astolfo
Edita Broglio – Pittrice presto dimenticata, lettone di origine, è stata l’animatrice di “Valori
plastici”, la rivista che editava il marito Mario, dal 1918 al 1921, e del
movimento del “realismo magico” che movimentò la pittura italiana, in polemica
contro il non-figurativismo, negli anni 1920 e1930. Nata in Estonia, a
Smiltene, a Nord-Est di Riga, studiò per tre anni all’Accademia d’Arte di
Koenigsberg nella Prussia Orientale, oggi Kaliningrad, exclave russa. Dopodiché
passò a Roma. Dove fu chaperonata da Olga Resnevič Signorelli, altra lettone, che
aveva studiato medicina in Svizzera, poi a Siena e a Roma, dove si era laureata
nel 1906, e aveva spostato il medico Angelo Signorelli. Olga si voleva
giornalista e sarà biografa e traduttrice dal russo. Teneva un salotto
frequentato e introdusse Edita a quella che sarà la “scuola romana”, Spadini,
Meli, Ferrazzi.
È stata di fatto una delle tante artiste russe in Italia
– e dei tanti artisti. Della specie che Antonella d’Amelia spiega, in
“La Russia otreconfine”, p. 346, come immedesimate nella cultura classica, o
cultura italiana: non di “scelte esistenziali come gruppo sociale a sé stante”,
ma come “fusione con il mondo artistico italiano, una modulata ricerca di
simbiosi e affinità”. Nella pittura “com’è avvenuto anche in altri ambiti intellettuali
– dall’editoria al teatro, al cinema, alla musica”. O come scriveva Ungaretti per
il catalogo della mostra Broglio alla Galleria del Vantaggio
a Roma nel 1957: “Qui pienamente si rispetta la tradizione che di continuo può
rinnovarsi e compiere altri prodigi quando chi ad essa si accosti non le chieda
di potere imitare questo o quel prodigio dell’arte del passato, ma che il dialogo
non venga interrotto”.
Prima della guerra Edita collaborò in varie opere col marito
Mario, e con Carrà e De Chirico. Ebbe incarichi e finanziamenti dalla Banca
d’Italia. Era molto riverita, per il suo movimento di “Ritorno all’ordine”. Ma
di più e con più riconoscimenti lavorò dopo la guerra. Ebbe personali alla
Galleria Gian Ferrari a Milano nel 1953, e a Roma alla galleria Obelisco nel
1956 e alla galleria del Vantaggio nel 1957. E una presenza notevole alla
retrospettiva della Scuola romana della Quadriennale del 1959, e alla
mostra che Carlo Ludovico Ragghianti organizzò a Firenze nel 1966. Impegnandosi
molto, e riuscendoci, a non far considerare la rivista e il movimento di “Valori
plastici”come reazionario. In Toscana, dove si era ritirata alla morte del marito
nel 1948, fece vita ritirata, e dipinse poco. Ma rimise in ordine tutte le
carte di “Valori plastici”, sempre in vista di un riconoscimento della correte
fra quelle principali del Novecento. Avrebbe voluto creare una fondazione intitolata
al movimento, ma non ce la fece – i quadri con cui intendeva finanziarla le
furono rubati. Morendo nel 1977 lasciò quadri e disegni, poi venduti all’asta,
alla Fondazione Brera a Milano.
Yvette
Pierpaoli - Yvette Pierpaoli, francese, figlia di un
manovale italiano, emigrato probabilmente da Stromboli, è solo ricordata da Le
Carré. Nelle memorie “Tiro al piccione” rivela in lei il modello del suo
romanzo “Il giardiniere tenace”. Dopo morta, ne ha tessuto l’elogio funebre estesamente
sul settimanale “The Observer”. Indomita operatrice umanitaria in Cambogia,
Guatemala, Bolivia, Albania, e in Africa. Da ultimo in Kossovo, dove è morta,
alla frontiera con l’Albania, in un incidente d’auto.
Lei
stessa ha raccontato di sé in “Una mamma per mille bambini”. Dove però rivive la
sua seconda o terza vita, da operatrice umanitaria. Dapprima per caso: dalla
Cambogia, dove aveva un’impresa di importazioni di beni di consumo durevoli e
una di trasporto aereo per distribuire questi prodotti, stava passando in
Thailandia, era il 1975,quando si era imbattuta in un bambino quasi morto,
abbandonato per strada, terrorizzato, che riuscirà con grande difficoltà a rinfrancare,
restituendogli una qualche gioia di vivere – finirà per adottarlo. Scopre cioè,
per caso?, che la Cambogia non è il paese di Lon Nol, che governa a Phnom Penh con
la protezione americana, ma dei Khmer rossi di Pol Pot, un capo comunista
terrorista.
La
Carré la ricorda così: “Di tutte le brave persone (che hanno più coraggio di
me) la più coraggiosa che ho incontrato nei miei viaggi – qualcuno direbbe la più
pazza, ma non io – è stata una piccola donna d’affari francese, provinciale di
Metz, chiamata Yvette Pierpaoli, che, col suo compagno Kurt, un ex capitano di
mare svizzero, gestiva una sgangherata ditta d’importazioni a Phnom Penh, per
la quale manteneva una scuderia di aerei monomotore vecchiotti e una variopinta
squadra di piloti, per saltellare di città in città sopra la giungla controllata
da Pol Pot, a consegnate cibo e forniture sanitarie e riportare indietro
bambini malati in quella che era ancora la sicurezza relativa di Phnom Penh”.
Una truppa “di piloti asiatici e cinesi, più abituati a consegnare macchine da
scrivere e cucine” che a salvare “bambini e madri “ – “ovviamente i piloti
erano santi solo part-time: alcuni avevano volato per Air
America, la ditta della Cia, altri trasportavano oppio, la maggior parte aveva
fatto entrambe le cose”. Ora l’impresa era umanitaria. Yvette aveva organizzato
la vita per molti bambini e molte madri. Aveva trovato loro rifugi adatti.
Trovava sempre i fondi necessari a mantenerli.
Aveva avuto un’infanzia difficile, almeno così lei l’ha ricordata, à Ban
Saint-Martin, nella Moselle, dove era nata nel 1938. La madre, una ragazza
orfana dell’Assistenza pubblica, non sapeva fare nulla, il padre a suo dire la
abusava. Ai quindici anni abbandona la scuola, E quando fa vent’anni, la notte
di Natale va via di casa. A Parigi vive di espedienti – compresa, lascia
intendere, la prostituzione. Fino all’idea di suicidio. Che però le ribalta la
vita: decide al contrario di “prendere in mano” la sua propria vita. A 29 anni
emigra in Asia, un mondo che l’aveva sempre attirata. Molta Asia era stata colonia
francese, specie l’Indocina, il vasto conglomerato di Vietnam, Cambogia e Laos. Da qualche anno ora indipendenti, con una guerra lunga. S’installa
in Cambogia e avvia molteplici imprese, con qualche successo. Fino alla ditta
d’importazioni e alla flottiglia di aerei monomotore. Quando nel 1975 anche la capitale cade nelle mani dei Khmer rossi, comincia la sua
terza vita.
Dalla Thailandia organizza gli aiuti
ai rifugiati cambogiani, specialmente donne e bambini. Gira per la frontiera su
una piccola vettura, per portare cibo e medicinali ai cambogiani in fuga. Si
aggira per i campi di rifugiati, tenuti in condizioni disumane. Un impegno che
accentua quattro anni dopo, nel 1979, quando l’esercito vietnamita invade la
Cambogia, liberandola da Pol Pot. La Thailandia deporta i rifugiati in
Cambogia. Dove però non sono ben accolti, anzi sono per lo più internati, e
anche massacrati. Yvette ottiene dalla autorità thai molte tonnellate di riso per
sfamare i cambogiani ritornati in Cambogia, e ottiene dalle autorità cambogiane
la liberazione di molti profughi ora detenuti.
Nel 1985 abbandona tutto e torna in Francia. Vorrebbe cambiare di nuovo
vita, ma l’incontro occasionale con un religioso in procinto di partire per il
Guatemala le cambia di nuovo la prospettiva. La guerra civile in Guatemala ha lasciato
molti orfani e molte vedove. Yvette crea allora un’organizzazione umanitaria,
“Tomorrow”, gira la Francia per raccogliere fondi, negli Stati Uniti si associa
a Refugees International, una ong molto ben introdotta, all’Onu e con le autorità
americane (con la quale poi formerà una joint-venture),
ed entra in Guatemala. Dapprima in un villaggio, Zaculeu, che ha una popolazione
decimata dalla guerra civile, ma ben 225 orfani e una sessantina di vedove. Poi
a Managua, dove organizza un centro d’accoglienza per ragazzi, 5-17 anni – ne
raccoglie oltre cinquecento. Infine opera anche in Bolivia.
Torna in Europa come rappresentante di Refugees International, con statuto
quasi diplomatico. Opera in Mali, Niger, Bangladesh, Albania, e ancora in Cambogia.
Muore il 18 aprile 1999.
Piazzi Smyth – Lo ricorda Conan Doyle, nel “Racconto di John Smith”, la sua primissima
opera, come “teorico della «Grande Piramide»” – “The Narrative of John Smith”, p.125.
Inglesissimo astronomo, e in parte astrologo, ma di Napoli. Dove nacque in epoca
napoleonica, quando la capitale del Regno delle Due Sicilie era presidiata
dalla flotta inglese. Il padre era il capitano di vascello, poi ammiraglio, William
Henry Smith, la madre Annarella. Che non era un’amante napoletana del capitano
ma Eliza Anne, napoletanizzata in Annarella, figlia unica e bella del console
britannico a Napoli, Thomas Warington, e della di lui (prima) moglie Anne. La
quale anche ha una storia degna di nota.
Anne, la madre
di Annarella, nata nel 1747 nell’East London, la Londra popolare, da un William
Robinson, muratore, e una Jane Cook, aveva sposato nel 1769 un Lewis Bradshaw
Peirson, un italiano, nato Lodovico Repinder, figlio di un Vittorio Repinder e
di una giovane inglese, Winifred Langdale. Con Lewis-Lodovico aveva avuto due
figli. Quando lui morì, nel 1786, si risposò, a 39 anni, con Thomas Warington,
allora ventunenne. E si stabilirono a Napoli, dove la loro unica figlia,
Annarella, nacque due anni dopo.
La coppia
William Henry Smith e Annarella ebbe undici figli. Il secondo dei quali prese
il nome di Charles Piazzi – nato nel 1819, morirà nel 1900. Si vorrà Piazzi
come il suo padrino, l’astronomo Giuseppe Piazzi, il valtellinese fondatore
dell’Osservatorio astronomico di Palermo, con cui il padre, che praticava anche
l’astronomia, aveva fatto amicizia quando il re di Napoli si era rifugiato a
Palermo. La passione per l’astronomia di Charles si rafforzò quando la famiglia
rientrò in Inghilterra. Il padre William Henry Smith, il
“Mediterraneo Smith”, installò nella dimora di Bedford, nel 1825, dove si era
ritirato, in campagna, un osservatorio privato, con un telescopio da 5,9 pollici,
sul quale Piazzi Smith bambino fece le primissime esperienze. A sedici anni era
già assistente dell’astronomo Thomas Maclear al Capo di Buona Speranza, dove ebbe
la possibilità di osservare la cometa di Halley e la Grande Cometa del 1843.
Continuò a occuparsi di misure
astronomiche, ma presto i suoi interessi derivarono all’egittologia. Dove si
distinse per le ricerche archeologiche. Fece le misurazioni più accurate del suo tempo della
Grande Piramide, e ne fotografò alcuni interni, per primo, usando una lampada
al magnesio. Per i lavori in egittologia ebbe vari riconoscimenti, compreso quello
di Royal Astronomer. Ma fu presto un avvocato del “Britisth Israelism” – che la
“Britannica” definisce “la credenza nazionalista britannica, pseudoarcheologica,
pseudostorica e pseudoreligiosa che il popolo della Gran Bretagna è «geneticamene,
razzialmente, e linguisticamente il discendente diretto» delle Dieci Tribù Disperse
dell’antica Israele”.
La Grande Piramide aveva misurato dettagliatamente
nella certezza che essa fosse un deposito di profezie che si sarebbero rivelate
con le misure precise. Sostenne anche che gli Hyksos erano gli ebrei, i quali avevano
costruito la Grande Piramide sotto Melchisedec. E siccome il “pollice
piramidale” era l’unità di misura divina, si oppose all’introduzione del sistema
metrico in Gran Bretagna, con successo: per tutta la vita, fino a Fine Secolo,
scrisse saggi e libri contro il sistema metrico, un “prodotto del radicalismo
ateo”. Il “Secondo Avventò” profetizzò
nel 1882. Andato a vuoto l’appuntamento, non si arrese. Nel 1888 rassegnò le
dimissioni da Royal Astronomer, in segno di protesta contro la Royal Society of
London, l’autorità scientifica, che ne contestava le pubblicazioni. E continuò
a predire il Secondo Avvento per varie date, tra il 1892 e il 1911.
astolfo@antiit.eu
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