Magie del tradurre
Dense
- anche troppo: lampi, illuminazioni – note sul tradurre. Una serie di
conversazioni alla radio della Svizzera Italiana sull’arte del tradurre,
Kipling e Tolkien. E sul primo abbordaggio professionale, da traduttore, dopo
una vita di letture appassionate, di Céline, per il postumo “Guerra” che ora si
pubblica.
La
riflessione di un maestro del tradurre – traduttore anche di Beckett e Nabokov,
“scrittori in due lingue, scrittori che si traducevano, traducevano se stessi”.
Con un ricordo-elogio di Lafcadio Hearn (“voglio essere un Colombo letterario”),
che a fine Ottocento-primo Novecento, in tempi di “cineserie”, rese fruibili in
inglese testi classici e popolari del Giappone – finendo per essere “ritradotto
in giapponese poco tempo dopo”. Un caso unico. Che invece di sminuire gli
originali li ha ravvivati.
Con
una notevole rilettura del dimenticato Kipling di Mowgli e di Kim. Di Mowgli e
Kim come Kipling. Orfano Kim sperduto nel “Grande Gioco” – ora sono solo… tutto
solo”. Orfano con due madri Mowgli come Kipling tra India e Inghilterra – ma
anche Kim è “uno scugnizzo in bilico tra indiani e ingelsi”.
Di
Celine è presto detto: l’incantesimo del linguaggio. Attrazione fatale per un
futuro traduttore. Che in effetti ha portato Fatica alle prime traduzioni, agli
albori di Adelphi. La prima proposta di traduzione dei “Ballets sans musique,
sans personne, sans rien”, e poi, nel 1975, la traduzione del “Dottor Semmelweiss”,
l’unica opera allora non impegnata da altri editori.
Il
“segreto” di Céline è personale, ma comune: “Non appena mi mettevo a leggerlo”,
ricorda ora Fatica di sessant’anni fa, qualcuno o qualcosa “attaccava parlare
dentro di me, parlava a me, direttamente: ai nervi, ai precordi” – Céline “parlava
attraverso me. Sensazione esaltante, perturbante, quasi di dolore fisico e, ho
il sospetto, assai pericolosa da inseguire o sobillare”.
Ottavio
Fatica, Lost in translation,
Adelphi, pp. 62 € 5
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