L’africano di Pietro il Grande
“Esperimento
in prosa” è il sottotitolo. Il primo tentativo di romanzo di Puškin. E il primo
di tante incompiute – eccetto “La figlia
del capitano” - e tuttavia per molti aspetti opere finite, un po’ come i nonfiniti
di Michelangelo: racconti frammentari che pure tengono.
Il
progetto era di un “Otello” russo all’epoca di Pietro il Grande, della
modernizzazione (europeizzazione) della Russia. Ne rimane un ritratto dello
zar, di vita semplice e di volontà irriducibile, che il rinnovamento volle radicale,
anche violento, e sempre e solo
monocratico. Delineato attraverso le vicende di uno dei dei suoi più stretti
confidenti, Ibrahim, un africano, ex schiavo nativo del Camerun, comprato
bambino a Costantinopoli dall’ambasciatore
russo, l’uomo d’affari serbo Raguzinsky, che
gliene fece dono. La zar rimase colpito dal brio e l’intelligenza del ragazzo
e lo fece consacrare suo figlioccio, curandone personalmente l’istruzione. In
questo abbozzo di romanzo ha fatto un’esperienza di anni a Parigi, per acquisire
gli usi di mondo e l’arte militare, ha combattuto per i francesi in Spagna, ha una
relazione intima con una contessa, e ritorna
a Pietroburgo, a ventisette anni, per la delusione d’amore – la sua relazione
non potendo andare oltre la clandestinità. Fuori Pietroburgo è atteso alla
posta dallo zar Pietro, che ha saputo del suo ritorno. A corte si ritrova
privilegiato tra i privilegiati. E lo zar in persona s’incarica d’imporlo come
marito e genero in una famiglia di Bojardi.
Il
“negro di Pietro il Grande” è il bisnonno africano di Puškin per la parte
materna, Abram Petrovic (come fosse figlio di Pietro, n.d.r.) Gannibal – nome che
si è dato in memoria di Annibale. Che fu di fatto nelle grazie di Pietro il
Grande, divenendone un generale – del Genio, si direbbe oggi, specialista di fortificazioni.
A Parigi fu notato da Voltaire, “la tela scura dell’illuminismo russo” –
procurerà a Diderot, cinquant’anni dopo, l’invito a Pietroburgo alla corte di Caterina
II. È il romanzo di questa ascendenza che Puškin, di famiglia di antica
nobiltà, molto anteriore a quella degli zar, e di forte snobismo, avrebbe
voluto scrivere, l’eredità di Gannibal essendosi trasferita ai suoi tratti somatici,
per più aspetti negroidi.
Un
romanzo, un progetto di romanzo, a specchio. Dapprima il contrasto tra Parigi e
la Russia: una vita ricca a Parigi, lustra di scandali amorosi e finanziari, e
la vasta fabbrica fangosa che era la Russia. Con pochi usi di mondo, ma con un
netto contrasto, voluto dallo zar, tra il russo, che i bojardi parlavano, l’antica
nobiltà, e il francese che lo zar novellamente imponeva a corte. L’abbigliamento
tradizionale dei boiardi, il caffettano, un camicione ampio, lungo fino ai
piedi, e i nuovi abiti “alla francese”, da indossare nelle cerimonie dette
“assemblee”, sorta di balli, a corte e fuori, che Pietro il Grande volle per
immettere anche le donne nella società. Di due giovani mandati a Parigi,
Korsakov al rientro è vanitoso e vantone, sa di essere diprezzato dai bojardi e
li dispezza. Gannibal invece no, li rispetta, e quindi viene accettato e rispettato.
Ed è il ruolo che Puškin voleva, di un’innovazione che non cancellasse la tradizione.
E fa risolvere allo zar con l’oganizzazione del matrimonio del suo figlioccio
africano in una grande famiglia tradizionale. Adolescente a disagio in collegio,
dove veniva anche deriso per i tratti somatici, se ne fa una ragione: il
bisnonno è anche se stesso.
Tra
i tanti romanzi non finiti, di questo Puškin non era insoddisfatto. Ne pubblicò
i due capitoli centrali. Una delle ipotesi sul nonfinito è che Puškin vi temeva
se stesso, il suo possibile degrado a Otello, nella storia tumultuosa del
matrimonio con la giovane, bella, e incostante moglie. Ma siamo nel 1828, è
ancora presto per la gelosia che lo avrebbe portato alla morte, in duello, dieci
anni dopo – il matrimonio con Natal’ja Gončarova sarà nel 1831. Quel che è certo
è che Puškin visse sempre a pieno la sua condizione di mulatto (“octoron” in
inglese, ottavino). Per la carnagione olivastra e i capelli crespi – al liceo
era, in alternativa, “il francese” per i modi ricercati, e “la scimmia”. E per
la gelosia – che legava all’Otello di Shakespeare, quasi fosse una condizione
antropologica.
Si
scherzava va molto a S an Pietroburgo sule origini africane di Puškin. Il romanzo
potrebbe essere stato interrotto alla pubblicazione nell’agosto del 1830, sul
periodico “L’ape del Nord”, di una lettera semiseria di Faddey Bulgarin, che
diceva l’avo di Puškin comprato a Istanbul per una bottiglia di rum. Puškin
reagì nervosamente. Ma era pur sempre il “nome allegro” che Blok sentirà ancora
risuonare, uno che portava “con allegria e gentilezza il suo fardello” – al pettegolezzo
di Bulgarin rispose con orgoglio nei versi “La mia genealogia”.
Alexander
Puškin, Il negro di Pietro il Grande, ebook
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