astolfo
“Da
Paese di risparmiatori siamo diventati un Paese di indebitati”, è osservazione
marginale di Antonella Sciarrone Alibrandi, docente alla Cattolica di Milano di
Diritto dell’Economia, a pranzo con un intervistatore. E invece no, non
marginale. È il segno del mutamento profondo dell’Italia negli ultimi
quarant’anni, uno dei segni. Domani la “Relazione annuale” del governatore
della Banca d’Italia Visco constaterà che il tasso di risparmio delle famiglie italiane si è ancora
ridotto, in un paio d’anni, al 10 per cento del reddito disponibile lordo. E
che, per il solo effetto dell’inflazione, c’è stato un calo in pochi mesi del
valore reale di depositi, obbligazioni e finanziamenti pari al 7,2 per cento
del reddito disponibile.
Dei
tre miracoli economici del dopoguerra, dei tre paesi sconfitti, l’Italia
condivideva col Giappone il record mondiale del risparmio tra la varie forme di
distribuzione del reddito. In una con gli assetti familiari, monogamici, anche
contro le evidenze di fatto, comunque improntati alla continuità. A differenza
della Germania, dove il consumo prevaleva sul risparmio. Ora l’italiano – anche
l’italiano – è in mano alle banche, tra
fondi comuni, fondi pensione e polizze vita che sarebbero da codice penale, e
assicurazioni che non assicurano nulla - non valgono al bisogno, servono solo a
salvare il posto di lavoro ai residui impiegati di banca, che altrimenti lo perderebbero.
Cioè è, progressivamente certo, poco per volta, senza farsi accorgere, derubato
legalmente.
L’univa
forma di risparmio è tenersi liquidi – tenere i soldi “sotto il materasso”. È
sciocco, ma è vero.
Le
banche non remunerano più i depositi. E in qualche modo, più o meno
surrettiziamente, li tassano. Un conto ad attività medio bassa, da pensionato, paga
ogni anno un migliaio di euro: 900 alla banca, per servizi ordinariamente in
automatico, e 100 allo Stato per bolli. Si pagano alla banca (prelievi,
bonifici, incassi, compravendite di titoli): 140 euro per il conto corrente, 60
per la carta di credito (40 per l’emissione, 24 per gli addebiti mensili), 40
per i servizi di investimento, 400 per la gestione del deposito titoli, 250 per
gli incassi per conto del cliente. Bonifici e bancomat a un costo hanno sostituito
gli assegni che invece erano gratuiti, e non sono nemmeno tanto più pratici. Si
paga per niente, un addebito o un accredito costa sempre uno e due euro.
Nel
recente rialzo dei tassi primari il fatto è di evidenza sconcertante: pochi
centesimi ai correntisti, contro un tasso medo sui prestiti al 4 per cento – di
fatto all’8-12. E senza alternative: il risparmiatore italiano, contrariamente
alla vulgata, pigramente diffusa dai giornali, è il meno invischiato tra i “capitalisti
europei in fuga”, in Svizzera, negli Usa, nelle varie isole ma opportunamente
indolori. Le tensioni di metà marzo, che hanno registrato in tutta Europa fughe
in massa dei grandi depositi verso la Svizzera e gli Usa, sono stati irrilevanti
in Italia - malgrado la minima, o nessuna, remunerazione. Il piccolo calo dei
depositi tra marzo e aprile si calcola che sia andato sui Btp, le cui emissioni
si sono intensificate nel periodo, pari a un decimo delle emissioni totali in
cantiere al Tesoro nel 2023.
È
l’effetto nefasto della banca universale, che nell’ondata di regolamentazioni anglosassoni
che ci ha seppelliti a fine Novecento (privatizzazioni, liberalizzazioni, e appunto
la banca universale) è arrivata in fretta all’annientamento del risparmio. Non
più casse di risparmio, popolari, rurali. Risparmio non remunerato, in nessuna
forma. Con rendimenti, se in obbligazioni, al di sotto dell’inflazione. Di quella
nominale ma già prima e di più di quella reale – che non con i sistemi di rilevazione
adottarti in parallelo è costituzionalmente sottostimata.
Il
credito approssima di fatto, anche quando legalmente si tiene al disotto, l’usura,
è costosissimo, tra interessi e spese. Sempre a fronte della nessuna
remunerazione del risparmio, e anzi delle pratiche tese a sottrarlo.
I redditi da capitale sono tassati al 21-26 per
cento. Già questo è uno scoraggiamento ad accumulare. Col ridicolo che la
vincita al lotto è esentasse, l’investimento in titoli è tassato al dividendo,
e tassato al valore aggiunto seppure di Borsa, e paga bolli in continuo, come una
colpa.
L’immobiliare è ancora relativamente protetto dal
vecchio catasto. Ma la casa è da tempo nel mirino di un fisco perennemente indebitato,
per una spesa pubblica sempre più gonfia e sempre meno produttiva – basta vedere
come sono praticati e quanto sono pagati gli appalti pubblici. Tra Imu, Tari,
Tasi, redditi dominicali.
Peggio
va la casa, il bene degli italiani – l’investimento di tutti, il risparmio, anche
dei poveri. L’82 per cento degli italiani possiede la casa in proprio, poteva
vantare Andreotti in uno dei suoi tanti governi attorno al 1980, confortato dal
“Reddito delle famiglie”, l’annuario statistico della Banca d’Italia. Oggi il
70 per cento possiede l’immobile in cui vive. Le quotazioni del settore sono
scese del 20 per cento tra il 2010 e il 2022. E solo il 28 per cento ha anche
altre case.
La
contrazione è l’effetto delle tre “ultime tre recessioni” che la Banca d’Italia rileva nei “Bilanci delle
famiglie”, la crisi bancaria, quella del debito, e quella del covid. “Nel 2020 il reddito medio delle famiglie italiane a
prezzi costanti e corretto per confrontare tra loro nuclei familiari di diversa
composizione, era più alto del 3,7 per cento di quello del 2016, ultimo dato
disponibile, ma ancora inferiore di quasi 8 punti percentuali rispetto al picco
raggiunto nel 2006, prima delle ultime
tre recessioni che hanno colpito l'economia italiana”. Ma, di più,
anche se la Banca d’Italia non lo rileva, il reddito disponibile, risparmio
compreso, arranca per via della tassazione, che il governo Amato nel 1992 e il
governo Monti dodici anni fa hanno dispensato sulle case, seconde e anche prima.
Sulla
prima casa i governi successivi hanno rimediato. Quella delle “seconde case” è invece
una storia a parte. Sono in larghissima maggioranza non il casale in Umbria o
in Toscana, o in Lomellina o in Brianza, sulla Riviera o sulla Costiera. Sono
le case familiari di origine, che gli italiani, pur emigrando volentieri, non hanno
abbandonato. Sempre nel quadro di una cultura della durata: della famiglia,
della continuità, del risparmio. Tutt’oggi, ancora, il 55 per cento delle
famiglie con reddito da primo quintile, quello da minore condizione economica,
possiede la casa di abitazione. La statistica non c’è, ma lo stesso quintile ha
anche la “seconda casa”, quella di origine, magari solo un rudere.
È
una continuità che fa l’immagine, e anche la maniera di essere, dell’Italia rispetto
ad altre culture, anche europee, anche prossime: la continuità del paesaggio,
degli insediamenti, della storia. Il radicamento, la stabilità, anche nell’emigrazione.
Molte sono ogni anno in abbondanza crescente abbandonate, per i carichi fiscali
che il governo Amato ha imposto e il governo Monti ha triplicato. Disfarsene è
impossibile, non c’è mercato, ma disappropriarsene diventa un obbligo.
Col
risparmio, anche il paesaggio e la storia vengono disfatte. Per quale buon
esito?
Non
solo il paesaggio, la società cambia: non più figli, pet in cambio. E il modo di vivere: si vive per se stessi, per un
arco di tempo comunque breve. Cambia la coppia, cambia la psicologia. La demografia
cambia, dove ancora si procrea: già la famiglia “cinese”, la coppia con un solo
figlio, dopo due generazioni è isolata. Il risparmio perde la funzione generazionale
– “pensare ai figli” (con la casa, certo, la casa d famiglia, dei genitori, dei
nonni). Ma la deriva non è inevitabile. Ed
è perdente. Se la stabilità non è più a premio e si vive nell’instabilità
stabile, questo è il peggio di tutto: non è uno sviluppo accrescitivo ma diminutivo
– è il consumo fatto vita.
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