Sherlock Holmes rivela Gesù
L’altra
settimana il “New Yorker” ha scelto di commemorare la Pasqua dei cristiani con
un vecchio saggio di Gopnik, la sua firma di punta. Che pone la questione di
cosa è reale e cosa no nei vangeli. Partendo dalla constatazione che il
racconto di Gesù è “una costante editoriale e una passione popolare”.
Se
non che Gopnik pone i problemi, e ne presenta le interpretazioni più aggionate,
ma sulla linea delle “toledoth Yesu”, i commenti puttosto aspri, quando non satirici
o blasfemi, sulla vita di Gesù. Che Riccardo Calimani, “Gesù ebreo”, dice “racconti di matrice ebraica carichi di
diffamazioni contro Gesù Cristo e contro il primo
cristianesimo, una sorta di antivangelo a uso interno, ironico, dissacrante,
sarcastico” – interno, cioè familiare (racconti e interiezioni correnti
anche nell’ebraismo romano, fra gli “ebrei del papa”, il rabbino Di Segni ne
aveva fatto a suo tempo una raccolta e uno studio, “Il vangelo del Ghetto”). Il
che non è strano, molte vite di Gesù sono di questo tipo. Strano è che Gopnik,
che la sua biografia dice di famiglia ebraica, mostra di farlo
inavvertitamente, involontariamente.
Non
ci sono ingiurie in questo scritto, tanto meno bestemmie. C’è un divertito
excursus delle fonti storiche su Gesù, fino alle più recenti – come sono
cambiate. E un paio di divertiti lapsus di traduzione, errori che si sono tramandati
par secoli, come verità di fede. Senza infierire, anzi con apparente maganimità:
“Le intrattabili complessità di fatto producono le inevitabili ambiguità di
fede. Più si sa, meno si sa”. Senza ironia? L’invitabile apparentamento con
Buddha qui viene esteso a Gandhi e a Sherlock Holmes. Non c’è una maniera laica
di approcciare vita e opere di Gesù – che qui non è mai Cristo, come fu a
Pasqua?
Adam
Gopnik, What did Jesus do?, “The New
Yorker”, 9 aprile 2023
Nessun commento:
Posta un commento