venerdì 19 maggio 2023

Il mondo com'è (461)

astolfo


Adam Gannibal – Originario del lago Ciad, la sponda oggi Camerun, fu il bisnonno materno di Alexander Puškin, che ne ereditò alcuni tratti somatici, quasi da mulatto, il colorito scuro e i capelli neri crespi. La famiglia Puškin era di antica nobiltà. Ma il bisnonno materno era africano: un bambino rapito  a otto anni e venduto come schiavo a Costantinopoli, dove l’ambasciatore russo Raguzinsky, un mercante serbo, lo acquistò,  per poi farne dono allo zar Pietro il Grande. Il quale ne apprezzò la vivacità di spirito, se ne fece padrino, ne curò l’istruzione ( a 22 anni lo mandò a Parigi), lo sposò in una famiglia di bojardi, e lo portò con sé nelle spedizioni militari, promuovendolo presto al grado di generale.
Gannibal era conscio della sua importanza a corte, e fiero del suo passato, ancorché oscuro. Per questo si scelse il nome di Adam Gannibal, cioè Annibale. Nato probabilmente attorno al 1696\98, forse figlio di un capo. Rapito, in una delle tante scorrerie arabe e africane per alimentare il mercato degli schiavi, non si perse d’animo, e anzi ne fece un’occasione. Oltre che come aiuto di campo dello zar, era versato nelle lingue, le matematiche e le scienze. A Parigi ebbe il compito di studiare fortificazioni e armamenti. Al ritorno lo zar lo nominò Traduttore principale di Libri Stranieri alla Corte Imperiale. Ma non si limitò a tradurre libri scientifici e di arte militare: costruì fortificazioni per tutta la Russia. Uno di questi forti, Kronstadt nel golfo di Finlandia, sarà importante ancora due secoli dopo, nell’assedio di Leningrado nel 1941-42.
Alla morte di Pietro il Grande, nel 1725, Gannibal perse influenza a corte. La zarina Elisabetta, figlia di Pietro, gli diede in dono una proprietà a Mikhailovskoje, e Gannibal vi si ritirò con la seconda moglie. In questo piccolo feudo, Puškin scriverà in una nota al’“Eugene Onegin”, “l’africano nero che era diventato un nobile russo visse fino alla fine della sua vita come un philosophe francese”. È in questa stessa proprietà, ancora di famiglia, che Puškin cominciò nel 1827 il suo primo romanzo, “L’Africano di Pietro il grande” – che lascerà incompiuto. Mettendo a frutto i ricordi familiari, e la testimonianza di un ultimo figlio del bisnonno, ancora in vita.
Andrej Syniavsky, nel suo libro su Puškin, dirà che “si appoggiava molto sul suo aspetto negroide e il suo passato africano, che vantava forse più intensamente della sua ascendenza aristocratica” – come una sorta di outsider pur facendo parte dell’establishment, il suo rapporto con lo zar Nicola II, suo protettore, assimilando a quello di Gannibal con Pietro il Grande – un paragone lusinghiero per lo zar, che lo puniva e lo sosteneva.
Puškin era fiero della famiglia, che fa rientrare anche nei suoi capolavori, il dramma storico “Boris Godunov” e il romanzo “La figlia del capitano”.  Di più avrebbe voluto fare per il bisnonno africano, il personaggio su cui ha centrato il suo primo tentativo di romanzo, rimasto poi incompiuto – tutti i romanzi di Puškin sono incompiuti, eccetto “La figlia del capitano”.
Gannibal era conscio della sua importanza a corte, e fiero del suo passato, ancorché oscuro. Per questo si scelse il nome di Adam Gannibal, cioè Annibale. Nato probabilmente attorno al 1696\98, forse figlio di un capo. Rapito, in una delle tante scorrerie arabe e africane per alimentare il mercato degli schiavi, non si perse d’animo, e anzi ne fece un’occasione. Oltre che come aiuto di campo dello zar, era versato nelle lingue, le matematiche e le scienze. A Parigi ebbe il compito di studiare fortificazioni e armamenti. Al ritorno lo zar lo nominò Traduttore principale di Libri Stranieri alla Corte Imperiale. Ma non si limitò a tradurre libri scientifici e di arte militare: costruì fortificazioni per tutta la Russia. Uno di questi forti, Kronstadt nel golfo di Finlandia, sarà importante ancora due secoli dopo, nell’assedio di Leningrado nel 1941-42.
Alla morte di Pietro il Grande, nel 1725, Gannibal perse influenza a corte. La zarina Elisabetta, figlia di Pietro, gli diede in dono una proprietà a Mikhailovskoje, e Gannibal vi si ritirò con la seconda moglie. In questo piccolo feudo, Puškin scriverà in una nota al’“Eugene Onegin”, “l’africano nero che era diventato un nobile russo visse fino alla fine della sua vita come un philosophe francese”. È in questa stessa proprietà, ancora di famiglia, che Puškin cominciò nel 1827 il suo primo romanzo, “L’Africano di Pietro il grande” – che lascerà incompiuto. Mettendo a frutto i ricordi familiari, e la testimonianza di un ultimo figlio del bisnonno, ancora in vita.
Andrej Syniavsky, nel suo libro su Puškin, dirà che “si appoggiava molto sul suo aspetto negroide e il suo passato africano, che vantava forse più intensamente della sua ascendenza aristocratica” – come una sorta di outsider pur facendo parte dell’establishment, il suo rapporto con lo zar Nicola II, suo protettore, assimilando a quello di Gannibal con Pietro il Grande – un paragone lusinghiero per lo zar, che lo puniva e lo sosteneva.
Puškin era fiero della famiglia, che fa rientrare anche nei suoi capolavori, il dramma storico “Boris Godunov” e il romanzo “La figlia del capitano”.  Di più avrebbe voluto fare per il bisnonno africano, il personaggio su cui ha centrato il suo primo tentativo di romanzo, rimasto poi incompiuto – tutti i romanzi di Puškin sono incompiuti, eccetto “La figlia del capitano”.
 
Leopoli – Oggi parte dell’Ucraina, fu sempre polacca, dalla fondazione. Il voivodato di Leopoli figura parte del Regno di Polonia alla fondazione, nel 1265. Poi della Confederazione Polonia-Lituania, col nome teutonizzato di Lemberg. E come voivodato polacco nell’impero austriaco e poi austro-ungarico, alla spartizione della Polonia. Parte della Seconda Repubblica di Polonia al crollo dell’impero, 1919-1939. È diventata ucraina con l’avanzata dell’Armata Rossa nel 1944-45.
All’ultimo censimento austro-ungarico, nel 1910, che tracciava religione e lingua, il 51 per cento della popolazione della città si dichiarava cattolico romano, la confessione dei polacchi, il 28 per cento ebreo, e il 19 per cento della Chiesa greco-cattolica ucraina. Come lingua, l’86 della popolazione si esprimeva in polacco, l’11 per cento in ucraino.
 
Faustina Maratta – Figlia bastarda, poi riconosciuta, di Carlo Maratta, il pittore romano marchigiano di cui Sgarbi propone da tempo il recupero, fu protagonista di una “fuitina” nella Roma del Seicento, e di un aneddoto faceto dell’abate Galiani; “Fatto invaghire di sé il cavaliere romano Cesarini, fu da costui rapita e portata fuori Rima. La famiglia Cesarini, temendo che la tresca finisse in matrimonio chiede l’aiuto del papa. Che fece ritrovare i due e li riconsegnò alle rispettive famiglie. Beninteso di matrimonio non si parlò più; ma per Roma si diffuse un motto scherzoso: «Carlo Maratta ha fatto il quadro, Cesarini la cornice, e il Papa l’ha indorata»”. Il padre ne aveva da poco sposato la madre, Francesca Gommi, nel 1698, alla morte della moglie legittima, quando Faustina aveva diciannove anni.
Il “cavaliere” Cesarini, Giangiorgio Sforza Cesarini, era in realtà il figlio cadetto di Federico Sforza Cesarini, duca di Genzano, la località dove Carlo Maratta si era ritirato con la figlia. Non ci fu una “fuitina” ma un tentativo di rapimento. Nel 1703, quando Faustina aveva quindi 24 anni. Mentre andava a messa con la madre e le domestiche. Nei pressi del Quirinale, dove il papa allora risiedeva. Faustina si sottrasse all’agguato, ma rimediò una ferita alla tempia destra, che le lasciò una cicatrice. Il papa intervenne, ma per punire il duca, che per sfuggire alla prigione fuggì a Napoli, come era l’uso, e poi in Spagna – dove morì non molti anni dopo.    
Faustina era di suo poetessa, apprezzata e corteggiata – si è meritata una distesa “Vita” nella raccolta “Italian W omen Writers. A Bio-Bibliographical Sourcebook”, a cura di Rinaldina Russell, pubblicata dal Q ueens Colege a New York nel 1994 ” (una distesa “vita”, a opera di Serena Veneziani, figura ora nel “Dizionario Biografico degli Italiani” della Treccani). Provò anche la pittura: a lei si attribuisce un ritratto di papa Clemente XII ora all’Ambrosiana. Il padre la raffigura, in un quadro ora alla Galleria Corsini a Roma in atto di dipingere, con in mano pennelli e tavolozza dei colori.
 
L’Accademia dell’Arcadia la elesse suo membro l’anno dopo l’agguato di Cesarini, accogliendola col nome di Aglauro Cidonia. In Arcadia fece la conoscenza di Giambattista Felice Zappi, avvocato imolese e poeta già rinomato, col nome d’arte di Tirsi Leucasio.
  Che sposò l’anno successivo, nel 1705, e col quale convisse poi felicemente (ebbero cinque figli) – il matrimonio, è vero, fu combinato dal papa, Clemente XI Albani, per il quale il giurista e amministratore Zappi lavorava. Faustina tenne a Roma e a Albano col marito un salotto rinomato – tra i frequentatori si ricordano i maggiori arcadi, Gravina e Crescimbeni, con personaggi di passaggio, Händel, Domenico Scarlatti e altri.
Zappi morì presto, nel 1719. Faustina, malgrado le tante proposte, rifiutò di riposarsi. Nel 1723 pubblicò una raccolta di “Rime”, sue e del marito. I suoi componimenti, 38 sonetti in tutto, celebrano le grandi figure femminili della latinità, ispirate ai dipinti del padre, Lucrezia, Porzia, Veturia, Tuzia, Virginia, Claudia, Cornelia, Arria, Ortensia. O gli affetti familiari, specie per la scomparsa del figlioletto Rinaldo.
Dopo la morte del marito, viaggiò molto, a Imola, da dove il marito proveniva, Bologna e Venezia.  Si occupò dei figli - degli studi e dei matrimoni. Intrattenne corrispondenze con vari letterati. Intrattenne anche una relazione con una abate, membro dell’Arcadia, Vincenzo Parravicini, di lei più giovane.
Dal 1728 la sua vita cambiò. Da un lato la famiglia Albani (papa Clemente XI) le procurò dal re di Polonia un diploma nobiliare, il titolo ereditario di marchese. Dall’altro il Paravicini se ne allontanò. E un giovane di Albano, di cui resta il nome, Francesco, reputato figlio naturale del suo fallito rapitore, le fece causa di riconoscimento. Il processo durò quasi vent’anni: Faustina morirà nel 1745, appena dopo essere riuscita a provare che la pretesa del querelante era falsa. La ricorda la lapide tombale al San Carlino alle Quattro Fontane.
 
Massacro della VoliniaOggi dimenticato, fu negli anni 1943-45 uno degli eventi che più fecero notizia: la caccia e l’eliminazione sistematica dei polacchi del voivodato della Volinia – e, con molte meno vittime, della Galizia orientale, della Polesia e attorno a Lublino. Una serie di stragi di massa compiute dai tedeschi, e dagli ucraini di Stepan Bandera, il creatore e capo dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, un gruppo politico filo-tedesco, nonché del braccio militare dell’Organizzazione, l’Upa, o Esercito Insurrezionale Ucraino. Le stragi, perpetrate col sostegno anche della popolazione ucraina, si presume abbiano fatto circa 100 mila morti.
Il più gran numero di morti si ebbe all’inizio dei massacri, nel luglio-agosto 1943. Vittime soprattutto donne e bambini – i maschi polacchi erano ai lavori forzati o nella Resistenza esercito interno polacco).
Nelle prime ricostruzioni dopo la guerra, la Polonia denunciò torture e stupri, e anche metodi più radicali, quali lo smembramento o il fuoco. Ancora nel 2008 l’Istituto della Memoria polacco denunciava  i massacri come “genocidio”, e con questa qualifica il Parlamento polacco li rubricava con atto legislativo nel 1956.
La Volinia, sotto amministrazione polacca all’interno dell’impero austro-ungarico, fu attribuita alla Polonia, all’indipendenza dopo la guerra, tra il 1921 e il 1939. Pur essendo di nazionalità ucraina. Al censimento 1921 del rinato Stato polacco furono registrati nel voivodato 1.437.907 abitanti. Così suddivisi per etnia dichiarata: ucraini 983.596 (68,4 per cento), polacchi 240.922 (16,8), ebrei 151.744 (10,6), cechi (cosiddetti Cechi di Volinia) 25.405 (1,77), tedeschi:24.960 (1,74), russi 9.450 (0,66%)
Il voivodato, termine e istituto originariamente medievale, feudale, era a metà tra la provincia e la regione, un distretto amministrativo.
 
Operazione Albania – Rubricata anche come Operation Fiend dalla Cia, o Operation Valuable dai servizi inglesi (l’MI 6, il controspionaggio), fu il primo tentativo di sovversione organizzato dalla Cia, con i servizi inglesi - prima di quello riuscito poi in Iran, 1953, contro Mossadeq. Un avvenimento dimenticato, che fallì, con alcune centinaia di morti tra le spie angloamericane, e innumerevoli tra gli albanesi. Lo ricorda in una noticina John Le Carrè, nelle memorie “Tiro al piccione”, a proposito della defezione di Kim Philby, uno di capi dell’MI 6 che faceva il doppio gioco per i russi. “Un tentativo fallito dell’MI 6 e della Cia nel 1949 di rovesciare il governo albanese, finito con la morte di almeno 300 agenti, e di innumerevoli arresti ed esecuzioni tra il popolino locale”, è la nota di Le Carré – con l’aggiunta: “Kim Philby era uno degli organizzatori”.
La “contro-rivoluzione” in Albania fu il tema di una proposta del ministro degli Esteri inglese, il laburista Ernest Bevin il 6 settembre 1949, alla prima riunione Nato a Washington. Ma l’operazione era già in atto, organizzata e finanziata dalla Cia. Col supporto degli agenti britannici nel Mediterraneo, in Italia, Grecia, Libia, Albania. E col contributo dei servizi italiani e greci. Una dozzina di albanesi erano stati addestrati in Libia a pilotare un aereo. E insieme alluso di armi, codici, radio ricetrasmittenti, e alle tecniche di sabotaggio e sovversione. Un altro piccolo gruppo, chiamato affettuosamente i Pixies (folletti), era stato trasportato a luglio dello stesso anno al Fort Bingemma a Malta, per l’addestramento allo spionaggio e alla mobilitazione. Il 26 settembre i Pixies, nove in tutto, furono imbarcati su un vascello della Royal Navy che li portò nell’Adriatico, dove, dopo una sosta a Brindisi, furono trasbordati su un caicco greco, da pesca o da cabotaggio, per essere sbarcati a sud di Vlora, dove la cosiddetta Resistenza albanese aveva terreno amico. Furono intercettati all’arrivo e uccisi o dispersi – in Grecia. Altri addestramenti e altri sbarchi analoghi furono organizzati ancora per tre anni, fino alla Pasqua del 1952, data dell’ultima incursione, anch’essa fallita – le milizie albanesi sempre aspettavano gli sbarchi. Uno dei sopravvissuti dichiarerà: “Eravamo usati per un esperimento. Eravamo una piccola parte di un grande gioco, pegni da sacrificare”.
L’Operazione Albania è stato uno dei segreti Nato meglio custoditi. È solo nel 2006 che se ne è avuta notizia, dai documenti declassificati sulla base del Nazi War Crimes Disclosure Act, una legge americana.      
 
astolfo@antiit.eu

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