Il mondo com'è (461)
astolfo
Adam Gannibal – Originario del lago
Ciad, la sponda oggi Camerun, fu il bisnonno materno di Alexander Puškin, che
ne ereditò alcuni tratti somatici, quasi da mulatto, il colorito scuro e i
capelli neri crespi. La famiglia Puškin era di antica nobiltà. Ma il bisnonno
materno era africano: un bambino rapito a otto anni e venduto come
schiavo a Costantinopoli, dove l’ambasciatore russo Raguzinsky, un mercante
serbo, lo acquistò, per poi farne dono allo zar Pietro il Grande. Il
quale ne apprezzò la vivacità di spirito, se ne fece padrino, ne curò
l’istruzione ( a 22 anni lo mandò a Parigi), lo sposò in una famiglia di
bojardi, e lo portò con sé nelle spedizioni militari, promuovendolo presto al
grado di generale.
Gannibal era conscio della sua importanza a corte, e fiero del suo passato,
ancorché oscuro. Per questo si scelse il nome di Adam Gannibal, cioè Annibale. Nato
probabilmente attorno al 1696\98, forse figlio di un capo. Rapito, in una delle
tante scorrerie arabe e africane per alimentare il mercato degli schiavi, non
si perse d’animo, e anzi ne fece un’occasione. Oltre che come aiuto di campo
dello zar, era versato nelle lingue, le matematiche e le scienze. A Parigi ebbe
il compito di studiare fortificazioni e armamenti. Al ritorno lo zar lo nominò
Traduttore principale di Libri Stranieri alla Corte Imperiale. Ma non si limitò
a tradurre libri scientifici e di arte militare: costruì fortificazioni per
tutta la Russia. Uno di questi forti, Kronstadt nel golfo di Finlandia, sarà
importante ancora due secoli dopo, nell’assedio di Leningrado nel 1941-42.
Alla morte di Pietro il Grande, nel 1725, Gannibal perse influenza a corte.
La zarina Elisabetta, figlia di Pietro, gli diede in dono una proprietà a
Mikhailovskoje, e Gannibal vi si ritirò con la seconda moglie. In questo
piccolo feudo, Puškin scriverà in una nota al’“Eugene Onegin”, “l’africano nero
che era diventato un nobile russo visse fino alla fine della sua vita come
un philosophe francese”. È in questa stessa proprietà, ancora
di famiglia, che Puškin cominciò nel 1827 il suo primo romanzo, “L’Africano di
Pietro il grande” – che lascerà incompiuto. Mettendo a frutto i ricordi
familiari, e la testimonianza di un ultimo figlio del bisnonno, ancora in vita.
Andrej Syniavsky, nel suo libro su Puškin, dirà che “si appoggiava molto
sul suo aspetto negroide e il suo passato africano, che vantava forse più
intensamente della sua ascendenza aristocratica” – come una sorta di outsider pur
facendo parte dell’establishment, il suo rapporto con lo zar Nicola II,
suo protettore, assimilando a quello di Gannibal con Pietro il Grande – un
paragone lusinghiero per lo zar, che lo puniva e lo sosteneva.
Puškin era fiero della famiglia, che fa rientrare anche nei suoi
capolavori, il dramma storico “Boris Godunov” e il romanzo “La figlia del
capitano”. Di più avrebbe voluto fare per il bisnonno africano, il
personaggio su cui ha centrato il suo primo tentativo di romanzo, rimasto poi
incompiuto – tutti i romanzi di Puškin sono incompiuti, eccetto “La figlia del
capitano”.
Gannibal era conscio della sua importanza a corte, e fiero del suo passato,
ancorché oscuro. Per questo si scelse il nome di Adam Gannibal, cioè Annibale. Nato
probabilmente attorno al 1696\98, forse figlio di un capo. Rapito, in una delle
tante scorrerie arabe e africane per alimentare il mercato degli schiavi, non
si perse d’animo, e anzi ne fece un’occasione. Oltre che come aiuto di campo
dello zar, era versato nelle lingue, le matematiche e le scienze. A Parigi ebbe
il compito di studiare fortificazioni e armamenti. Al ritorno lo zar lo nominò
Traduttore principale di Libri Stranieri alla Corte Imperiale. Ma non si limitò
a tradurre libri scientifici e di arte militare: costruì fortificazioni per
tutta la Russia. Uno di questi forti, Kronstadt nel golfo di Finlandia, sarà
importante ancora due secoli dopo, nell’assedio di Leningrado nel 1941-42.
Alla morte di Pietro il Grande, nel 1725, Gannibal perse influenza a corte.
La zarina Elisabetta, figlia di Pietro, gli diede in dono una proprietà a
Mikhailovskoje, e Gannibal vi si ritirò con la seconda moglie. In questo
piccolo feudo, Puškin scriverà in una nota al’“Eugene Onegin”, “l’africano nero
che era diventato un nobile russo visse fino alla fine della sua vita come
un philosophe francese”. È in questa stessa proprietà, ancora
di famiglia, che Puškin cominciò nel 1827 il suo primo romanzo, “L’Africano di
Pietro il grande” – che lascerà incompiuto. Mettendo a frutto i ricordi
familiari, e la testimonianza di un ultimo figlio del bisnonno, ancora in vita.
Andrej Syniavsky, nel suo libro su Puškin, dirà che “si appoggiava molto
sul suo aspetto negroide e il suo passato africano, che vantava forse più
intensamente della sua ascendenza aristocratica” – come una sorta di outsider pur
facendo parte dell’establishment, il suo rapporto con lo zar Nicola II,
suo protettore, assimilando a quello di Gannibal con Pietro il Grande – un
paragone lusinghiero per lo zar, che lo puniva e lo sosteneva.
Puškin era fiero della famiglia, che fa rientrare anche nei suoi
capolavori, il dramma storico “Boris Godunov” e il romanzo “La figlia del
capitano”. Di più avrebbe voluto fare per il bisnonno africano, il
personaggio su cui ha centrato il suo primo tentativo di romanzo, rimasto poi
incompiuto – tutti i romanzi di Puškin sono incompiuti, eccetto “La figlia del
capitano”.
Leopoli – Oggi parte dell’Ucraina, fu sempre
polacca, dalla fondazione. Il voivodato di Leopoli figura parte del Regno di
Polonia alla fondazione, nel 1265. Poi della Confederazione Polonia-Lituania,
col nome teutonizzato di Lemberg. E come voivodato polacco nell’impero
austriaco e poi austro-ungarico, alla spartizione della Polonia. Parte della
Seconda Repubblica di Polonia al crollo dell’impero, 1919-1939. È diventata
ucraina con l’avanzata dell’Armata Rossa nel 1944-45.
All’ultimo censimento austro-ungarico, nel
1910, che tracciava religione e lingua, il 51 per
cento della popolazione della città si dichiarava cattolico romano, la
confessione dei polacchi, il 28 per cento ebreo, e il 19 per cento della Chiesa
greco-cattolica ucraina. Come lingua, l’86 della popolazione si esprimeva in polacco,
l’11 per cento in ucraino.
Faustina Maratta –
Figlia bastarda, poi riconosciuta, di Carlo Maratta, il pittore romano
marchigiano di cui Sgarbi propone da tempo il recupero, fu protagonista di una
“fuitina” nella Roma del Seicento, e di un aneddoto faceto dell’abate Galiani;
“Fatto invaghire di sé il cavaliere romano Cesarini, fu da costui rapita e
portata fuori Rima. La famiglia Cesarini, temendo che la tresca finisse in
matrimonio chiede l’aiuto del papa. Che fece ritrovare i due e li riconsegnò
alle rispettive famiglie. Beninteso di matrimonio non si parlò più; ma per Roma
si diffuse un motto scherzoso: «Carlo Maratta ha fatto il quadro, Cesarini la
cornice, e il Papa l’ha indorata»”. Il
padre ne aveva da poco sposato la madre, Francesca Gommi, nel 1698, alla morte
della moglie legittima, quando Faustina aveva diciannove anni.
Il “cavaliere” Cesarini, Giangiorgio
Sforza Cesarini, era in realtà il figlio cadetto di Federico Sforza Cesarini,
duca di Genzano, la località dove Carlo Maratta si era ritirato con la figlia.
Non ci fu una “fuitina” ma un tentativo di rapimento. Nel 1703, quando Faustina
aveva quindi 24 anni. Mentre andava a messa con la madre e le domestiche. Nei
pressi del Quirinale, dove il papa allora risiedeva. Faustina si sottrasse
all’agguato, ma rimediò una ferita alla tempia destra, che le lasciò una cicatrice.
Il papa intervenne, ma per punire il duca, che per sfuggire alla prigione fuggì
a Napoli, come era l’uso, e poi in Spagna – dove morì non molti anni dopo.
Faustina era di suo poetessa, apprezzata e
corteggiata – si è meritata una distesa “Vita” nella raccolta “Italian W omen
Writers. A Bio-Bibliographical Sourcebook”, a cura di Rinaldina Russell,
pubblicata dal Q ueens Colege a New York nel 1994 ” (una distesa “vita”, a
opera di Serena Veneziani, figura ora nel “Dizionario Biografico degli
Italiani” della Treccani). Provò anche la pittura: a lei si attribuisce un ritratto
di papa Clemente XII ora all’Ambrosiana. Il padre la raffigura, in un quadro
ora alla Galleria Corsini a Roma in atto di dipingere, con in mano pennelli e tavolozza
dei colori.
L’Accademia dell’Arcadia la elesse suo
membro l’anno dopo l’agguato di Cesarini, accogliendola col nome di Aglauro
Cidonia. In Arcadia fece la conoscenza di Giambattista Felice Zappi, avvocato
imolese e poeta già rinomato, col nome d’arte di Tirsi Leucasio. Che sposò l’anno successivo, nel 1705, e col
quale convisse poi felicemente (ebbero cinque figli) – il matrimonio, è vero,
fu combinato dal papa, Clemente XI Albani, per il quale il giurista e
amministratore Zappi lavorava. Faustina tenne a Roma e a Albano col marito un
salotto rinomato – tra i frequentatori si ricordano i maggiori arcadi, Gravina
e Crescimbeni, con personaggi di passaggio, Händel, Domenico Scarlatti e altri.
Zappi morì presto, nel 1719. Faustina,
malgrado le tante proposte, rifiutò di riposarsi. Nel 1723 pubblicò una
raccolta di “Rime”, sue e del marito. I suoi componimenti, 38 sonetti in tutto,
celebrano le grandi figure femminili della latinità, ispirate ai dipinti del
padre, Lucrezia, Porzia, Veturia, Tuzia, Virginia, Claudia, Cornelia, Arria,
Ortensia. O gli affetti familiari, specie per la scomparsa del figlioletto
Rinaldo.
Dopo la morte del marito, viaggiò molto, a
Imola, da dove il marito proveniva, Bologna e Venezia. Si occupò dei figli - degli studi e dei
matrimoni. Intrattenne corrispondenze con vari letterati. Intrattenne anche una
relazione con una abate, membro dell’Arcadia, Vincenzo Parravicini, di lei più
giovane.
Dal 1728 la sua vita cambiò. Da un lato la
famiglia Albani (papa Clemente XI) le procurò dal re di Polonia un diploma
nobiliare, il titolo ereditario di marchese. Dall’altro il Paravicini se ne
allontanò. E un giovane di Albano, di cui resta il nome, Francesco, reputato
figlio naturale del suo fallito rapitore, le fece causa di riconoscimento. Il
processo durò quasi vent’anni: Faustina morirà nel 1745, appena dopo essere
riuscita a provare che la pretesa del querelante era falsa. La ricorda la
lapide tombale al San Carlino alle Quattro Fontane.
Massacro
della Volinia – Oggi
dimenticato, fu negli anni 1943-45 uno degli eventi che più fecero notizia: la
caccia e l’eliminazione sistematica dei polacchi del voivodato della Volinia –
e, con molte meno vittime, della Galizia orientale, della Polesia e attorno a
Lublino. Una serie di stragi di massa compiute dai tedeschi, e dagli ucraini di
Stepan Bandera, il creatore e capo dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini,
un gruppo politico filo-tedesco, nonché del braccio militare dell’Organizzazione,
l’Upa, o Esercito Insurrezionale Ucraino. Le stragi, perpetrate col sostegno anche
della popolazione ucraina, si presume abbiano fatto circa 100 mila morti.
Il più gran numero di morti si ebbe
all’inizio dei massacri, nel luglio-agosto 1943. Vittime soprattutto donne e
bambini – i maschi polacchi erano ai lavori forzati o nella Resistenza esercito
interno polacco).
Nelle prime ricostruzioni dopo la
guerra, la Polonia denunciò torture e stupri, e anche metodi più radicali,
quali lo smembramento o il fuoco. Ancora nel 2008 l’Istituto della Memoria
polacco denunciava i massacri come “genocidio”,
e con questa qualifica il Parlamento polacco li rubricava con atto legislativo
nel 1956.
La Volinia, sotto amministrazione polacca
all’interno dell’impero austro-ungarico, fu attribuita alla Polonia, all’indipendenza
dopo la guerra, tra il 1921 e il 1939. Pur essendo di nazionalità ucraina. Al
censimento 1921 del rinato Stato polacco furono registrati nel voivodato 1.437.907 abitanti. Così suddivisi per etnia dichiarata:
ucraini 983.596 (68,4 per cento), polacchi 240.922 (16,8), ebrei 151.744 (10,6),
cechi (cosiddetti Cechi di Volinia) 25.405 (1,77), tedeschi:24.960 (1,74), russi
9.450 (0,66%)
Il voivodato, termine e istituto originariamente
medievale, feudale, era a metà tra la provincia e la regione, un distretto amministrativo.
Operazione Albania – Rubricata anche come Operation Fiend dalla Cia,
o Operation Valuable dai servizi inglesi (l’MI 6, il controspionaggio), fu il
primo tentativo di sovversione organizzato dalla Cia, con i servizi inglesi - prima
di quello riuscito poi in Iran, 1953, contro Mossadeq. Un avvenimento dimenticato,
che fallì, con alcune centinaia di morti tra le spie angloamericane, e innumerevoli
tra gli albanesi. Lo ricorda in una noticina John Le Carrè, nelle memorie “Tiro
al piccione”, a proposito della defezione di Kim Philby, uno di capi dell’MI 6
che faceva il doppio gioco per i russi. “Un tentativo fallito dell’MI 6 e della
Cia nel 1949 di rovesciare il governo albanese, finito con la morte di almeno
300 agenti, e di innumerevoli arresti ed esecuzioni tra il popolino locale”, è
la nota di Le Carré – con l’aggiunta: “Kim Philby era uno degli organizzatori”.
La “contro-rivoluzione” in Albania fu il
tema di una proposta del ministro degli Esteri inglese, il laburista Ernest
Bevin il 6 settembre 1949, alla prima riunione Nato a Washington. Ma l’operazione
era già in atto, organizzata e finanziata dalla Cia. Col supporto degli agenti
britannici nel Mediterraneo, in Italia, Grecia, Libia, Albania. E col contributo
dei servizi italiani e greci. Una dozzina di albanesi erano stati addestrati in
Libia a pilotare un aereo. E insieme alluso di armi, codici, radio ricetrasmittenti,
e alle tecniche di sabotaggio e sovversione. Un altro piccolo gruppo, chiamato
affettuosamente i Pixies (folletti), era stato trasportato a luglio dello
stesso anno al Fort Bingemma a Malta, per l’addestramento allo spionaggio e alla
mobilitazione. Il 26 settembre i Pixies, nove in tutto, furono imbarcati su un
vascello della Royal Navy che li portò nell’Adriatico, dove, dopo una sosta a
Brindisi, furono trasbordati su un caicco greco, da pesca o da cabotaggio, per essere
sbarcati a sud di Vlora, dove la cosiddetta Resistenza albanese aveva terreno
amico. Furono intercettati all’arrivo e uccisi o dispersi – in Grecia. Altri
addestramenti e altri sbarchi analoghi furono organizzati ancora per tre anni,
fino alla Pasqua del 1952, data dell’ultima incursione, anch’essa fallita – le milizie
albanesi sempre aspettavano gli sbarchi. Uno dei sopravvissuti dichiarerà: “Eravamo
usati per un esperimento. Eravamo una piccola parte di un grande gioco, pegni
da sacrificare”.
L’Operazione Albania è stato uno dei segreti
Nato meglio custoditi. È solo nel 2006 che se ne è avuta notizia, dai documenti
declassificati sulla base del Nazi War Crimes Disclosure Act, una legge
americana.
astolfo@antiit.eu
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