Tiro sui servizi inglesi
“Sono
stato a Mosca solo due volte”, è l’incipit del § 17 delle memorie di Le Carré,
“Tiro al piccione”: “la prima nel 1987quando grazie a Mikhail Gorbaciov la vita
dell’Unione Sovietica stava finendo, e tutti eccetto la Cia lo sapevano”. Lo
scrittore famoso per la guerra fredda visita la Russia alla fine della corsa, e
alla prima o seconda frase spregia la Cia.
Lo
scrittore emerito dei romanzi di spionaggio non sopporta le agenzie di
spionaggio. Più che altro, Le Carré fa in queste tarde memorie i conti con i
suoi diavoli interiori. Con i servizi segreti, che pure ha scelto di servire, a
25 anni, probabilmente il candidato più giovane, assunto in quanto germanista –
insegnava tedesco a Eton, fu assegnato a Vienna e a Bonn - prima di decidere
che poteva sopravvivere senza servire, da scrittore. E con il padre. Con questi
forse più che con l’MI 5 e l’MI 6 e della Cia, insolentiti anche nei romanzi. Anche
se, ritiene e spiega al primo capitolo, lo spionaggio è il cuore e il beniamino
della vita inglese: “In Gran Bretagna i nostri servizi segreti sono sempre, per
il bene e per il male, il centro spirituale della nostra élite politica,
sociale e industriale”. Ci sono anche molti giornalisti spie, americani e
inglesi.
“Storie
dalla mia vita” è il sottotitolo. Una scelta, insomma. Soprattutto di storie
spiacevoli, seppure riprese con garbo, e più profusamente di storie legate ai romanzi.
Come ne ha avuto l’idea, e come le ha indagate e approfondite. “Teatro del
reale” ricorre nei titoli di vari capitoli, in Cambogia per “La Talpa” e “Il
giardiniere tenace”, con Arafat e l’Olp per “La tamburina”, la Russia di
Gorbaciov, con Sacharov, per “La casa Russia”, la Russia dei gangster e dei ladri
(vori) per “La passione del suo
tempo”, “Single&Single”, “Il nostro traditore tipo”. E così via.
I
primi ricordi sono sui contorni, gli appigli, i personaggi reali, le
motivazioni delle sue prime spy stories,
quelle che hanno creato il marchio “Le Carré”, “La spia che venne dal freddo”,
“Lo specchio delle spie”, “Una piccola città in Germania”. Con Smiley, il
personaggio “rivelatore”ella miseria dello spionaggio. Sono i ricordi più
sentiti, o meglio raccontati. Con gli anni passati a Bonn segretario
d’ambasciata e poi a Berlino, sempre come spia, ma con compiti ridicoli e
ridicolmente portati a termine.
Il riesame è sconsolato del duello anglo-russo. In
casa, con i casi celebri delle spie inglesi doppiogiochiste. Compresa una
coppia di virtuosi comunisti, che controllano i compagni contro la imminente
invasione sovietica - Londra ha sempre bisogno di un nemico continentale: la
Francia a lungo, poi la Germana, ora, da ottanta anni, la Russia. Ma prevalentemente in ambito germanico, Vienna, Berlino,
anche Bonn. Complice il Bnd, il servizio tedesco di controspionaggio – sul
servizio Le Carrè inserisce un pezzo di storia, spiegando come e con quali
personaggi, tutti nazisti, si è costitutio e ha agito (ma questo, i tanti
nazisti professi in auge nella Repubblica Federale è un tema di molti capitoli, di molti
ricordi). Compreso, per “La Tamburina”, l’incontro a lungo ricercato, in una
prigioen israeliana ignota ai pià, “Villa Brigitte”, di una bionda, formosa e
stupida Brigitte, terrorista tedesca della Banda Baader-Meinhof, di poca
utilità per la creazione di Charlie, la “tamburina” indomita di tutte le
rivoluzioni.
Molto meno, se non niente, Brigitte ha suggerito a Le Carré rispetto a quanto gli ha apportato per Charlie, la “tamburina”, la sorellastra, la sua propria sorella, Charlotte Cornwell – Le Carré è all’anagrafe David Cornwell. Poi sfortunata interprete del film che dal romanzo fu tratto. Sfortunata per il fallimento registico: “David, ho fottuto il tuo film”, gli confessa George Roy Hill, il regista di “Butch Cassidy”, da Le Carré fortemente voluto con la produzione. Più che alla sorella, solo qui ricordata, molti accenni sono al padre, inviso: un superficiale rovinafamiglie, specialista di truffe, specie a danno di amici. A Mosca è ricordato anche il fratello Rupert, che era già stato corrispondente, italianista, del “Financial Times” a Roma.
Ricordi, scritti quasi di malavoglia. Anche se di situazione e personaggi tutti per qualche motivo bizzarri e unici. Particolarmente acidi quelli iniziali, di materiali poi rifusi nelle prime stories”, dei servizi inglesi, specialmente inetti (ma la cosa riguarda l’MI 5, la intelligence interna, che Le Carré mostra tanto incapace quanto boriosa, mentre ha stima dell’MI 6, il servizio di controspionaggio, al quale è passato dopo un apprendistato all’MI5 – che è quello che gestisce ora in buna misura la nostra guerra in Ucraina, per l’informazione, e per la formazione e l’armamento della difesa ucraina).
Più scoraggiante che brillante. A parte pochi personaggi
e ambienti. Un Cossiga ultravero, ciclotimico e democristiano (non interessato
a persone non di potere, e quindi allo stesso scrittore che i suoi diplomatici
gli avevano invitato), col corteggio quirinalizio di Sua Eccellenza il
Presidente. Martin Ritt. Richard Burton. Alec Guiness. Bernard Pivot, il
ritratto più disteso. I discussi Murdoch e Robert Maxwell. Altri che per qualche aspetto ricorda ancora con piacere,
tra essi soprattutto la dimenticata Yvette Pierpaoli, con Sacharov. E bizzarramente con Arafat, che
è tutto l’opposto, o Le Carré lo ricorda come tale, di quanto si ritiene:
appassionato, semplice, diretto, niente del capoterrorista. “Ho cercato di fare del mondo segreto che un tempo conoscevo
un palcoscenico per i mondi più ampi in cui viviamo” è il modesto proposito.
Il capitolo
finale è una lunga, drammatica, evocazione del padre filibustiere e della madre
assente, si direbbe tragica per molti aspetti, ma riesce inossidabilmente
inglese - understated? fatua.
John
Le Carré, Tiro al piccione,
Mondadori, pp. 320, ril. € 20
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