“Dal Sudamerica al
Golfo lo yuan conquista i Paesi non allineati, titola “Il Sole 24 Ore”. Cioè,
fino ad ora, solo Lula, il presidente brasiliano, che da Pechino ha lanciato un
appello a “emanciparsi dal dollaro”, a disintermediare il dollaro quale valuta
internazionale, di pagamento e di riserva. Non è vero: i principati arabi del
Golfo e lo stesso Iran sono saldamente legati al dollaro, e ai bond
americani – come lo stesso Brasile, del resto, fino a ieri governato da un
presidente non anti-yanqui, e anzi “amerikano”, Bolsonaro. Ma non è
nuovo: periodicamente insorge la “scomparsa”, il “crollo”, la “sconfitta” dell’impero
americano, che subito poi si rivela invece il germe del rilancio della potenza
americana stessa – come se l’America crescesse facendosi piccola.
La prima “notizia”
è di metà anni 1950, a Bandung, Indonesia, una conferenza promossa sempre dalla
Cina, che adottò i Punch Shila, i cinque principi della coesistenza pacifica,
tra non-allineati, al culmine della confrontation russo-americana,
bolscevico-capitalista. Poi, dopo il Vietnam, il dollaro allo sbando a Ferragosto
del 1971, non più convertibile in oro, e la crisi petrolifera dell’autunno 1973
- crisi che fu gestita dagli Stati Uniti, e rilanciò potentemente il dollaro. Poi
con le presidenze deboli dell’ultimo Nixon (dopo l’apertura alla Cina…), Ford e
Carter, col varo nel 1981 dei diritti speciali di prelievo, l’unità di conto
del Fmi, una media ponderata del dollaro Usa, lo yen, la sterlina e l’euro
(agli inizi il marco tedesco e il franco francese). Da ultimo con le criptovalute. Ora col yuan?
Il crollo del dollaro
è generalmente annunciato in una con la crisi del sistema produttivo americano. Un sistema produttivo
che da un secolo e mezzo marcia più spedito e più robusto di qualunque altro. Crea
crisi finanziarie a cascata, da capitalismo selvaggio, ma è quello che meglio e
più velocemente le supera. Anche ora: l’economia americana è quella che meglio
(più rapidamente e con maggiore consistenza) è uscita dal blocco del covid. Senza
paragoni. E più si è avvantaggiata della guerra in Ucraina, senza subire i rincari
dell’energia. Tornando la più attrattiva per ogni operatore, anche tedesco, o
francese, anche cinese. Perfino a premio sulla stessa Cina, che pure paga profitti
alti. L’“Economist” questa settimana lo nota con sorpresa, ma la cosa è nei
fatti, lo è sempre stata.
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