrei far
notare”, lamenta Sciascia con l’intervistatore del “London Magazine” Ian
Thomson, giugno 1985, “che noi siciliani abbiam scritto sporadicamente libri
storici e sociologici sulla mafia. Ma per quanto riguarda il racconto, non c’è
quasi nulla sull’argomento”. Cioé: siamo ottimi e numerosi scrittori di
racconti, ma è come se non ci fossimo, siamo solo scrittori di mafia.
Ma è “colpa” di
Sciascia. Col successo del “Giorno della civetta” ha aperto un grasso filone a
Milano, all’editoria. Un filone doppio, alle storie di mafia e ai gialli, che
in Italia fino a lui pochi amavano.
Anche Riina, per
la verità, ha contribuito, il tranquillo padre di famiglia che organizzava e
ordinava stragi a ripetizione, di mafiosi, e di giudici, politici, militi, generali,
giornalisti. Col senno di poi, anche nel suo caso l’antimafia sembra sia stata
a lungo debole, debolissima. L’antimafia vera, dell’apparato repressivo.
leuzzi@antiit.eu
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