venerdì 12 maggio 2023

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (525)

Giuseppe Leuzzi

Grandi Eventi in contemporanea l’incoronazione del re britannico e lo scudetto del Napoli. Non cattivi né offensivi. L’uno si può dire aristocratico, l’altro popolare. Entrambi in qualche modo genuini, non artefatti, pubblicitari: richiamano sentimenti autentici, non offrono niente da guadagnare. Ma entrambi malinconici. Perché passatisti? No, niente che li colleghi. Nella vittoria del Napoli c’entra anche la bella squadra, il bel calcio. Perché non c’è altro entusiasmo. Ma nel caso dell’Inghilterra è per un declino, nel caso di Napoli per un’incapacità o impossibilità.
 
Il giuridicismo (burocratismo) del “codice appalti” che il governo Meloni prova ad allentare, è particolarmente letale nel Meridione – è soprattutto al Sud che i cantieri non finiscono mai. Non in tutto il Sud, in alcune sue regioni – le stesse che forniscono la burocrazia di Stato, leguleia: Sicilia, Campania e Calabria. Non in Abruzzo, o in Sardegna, in Puglia, in Basilicata, che in effetti è un Sud  che prospera.
 
Il Sud vittoriniano
Roberto Roversi ha, nella prefazione a Ignazio Buttitta, “La paglia bruciata”, “una Sicilia vittoriniana”:  “La terra dell’emigrato che ritorna per un momento, luogo di transito, di educazioni composite e capovolte; centro di memorie, di qualche struggimento di cuore; e, nonostante tutto, di rapidissime fughe (in avanti)”.
Molti in effetti vivono altrove, a Milano o a Roma – e pensano “altrove”, anche se parlano più spesso del Sud. Lo stesso Sciascia ci ha provato, a Roma in vari momenti. Il più siciliano di tutti, Camilleri, è stato romano per quattro quinti della sua vita, se non cinque sesti. La Capria pure, che molti identificano con Napoli.
Il Sud nelle lettere e nelle arti si preferisce emigrate. Con ritorno certo, ma momentaneo. Anche questo contribuisce all’immobilità apparente del Sud, alla fissità, immemoriale.  
 
L’unità ha fatto male al Sud
È una verità nota, che si dice non dirimente. E invece significa, molto: le cifre hanno una loro verità, inoppugnabile. Nel 1861 il reddito pro capite era nel Sud all’incirca uguale a quello delle regioni settentrionali – la media nazionale non registrava grossi scostamenti, se non in un paio di province del Nord, alpine, ma allora al ribasso.
Ancora trent’anni dopo, nel 1891, il livello di reddito pro capite era in Lombardia uguale a quello della Campania, a un indice 111 contro il 110 di Napoli, rispetto alla media nazionale fatta 100. Il Veneto era a quota 79, la Sicilia a quota 81.
Oggi la Lombardia è a un livello 124 rispetto alla media nazionale, la Campania al 64. Il Veneto è a quota 112, la Sicilia a quota 60 - meno della metà della Lombardia.
 
Tedeschi e albanesi pari non sono
Racconta Al Bano a Cazzullo sul “Corriere della sera” che deve il nome alla prigionia del padre in Albania – “me lo hanno staccato quando entrai nel clan di Celentano, all’americana”. Il padre era militare in guerra in Albania. “Gli albanesi gli aprivano le loro case, lo facevano dormire nella paglia, lo sfamavano con il granturco”. In licenza, “fece la fuitina, e fui concepito io” – “un amore immenso”. Tornato in Albania, “era analfabeta, imparò a scrivere per scrivere a lei”. E quando seppe dell’attesa scrisse: “Gli albanesi mi hanno salvato e se avremo una femminuccia la chiamerai Alba, se un maschietto Albano”.
Poi, dopo l’8 settembre, il padre finì prigioniero di guerra tedesco nel capo di Wletzar - la città dei “Dolori del giovane Werther”. “Partì che era un omone”, dice Al Bano, “ritornò che pesava 42 chili”. E una volta, quando Al Bano era già adulto, gli spiegò: 
“A me i tedeschi mi hanno pestato a sangue, con il calcio dei fucili, per due scorze di patate che avevo raccolto”.

I “caratteri nazionali”, primo libro a fondamento della “Storia d’Italia Einaudi” in dieci tomi, sono una categoria storiografica discutibile. Discutibili anche come categoria sociologica. Perlomeno nella forma sempliciotta del “modi di pensare”. Personalmente l’esperienza se ne è maturata grata, ma inconsistente, e al fondo non simpatica. “Lei non sembra italiano” per la prima volta a quindici anni in Costa Azzurra, in campeggio, dai genitori di qualche bella ragazza. O ai vent’anni a Parigi dalla famiglia di un conte di una cui figlia era fidanzato quasi in casa, oltre che dai tassisti. E a Londra, sempre e ovunque, e in Germania. Intervallato da “lei non sembra meridionale”, a Firenze, e poi a Milano, anche in epoca pre-Lega. Ma evidentemente ci sono delle connotazioni tribali persistenti. Di attitudini, linguaggi, sentimenti. 
 
Napoli
Ha tenuto l’Italia in sospeso per un mese e oltre, Pasqua compresa e tutti i “ponti”, Roma senza prefetto, i media trepidanti, sfidando ogni scongiuro, per festeggiare lo scudetto. O meglio, la smorfia l’ha pure messa in campo, giocando sulla Lazio, se perde, e sul Napoli, se vince. Ma un mondo ha confermato che solo si occupa di festeggiare: malgrado quello che si dice, da Troisi a Salemme, non sono gli altri che “fanno” i napoletani, Napoli non ha complessi – non gliene frega nulla di nessuno.
 
Negli stessi giorni Genova mandava in serie A una sua squadra e in B l’altra. Senza drammi - il calcio è pur sempre uno sport, si vince e si perde. E si dotava di un “avamporto” da 1miliardo e 300 milioni, che ne fa il più grande scalo del Mediterraneo – cioè si raddoppia il porto.
 
Ma si è smentita sullo scudetto: nessun rispetto per gli scongiuri, è festa subito, una, due, tre volte. La Lazio si perde a Milano, e niente, il Napoli non vince una facile partita. La Lazio perde a Roma, il Napoli fatica a Udine, ma non importa, è fatta. Anche a fronte dello scongiuro vince la voglia di festa. Anche il vecchio cliché, ma non è un cliché, del napoletano lesto di mano, è fare la festa, agli altri.
 
Per quanto, trecento al Pronto Soccorso la notte della festa sono un po’ troppi. Napoli vuole imitare Rio, ma le conviene – Rio è un inferno?
 
Un napoletano trapiantato a Palermo, Ciro Di Vuolo, scrive mezza pagina su “la Repubblica-Palermo” per celebrare un incontro casuale con Maradona, la moglie Claudia e il cagnolino. All’allora bambino Ciro, Maradona dà una pacca: “Con un po’ di insofferenza mi diede la pacca sulla spalla salutandomi”. Delusione. Poi l’illuminazione: “Quando  Enrico (l’amico. n.d.r.) mi disse «ti ha toccato» capii che mi aveva fatto un regalo. La maglietta che indossavo toccata da Diego ovviamente non è stata più indossata né lavata”. A volte Napoli è simpatica malgrado i napoletani.
 
Manifesti a Udine, Bergamo, Varese, Torino hanno messo in guardia da festeggiamenti per il campionato vinto dal Napoli. Sono cose da “ultra” – lo stesso avviso è comparso a Salerno – e probabilmente di pochi. Ma quello di Bergamo è dettagliato: “Ricordiamo ai ristoratori, baristi, pizzaioli che per festeggiamenti e pagliacciate varie arriveranno adeguate risposte” – “anche a distanza di tempo”.
 
Un capolavoro invece il trionfo del Napoli calcio è di management. Di una proprietà oculata, intelligente, con investimenti giudiziosi – non i miliardi sprecati da una Juventus, e i debiti. Cedendo anche giocatori importanti, e sempre rimpiazzandoli al meglio. Dura con le bande ultras, i Gennaro ‘a carogna, gli assassini di Roma et al., la varia coltura che non ha nulla di pittoresco, giusto violenza.
 
Il torinese Soldati celebrava il primo scudetto del Napoli nel 1987 ricordando la sua personale scoperta della città: “Cominciai a identificare spontaneamente l’Italia tutta con Napoli nel lontano inverno del 1931. Ero a New York. A lungo, e invano, avevo cercato di restare in America”. Respinta la pratica per la cittadinanza, era stato espulso: “Fui imbarcato su una nave mercantile come working passenger, passeggero lavorante”. Tristezza, avvilimento, disperazione, da deportato. Ma già alla scaletta cambio d’umore, ascoltando una canzone. Che “un marinaio cantava, nell’aria gelida della prima mattina”. Era “Solo per te , Lucia” – scritta da Bixio per il primo film sonoro italiano, “La canzone dell’amore”. Quella canzone, “napoletana e italiana, quella mattina mi rivelò, una volta per sempre, che Napoli è il cuore dell’Italia”.
 
Anche La Capria celebrava sul “Corriere della sera”, come Soldati, lo scudetto 1987. Commosso anche lui. Ma poi perplesso, “dopo che il dì di festa è passato”. Per “l’immagine di Napoli” che vi veniva collegata, “vecchia, convenzionale, folcloristica, che ricorda i tempi di Lauro”. Un’immagine che “sta bene a tutti: ai giornali, alla televisione, e all’Italia, perché ribadisce un pregiudizio radicato e una serie di luoghi comuni collaudati”.
 
Volendo complimentarsi nel 1771 con l’abate Galiani per un trattatello che le aveva inviato sulla condizione femminile, Abbozzo di un dialogo sulle donne”, Madame d’Èpinay scrive all’abate, a Napoli: “È ben evidente che non ha l’aria di essere stato scritto a Napoli, ma a Parigi”. Le parti erano già date nel Settecento. 


“Intelligenza, spiritosità, superficialità e serietà insieme, generosità, curiosità culturale, naturale disposizione alla causerie”, è ciò che fa il buon napoletano secondo Antonio Altamura - laureato honoris causa della Sorbona, autore del Dizionario Dialettale Napoletano (nome improprio perché per lui il napoletano è una “lingua”), nonché di una Grammatica Napoletana e di un Vocabolario Italiano-Napoletano – nella premessa alla sua raccolta di “Frizzi e sorrisi dell’abate Galiani”. E questi i difetti: “Pigrizia, superstizione, maldicenza, instabilità di carattere, scetticismo”. Cioè?  Il troppo piccolo è troppo grande – è il problema (oggi la chiave del successo) del provincialismo.

leuzzi@antiit.eu

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