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lunedì 29 maggio 2023

Il mondo com'è (462)

astolfo


Edita Broglio – Pittrice presto dimenticata, lettone di origine, è stata l’animatrice di “Valori plastici”, la rivista che editava il marito Mario, dal 1918 al 1921, e del movimento del “realismo magico” che movimentò la pittura italiana, in polemica contro il non-figurativismo, negli anni 1920 e1930. Nata in Estonia, a Smiltene, a Nord-Est di Riga, studiò per tre anni all’Accademia d’Arte di Koenigsberg nella Prussia Orientale, oggi Kaliningrad, exclave russa. Dopodiché passò a Roma. Dove fu chaperonata da Olga Resnevič Signorelli, altra lettone, che aveva studiato medicina in Svizzera, poi a Siena e a Roma, dove si era laureata nel 1906, e aveva spostato il medico Angelo Signorelli. Olga si voleva giornalista e sarà biografa e traduttrice dal russo. Teneva un salotto frequentato e introdusse Edita a quella che sarà la “scuola romana”, Spadini, Meli, Ferrazzi.
È stata di fatto una delle tante artiste russe in Italia – e dei tanti artisti. Della specie che Antonella d’Amelia spiega, in “La Russia otreconfine”, p. 346, come immedesimate nella cultura classica, o cultura italiana: non di “scelte esistenziali come gruppo sociale a sé stante”, ma come “fusione con il mondo artistico italiano, una modulata ricerca di simbiosi e affinità”. Nella pittura “com’è avvenuto anche in altri ambiti intellettuali – dall’editoria al teatro, al cinema, alla musica”. O come scriveva Ungaretti per il catalogo della mostra Broglio alla Galleria del Vantaggio a Roma nel 1957: “Qui pienamente si rispetta la tradizione che di continuo può rinnovarsi e compiere altri prodigi quando chi ad essa si accosti non le chieda di potere imitare questo o quel prodigio dell’arte del passato, ma che il dialogo non venga interrotto”.
Prima della guerra Edita collaborò in varie opere col marito Mario, e con Carrà e De Chirico. Ebbe incarichi e finanziamenti dalla Banca d’Italia. Era molto riverita, per il suo movimento di “Ritorno all’ordine”. Ma di più e con più riconoscimenti lavorò dopo la guerra. Ebbe personali alla Galleria Gian Ferrari a Milano nel 1953, e a Roma alla galleria Obelisco nel 1956 e alla galleria del Vantaggio nel 1957. E una presenza notevole alla retrospettiva della Scuola romana della Quadriennale del 1959, e alla mostra che Carlo Ludovico Ragghianti organizzò a Firenze nel 1966. Impegnandosi molto, e riuscendoci, a non far considerare la rivista e il movimento di “Valori plastici”come reazionario. In Toscana, dove si era ritirata alla morte del marito nel 1948, fece vita ritirata, e dipinse poco. Ma rimise in ordine tutte le carte di “Valori plastici”, sempre in vista di un riconoscimento della correte fra quelle principali del Novecento. Avrebbe voluto creare una fondazione intitolata al movimento, ma non ce la fece – i quadri con cui intendeva finanziarla le furono rubati. Morendo nel 1977 lasciò quadri e disegni, poi venduti all’asta, alla Fondazione Brera a Milano.
 
Yvette Pierpaoli - Yvette Pierpaoli, francese, figlia di un manovale italiano, emigrato probabilmente da Stromboli, è solo ricordata da Le Carré. Nelle memorie “Tiro al piccione” rivela in lei il modello del suo romanzo “Il giardiniere tenace”. Dopo morta, ne ha tessuto l’elogio funebre estesamente sul settimanale “The Observer”. Indomita operatrice umanitaria in Cambogia, Guatemala, Bolivia, Albania, e in Africa. Da ultimo in Kossovo, dove è morta, alla frontiera con l’Albania, in un incidente d’auto.
Lei stessa ha raccontato di sé in “Una mamma per mille bambini”. Dove però rivive la sua seconda o terza vita, da operatrice umanitaria. Dapprima per caso: dalla Cambogia, dove aveva un’impresa di importazioni di beni di consumo durevoli e una di trasporto aereo per distribuire questi prodotti, stava passando in Thailandia, era il 1975,quando si era imbattuta in un bambino quasi morto, abbandonato per strada, terrorizzato, che riuscirà con grande difficoltà a rinfrancare, restituendogli una qualche gioia di vivere – finirà per adottarlo. Scopre cioè, per caso?, che la Cambogia non è il paese di Lon Nol, che governa a Phnom Penh con la protezione americana, ma dei Khmer rossi di Pol Pot, un capo comunista terrorista.
La Carré la ricorda così: “Di tutte le brave persone (che hanno più coraggio di me) la più coraggiosa che ho incontrato nei miei viaggi – qualcuno direbbe la più pazza, ma non io – è stata una piccola donna d’affari francese, provinciale di Metz, chiamata Yvette Pierpaoli, che, col suo compagno Kurt, un ex capitano di mare svizzero, gestiva una sgangherata ditta d’importazioni a Phnom Penh, per la quale manteneva una scuderia di aerei monomotore vecchiotti e una variopinta squadra di piloti, per saltellare di città in città sopra la giungla controllata da Pol Pot, a consegnate cibo e forniture sanitarie e riportare indietro bambini malati in quella che era ancora la sicurezza relativa di Phnom Penh”. Una truppa “di piloti asiatici e cinesi, più abituati a consegnare macchine da scrivere e cucine” che a salvare “bambini e madri “ – “ovviamente i piloti erano santi solo part-time: alcuni avevano volato per Air America, la ditta della Cia, altri trasportavano oppio, la maggior parte aveva fatto entrambe le cose”. Ora l’impresa era umanitaria. Yvette aveva organizzato la vita per molti bambini e molte madri. Aveva trovato loro rifugi adatti. Trovava sempre i fondi necessari a mantenerli.
Aveva avuto un’infanzia difficile, almeno così lei l’ha ricordata, à Ban Saint-Martin, nella Moselle, dove era nata nel 1938. La madre, una ragazza orfana dell’Assistenza pubblica, non sapeva fare nulla, il padre a suo dire la abusava. Ai quindici anni abbandona la scuola, E quando fa vent’anni, la notte di Natale va via di casa. A Parigi vive di espedienti – compresa, lascia intendere, la prostituzione. Fino all’idea di suicidio. Che però le ribalta la vita: decide al contrario di “prendere in mano” la sua propria vita. A 29 anni emigra in Asia, un mondo che l’aveva sempre attirata. Molta Asia era stata colonia francese, specie l’Indocina, il vasto conglomerato di Vietnam, Cambogia e Laos. Da qualche anno ora indipendenti, con una guerra lunga. S’installa in Cambogia e avvia molteplici imprese, con qualche successo. Fino alla ditta d’importazioni e alla flottiglia di aerei monomotore. Quando nel 1975 anche la capitale cade nelle mani dei Khmer rossi, comincia la sua terza vita.
Dalla Thailandia  organizza gli aiuti ai rifugiati cambogiani, specialmente donne e bambini. Gira per la frontiera su una piccola vettura, per portare cibo e medicinali ai cambogiani in fuga. Si aggira per i campi di rifugiati, tenuti in condizioni disumane. Un impegno che accentua quattro anni dopo, nel 1979, quando l’esercito vietnamita invade la Cambogia, liberandola da Pol Pot. La Thailandia deporta i rifugiati in Cambogia. Dove però non sono ben accolti, anzi sono per lo più internati, e anche massacrati. Yvette ottiene dalla autorità thai molte tonnellate di riso per sfamare i cambogiani ritornati in Cambogia, e ottiene dalle autorità cambogiane la liberazione di molti profughi ora detenuti.
Nel 1985 abbandona tutto e torna in Francia. Vorrebbe cambiare di nuovo vita, ma l’incontro occasionale con un religioso in procinto di partire per il Guatemala le cambia di nuovo la prospettiva. La guerra civile in Guatemala ha lasciato molti orfani e molte vedove. Yvette crea allora un’organizzazione umanitaria, “Tomorrow”, gira la Francia per raccogliere fondi, negli Stati Uniti si associa a Refugees International, una ong molto ben introdotta, all’Onu e con le autorità americane (con la quale poi formerà una joint-venture), ed entra in Guatemala. Dapprima in un villaggio, Zaculeu, che ha una popolazione decimata dalla guerra civile, ma ben 225 orfani e una sessantina di vedove. Poi a Managua, dove organizza un centro d’accoglienza per ragazzi, 5-17 anni – ne raccoglie oltre cinquecento. Infine opera anche in Bolivia.
Torna in Europa come rappresentante di Refugees International, con statuto quasi diplomatico. Opera in Mali, Niger, Bangladesh, Albania, e ancora in Cambogia. Muore il 18 aprile 1999.
 
Piazzi Smyth – Lo ricorda Conan Doyle, nel “Racconto di John Smith”, la sua primissima opera, come “teorico della «Grande Piramide»” – “The Narrative of John Smith”, p.125. Inglesissimo astronomo, e in parte astrologo, ma di Napoli. Dove nacque in epoca napoleonica, quando la capitale del Regno delle Due Sicilie era presidiata dalla flotta inglese. Il padre era il capitano di vascello, poi ammiraglio, William Henry Smith, la madre Annarella. Che non era un’amante napoletana del capitano ma Eliza Anne, napoletanizzata in Annarella, figlia unica e bella del console britannico a Napoli, Thomas Warington, e della di lui (prima) moglie Anne. La quale anche ha una storia degna di nota.
Anne, la madre di Annarella, nata nel 1747 nell’East London, la Londra popolare, da un William Robinson, muratore, e una Jane Cook, aveva sposato nel 1769 un Lewis Bradshaw Peirson, un italiano, nato Lodovico Repinder, figlio di un Vittorio Repinder e di una giovane inglese, Winifred Langdale. Con Lewis-Lodovico aveva avuto due figli. Quando lui morì, nel 1786, si risposò, a 39 anni, con Thomas Warington, allora ventunenne. E si stabilirono a Napoli, dove la loro unica figlia, Annarella, nacque due anni dopo.
La coppia William Henry Smith e Annarella ebbe undici figli. Il secondo dei quali prese il nome di Charles Piazzi – nato nel 1819, morirà nel 1900. Si vorrà Piazzi come il suo padrino, l’astronomo Giuseppe Piazzi, il valtellinese fondatore dell’Osservatorio astronomico di Palermo, con cui il padre, che praticava anche l’astronomia, aveva fatto amicizia quando il re di Napoli si era rifugiato a Palermo. La passione per l’astronomia di Charles si rafforzò quando la famiglia rientrò in Inghilterra. Il padre William Henry Smith, il “Mediterraneo Smith”, installò nella dimora di Bedford, nel 1825, dove si era ritirato, in campagna, un osservatorio privato, con un telescopio da 5,9 pollici, sul quale Piazzi Smith bambino fece le primissime esperienze. A sedici anni era già assistente dell’astronomo Thomas Maclear al Capo di Buona Speranza, dove ebbe la possibilità di osservare la cometa di Halley e la Grande Cometa del 1843.
Continuò a occuparsi di misure astronomiche, ma presto i suoi interessi derivarono all’egittologia. Dove si distinse per le ricerche archeologiche. Fece le misurazioni più accurate del suo tempo della Grande Piramide, e ne fotografò alcuni interni, per primo, usando una lampada al magnesio. Per i lavori in egittologia ebbe vari riconoscimenti, compreso quello di Royal Astronomer. Ma fu presto un avvocato del “Britisth Israelism” – che la “Britannica” definisce “la credenza nazionalista britannica, pseudoarcheologica, pseudostorica e pseudoreligiosa che il popolo della Gran Bretagna è «geneticamene, razzialmente, e linguisticamente il discendente diretto» delle Dieci Tribù Disperse  dell’antica Israele”.
La Grande Piramide aveva misurato dettagliatamente nella certezza che essa fosse un deposito di profezie che si sarebbero rivelate con le misure precise. Sostenne anche che gli Hyksos erano gli ebrei, i quali avevano costruito la Grande Piramide sotto Melchisedec. E siccome il “pollice piramidale” era l’unità di misura divina, si oppose all’introduzione del sistema metrico in Gran Bretagna, con successo: per tutta la vita, fino a Fine Secolo, scrisse saggi e libri contro il sistema metrico, un “prodotto del radicalismo ateo”.  Il “Secondo Avventò” profetizzò nel 1882. Andato a vuoto l’appuntamento, non si arrese. Nel 1888 rassegnò le dimissioni da Royal Astronomer, in segno di protesta contro la Royal Society of London, l’autorità scientifica, che ne contestava le pubblicazioni. E continuò a predire il Secondo Avvento per varie date, tra il 1892 e il 1911.

astolfo@antiit.eu

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