Giuseppe Leuzzi
Tre
allenatori delle quattro squadre che si contendono la Champions League sono
italiani. Tutt’e tre sono emiliani: Ancelotti di Reggio, Pioli di Parma,
Inzaghi di Piacenza. È un caso, certo. Eppure, un fondo tribale c’è: la
capacità di gestire venti-trenta atleti – l’empatia di oggi.
Gianni
Infantino, calabrese di Seminara, capo della Fifa, progetta un calcio sempre più
caro – che solo i molto ricchi possono giocare. Un Mondiale e periodicità ravvicinata,
ogni due anni, per club, in aggiunta a quello quadriennale per Nazioni, e un campionato
annuale mondiale per club, una specie di Superlega. Competizioni che solo
organici di quaranta-cinquanta atleti possono permettersi. È l’ingordigia che
viene dalla fame?
“Il
pubblico migliore è quello del Nord”, Checco Zalone confida a Cazzullo sul
“Corriere della sera”, “perché è un coacervo, c’è di tutto. È pieno di terroni civilizzati”.
I “terroni
civilizzati” di Checco Zalone sarebbero i baresi (o i salentini?): “A Bologna ci sono più salentini che a Lecce;
e i salentini per noi di Bari sono i veri terroni”. C’è sempre un Nord, non
solo nelle bussole.
La donna del Sud
“Il
Sole 24 Ore” dedica il pranzo domenicale di Paolo Bricco con un’ospite a Antonella
Sciarrone Alibrandi. Docente di diritto dell’economia alla Cattolica, direttrice
dell’Osservatorio sul debito privato, membro del consiglio Asif, l’Autorità
finanziaria del Vaticano, ora nomina dal papa sottosegretario alla Cultura. Il
nome Sciarrone suona familiare. E in effetti lo è: “Lei è una figlia di Milano”,
esordisce Bricco sul giornale milanese: “Di una Milano fatta, insieme, dalla
gente del Nord e dalla gente del Sud”. Lei spiega: “Mio padre Vincenzo era di
Messina. Mia madre Enrica, che oggi ha 93 anni, è nata a Reggio Calabria”. Il padre
ha fatto il biennio di Ingegneria a Messina, che aveva solo il biennio, e la
laurea al Politecnico di Torino. La mamma “era figlia di un ferroviere e di una
casalinga”. Normale, nel 1930. Anche che il nonno ferroviere fosse socialista (i
ferrovieri erano socialisti) – e lo sia rimasto poi a vita, della corrente di
Riccardo Lombardi.
Ma
la madre aveva una particolarità, si vede che ha spiegato alla figlia. “La sua
era una famiglia particolare. Tre figlie femmine nell’Italia e nel Sud di allora.
Mia nonna Maria Teresa”, la casalinga moglie del ferroviere, “volle che tutt’e
tre studiassero: mia mamma e sua sorella Annunziata si laurearono in Chimica, la
terza sorella Maria in Fisica”. Ottimo, si direbbe, Chimica allora a Messina era
governata da Arnaldo Liberti, che era professore severo, oltre che scienziato - arrivati a Liberti, molti abbandonavano, o cambiavano università. Sciarrone Alibrandi la vede da un altro punto: “Una cosa due volte rara: ragazze
non destinate a studi umanistici o al matrimonio, ma spinte ad approfondire le
materie scientifiche che amavano e a farsi la propria strada”. E invece no, non
era rara.
Sciarrone
Alibrandi prosegue: “Nel pieno del boom economico, mia madre e Annunziata presero
casa a Milano a Città Studi e iniziarono
a lavorare”. Presero casa senza l’aiuto dei genitori?
Il Sud fu tradito
La colpa è di Garibaldi. La
prima – e forse anche più corretta – impostazione della “questione meridionale”
è di Bakunin. Di un articolo che il rivoluzionario scrisse nel 1868,
intitolandolo “La situation” (ma anche “La valanga”), ora in “Viaggio in
Italia”, pp. 120-121: “Nel 1860 Garibaldi arriva fra le popolazioni del
Mezzogiorno, abbrutite dal più infame servaggio, immiserite dai più ingiusti privilegi
sociali, abbandonate al fanatismo religioso dai piani chimerici dei suoi
despoti. Dinnanzi all’eroe, le armate
ripiegarono e il vecchio trono dei Borboni prima vacillò e infine crollò al
suolo. Fu allora che intraprese una marcia trionfale da Marsala a Napoi fra le
masse attonite che si affollavano sul suo cammino, mentre egli con le sembianze
del Cristo le catturava con il suo sguardo affascinante e le abbeverava con
parole di redenzione e di vita. La parola libertà non mancava, così come non
mancavano quelle che promettevano il future benessere, più volte ribadite da lui e dai suoi. E i poveri
schiavi presero a gridare a squarciagola
una formula per essi incomprensibile: «Italia unita». Più tardi, corsero
fiduciosi a deporre il loro sì nelle urne dei plebisciti, atto dal quale si
aspettavano la fine della loro miseria. Ma, lungi dal cessare, questa si fece
ancora più intollerabile, e 9 milioni di cittadini non solo videro frustrate le
loro aspettative, ma capirono di essere stati ingannati con fallaci promesse….
L’azione garibaldina finì con i plebisciti di ottobre che diedero alla dinastia
sabauda il mandato di compiere quell’Italia una e indivisibile su cui avrebbe
esercitato il suo dominio e la sua oppressione. Cosa che fu subito ben compresa
dalla maggior parte dei prodi ufficiali
di Garibaldi, i quali passarono repentinamente nelle fila dell’esercito regio”.
Di Garibaldi Bakunin era
stato e restava ammiratore. Era la prima persona che aveva voluto incontrare
all’arrivo in Italia a gennaio del 1864, dopo l’evasione dal confino in Siberia
– già cinquantenne, arruffato, sdentato, ma ancora gigantesco, e con una moglie
giovane. Era stato tre giorni a Caprera, aveva avuto con Garibaldi lunghe conversazioni,
e nelle stessa raccolta “Viaggio in Italia” dà in breve uno spaccato variegato,
e per ogni aspetto attendibile, del piccolo mondo dell’isola – scorre come in
un film, tra fisionomie, abbigliamenti, abitudini, tempi rallentati, e opinioni
poche, una fauna su cui campeggia “maestoso,
imponente, con un sorriso dolce sulle labbra, il solo a essere lindo, il solo a
essere bianco in mezzo a quella folla bruna e forse un tantino sudicia, Garibaldi,
con la sua espressione profondamente malinconica”.
Il Sud è diventato violento
Il Sud, un tempo mite, ha il
record degli assassinii in Italia, nei dati statistici elaborati da Roberto Volpi su “La Lettura”
– pur in un contesto nazionale molto meno violento che nel resto d’Europa. Ai
primi quattro posti di questa classifica della violenza vengono Calabria,
Puglia, Sardegna e Sicilia. Con un tasso di omicidi per 100 mila abitanti nel
quinquennio 2016-2020 rispettivamente di 0,96 (un assassinio ogni 100 mila abitanti,
venti l’anno), 0,80, 0,78 e 0,55.
Notevole che la temibilissima mafiosissima
Sicilia sia quasi la metà della Calabria. Che la Campania, dove Napoli violenta tiene
banco nelle cronache, venga all’undicesimo posto, alla pari col Lazio e
col Trentino, un gradino sotto la tranquillissima Umbria. Che il Molise, all’ultimo posto, con uno 0,07 per centomila abitanti che
non ha rilievo statistico (un omicidio occasionale) si raffronti con uno 0.45 nel
finitimo Abruzzo.
Della Calabria “La Lettura” non rileva
il vezzo o vizio antico di detenere armi, denunciate e non.
Aspromonte
Condivide
il nome con la Provenza, da cui probabilmente lo ha mutuato – nella “Chanson d’Aspremont”
che i Normanni commissionarono per illustrarsi nella “Crociata dei Re”, la
terza, attorno al 1190. E anche qualche nobilastro tra gli avi dei Sade. Ma non
ne ha la grazia. Cioè ce l’ha, ma non ne beneficia.
Uno
sviluppo analogo fu prospettato al principe di Monaco Alberto qualche anno fa –
un affare come quello dell’Aga Khan in Sardegna negli anni 1960. Alberto è venuto
a vedere, e se n’è andato.
La
gente è senz’altro diversa - somiglia alla Provenza quale è diventata oggi (la
Provenza ha cambiato radicalmente genos quarant’anni fa, con l’abbandono
delle campagne ai nordafricani): un melting pot. Nome inglese, quasi grazioso, per nascondere congregazioni
eterogenee. Nell’Aspromonte saraceni inselvatichiti, ebrei convertiti, papas
insabbiati di quando la messa era ortodossa – Papalia è il cognomen probabilmente
più diffuse sui costoni della Montagna - e albanesi, epiroti, slavi del Sud. Divisi
perchè sospettosi – o viceversa.
Il
comico fiorentino Panariello da Fazio racconta l’aneddoto della vacca che in
Calabria per una buona mezz’ora gli impediva il passaggio con la macchina. Si
confonde un po’ sulla geografia: dice di aver preso la superstrada
(“l’autostrada”) Lamezia-Catanzaro (“là dove si restringe, dovevo andare a San
Luca” – Panariello a San Luca?), che a un certo punto si interrompe, come tutti
i cantieri italiani, e allora si avvia per “una stradina”, che è invece l’ottima
statale 280 dei Due Mari. E infine, insomma, l’aneddoto non gli viene bene, per
dire che si era sperduto dice, “beh, ragazzi, ero sull’Aspromonte” – che dista
un bel po’ da Lamezia, e anche da Catanzaro. Come dire in un labirinto, in un
inferno.
Vive
ancora come Pasolini lo classificava indirettamente sessant’anni fa, là dove
parla - fa parlare Orson Welles ne “La ricotta”, 1963 - dei “borghi abbandonati
degli Appennini e le Prealpi”. I borghi non sono più abbandonati, anzi tornano a
essere abitati, ma è come se l’Aspromonte lo fosse. È abitato, ma nella
disattenzione, nell’indifferenza. Il sogno non c’è, quello prospettato al
principe di Monaco e quello del Parco Naturale - non c’è più. E quindi non ci
si pensa.
Molti
borghi però sono cambiati dal tempo di Pasolini, nelle Prealpi specialmente. E
anche nell’Appennino, fra Toscana ed Emilia, e nel Monferrato pre-appenninico. In
meglio: si curano, si vitalizzano. S’imbelliscono. Fanno fruttare la socialità,
per un sorriso se non per un beneficio economico.
Le
Langhe già abbandonate, tenute in vita da spose dell’Aspromonte, si sono fatte
un giardino, ricco oltre che bello.
leuzzi@antiit.eu
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