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Il mondo com'è (463)
astolfo
Dora Sophie Kellner - Giornalista,
traduttrice, scrittrice austriaca, già moglie un Max Pollak, un compagno di
università, col quale era emigrata da Vienna a Berlino, qui s’innamorò subito
di Walter Benjamin, che sposò, dopo un divorzio lampo dal primo marito. Il
matrimonio con Benjamin durerà a lungo, dal 1917 al 1930, arricchito dalla nascita
nel 1918 di un figlio, Stefan Rafael. Ma già nel 1929 era finito, Benjamin si
fidanzava con Asia Lacjs, l’attrice e regista lettone fiera comunista conosciuta
a Mosca nel 1924. Il divorzio fu lungo, essendoci di mezzo un figlio, ma senza
acrimonie.
Alla presa del potere di Hitler nel 1933 Dora
emigrò col proprio nome in Italia, a Sanremo. Dove lavorò dapprima come cuoca
all’hotel Miramare. Per poi rilevare Villa Emily, o Villa Verde, che gestì in
proprio come pensione – la vecchia residenza di Edward Lear, l’illustratore
londinese più noto come scrittore, di viaggi (in Calabria) e di limerick. Con l’avvento di Hitler Benjamin
aveva riallacciato i rapporti con l’ex moglie Dora: tra novembre 1934 e gennaio
1938 soggiornò a Sanremo, a Villa Verde (dove nel 1935 anche il loro
figlio Stefan si era trasferito) almeno cinque volte, anche per lunghi periodi
– nell’inverno 1934-25 per cinque mesi. Intervallati da soggiorni a Ibiza, ospite
di Jean Selz, nelle estati del 1934 e del 1936 a Skovbostrand, ospite di
Bertolt Brecht, e spesso in Francia, soprattutto a Parigi, dove era rifugiata
la sorella Dora, e dove poteva frequentare la Bibliothèque Nationale. A Villa
Verde Benjamin scrisse due capitoli di “Infanzia berlinese intorno al
Millenovecento”, e parti dei “«Passages» di Parigi” e dei lavori su Kafka.
La pensione di Dora ebbe grande successo,
divenendo il punto d’incontro di artisti e intellettuali di area tedesca. Tra
essi il poeta austriaco Richard Beer-Hoffmann, il pittore viennese Josef Floch, e il medico e scrittore Oskar Levy,
appassionato di Nietzsche, di cui curava la traduzione in inglese. A Capodanno 1937-1938 furono ospiti Theodor
W.Adorno e la moglie Gretel, in compagnia di Benjamin, con il quale Adorno
discusse le sue analisi di Wagner. Adorno, in certo senso allievo di Benjamin,
lo aveva introdotto sei anni prima all’Institut für Sozialforschung di Francoforte,
animato da Max Horkheimer, poi emigrato in America, che pagava a Benjamin
esilio un modesto sussidio mensile di 500 franchi francesi, per viaggi, libri e
trasloco della biblioteca.
Nel 1938, dopo le leggi razziali di
Mussolini, Dora lasciò Sanremo con Stefan per Londra, dove vivrà fino alla
fine, nel 1964, di settant’anni. Continuò a corrispondere con l’ex marito fino
al dicembre 1939, all’internamento di Benjamin in Francia. A Londra fece un
falso matrimonio, per avere la residenza, con un Harry Morser - un suo compagno
di gioventù a Vienna, Heinrich Mörzer - che aveva preso la cittadinanza sudafricana.
E ne mantenne il nome anche dopo la divisione nel 1945. Con un nuovo compagno, Franck Shaw,
ingegnere, aveva intanto ripreso la gestione di alberghi.
Il figlio Stefan, che dopo la guerra sarà
uno specialista di Romanistica, nel 1939, in quanto figlio di un tedesco, fu
deportato in un campo di concentramento in Australia, Camp Hay.
Dora (Deborah) a
Berlino era giornalista, scrittrice, traduttrice abbastanza nota. In una sorta
di divisione del lavoro con Benjamin, appassionato di scrittori francesi e
russi, lei traduceva dall’inglese. Di genitori ebrei, era figlia di una traduttrice,
Anna Kellner, e di un anglista, sionista (amico personale di Theodor Herzl),
Leon Kellner, Fino ai 14 anni era stata educata in casa dai genitori. Andò la
prima volta a scuola a 15 anni, a Czernowitz, dove il padre aveva avuto un incarico
al liceo.
Non bella, era apprezzata per la vivacità
e lo spirito. All’università aveva frequentato Chimica e Filosofia. Aveva
sposato Pollak, di ricca famiglia industriale, a 22 anni. A 26 era innamorata
di Benjamin, che sposerà un anno dopo. A Berlino lavorò come corrispondente dell’agenzia
United Telegraph, traduttrice dall’inglese, di Virginia Woolf, “Orlando”,
Walpole, Galsworthy, Michael Gold (“Ebrei senza denaro”), giornalista di
cronache letterarie e artistiche, intrattenitrice alla radio, di una certa fama
per il personaggio della casalinga svampita, sui toni del femminismo, autrice
di due romanzi-feuilletons,
pubblicati cioè a puntate, “Gas gegen Gas” (su “Südwestdeutsche Rundfunkzeitung”, e col titolo “Das Mädchen von Lagosta” su “Innsbrucker
Nachrichten” e “Grazer Tagblatt”), e “Béchamel Bettina” (su “Die Dame”).
Una duplice biografia, di lei con Walter Benjamin, è stata pubblicata
nel 2020: Eva Weissweiler, “Das Echo deiner Frage. Dora und Walter
Benjamin. Biographie einer Beziehung”, biografia di una relazione.
Neauphle-le-Chateau – Ripudia Khomeiny il paese
di 3 mila abitanti delle Yvelines, il dipartimento della regione dell’Île de France, limitrofo a
Parigi, in pratica un quartiere suburbano di Parigi, già famoso fra gli
appassionati come residenza di Marguerite Duras dal 1958, in una grande casa
all’entrata del villaggio (“vivevo sola a Neauphle”, dove “conoscevo tutto il
paese” - “ho
vissuto sola con l’alcol estati intere a Neauphle”), comprata con i diritti
cinematografici di “Una diga contro il Pacifico”, venuto alle cronache tra ottobre 1978 e gennaio
1979 perché scelto dai servizi segreti francesi di Giscard d’Estaing come vetrina
per promuovere l’ayatollah contro lo
scià di Persia. Quattro mesi soltanto ma bastanti per destabilizzare l’Iran:
l’1 febbraio l’ayatollah poteva sbarcare in trionfo a Teheran, su un aereo Air
France degli stessi servizi francesi. Da allora Neauphle ha prosperato come
meta di pellegrinaggio degli iraniani khomeinysti.
Lo stesso
villaggio se ne faceva motivo di orgoglio. La villetta a due piani nella quale
l’ayatollah era stato ospitato i proprietari è stata demolita. Ma una grande
targa ricordava dal 2017 con una lunga iscrizione quella esperienza storica, un
pannello protetto da una lastra di vetro. Neauphle-le-Château è “un nome
impresso per sempre nella storia delle relazioni franco-iraniane”, si leggeva
nella targa, come didascalia all’immagine dell’ayatollah: “Il popolo iraniano
si ricorderà sempre dell’ospitalità del popolo francese e dell’accoglienza che
è stata riservata all’ayatollah Khomeiny”. Al nome del villaggio è stata
intitolata a Teheran la strada dove sorge l’ambasciata iraniana. Ora la targa è
stata abbattuta, da non si sa chi, di notte, e sia il Comune che la
cittadinanza non la rivogliono.
La ripulsa
è stata generata ufficialmente dalle prolungate proteste in Iran contro il velo
imposto alle donne, e le tante morti successive all’assassinio il 22 settembre,
per non essere velata “appropriatamente”, della ventiduenne Mahsa Amini. Non era il primo assassinio da
parte delle polizie iraniane di ragazze non velate, tra 400 e 500 ne sono stati
contati, ma quello di Mahsa Amini ha acceso una lunga ondata di proteste in
tutto l’Iran, e a Neauphle il rifiuto è subentrato alla memoria storica. In un
primo momento la municipalità aveva provato una soluzione intermedia, annunciando che la targa sarebbe stata
“velata”. In attesa che la protesta in Iran rientrasse. Oppure che il proprietario, tuttora protetto da anonimato, del terreno dove sorgeva la targa, un’area incolta, a maggese, ma molto
visibile dalla strada, decidesse di rimuoverla. Poi la targa si è trovata
frantumata per terra, e ora il velo copre il muro nudo.
Khomeiny ha proclamato l’11
febbraio la festa nazionale, il giorno della “rinascita dell’Iran”. Neauphle
conta – contava – numerosi visitatori iraniani, o sciiti di obbedienza
iraniana. Ai primi di febbraio ogni anno, da quarant’anni, una fila di
sostenitori del khomeinismo, organizzati da associazioni di obbedienza sciita
tra gli iraniani, i libanesi e gli algerini emigrati in Francia, col sostegno
organizzativo ed economico dell’ambasciata iraniana a Parigi, si ritrovavano a
Neauphle per commemorare commossi Khomeiny – sul motivo: “È qui, a 5 mila chilometri
da Teheran, che è nata la Repubblica islamica”. Si progettava anche un museo.
Khomeiny
era un oscuro esiliato in Iraq da una dozzina d’anni senza alcun seguito nel
suo paese. Fu imposto dai servizi francesi con una scenografia semplice e
oculata. Semplice era la residenza scelta a Neauphle: una villetta monofamiliare
a due piani, con un balcone al primo: Semplice la procedura: l’ayatollah si
affacciava ogni giorno al balcone, per un pubblico ristretto scelto, e pronunciava
un sermone, che era già stato registrato e riprodotto in cassetta in milioni di
copie, distribuite ad horas in Iran.
Con brevi immagini televisive, diffuse attraverso Tf 1 sui tg occidentali e
arabi.
Khomeiny
parlava davanti a una folla modesta. Per lo più di giornalisti. Tutti fatti
confluire dopo un triage meticoloso,
anche corporale. Con l’abituale grossolanità verbale e spicciatezza delle gendarmerie
francesi, che non guardano mai negli occhi. La condanna dello scià era
stata sanzionata a inizio gennaio da
Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Germania Ovest. Su iniziativa francese, del
presidente Giscard d’Estaing, esponente autorevole della Francia laica.
Le sporadiche
ricorrenti mobilitazioni popolari in Iran s’intensificarono con gli
audiomessaggi dell’ayatollah Khomeiny. All’inizio del 1989 Giscard d’Estaing
organizzò alla Guadalupe, dal 4 al 7 gennaio, un vertice a quattro, col presidente
americano Carter, il cancelliere tedesco Schmidt e il primo ministro britannico
Callaghan. I quattro diffusero immagini di
grande self-assurance e contentezza, avendo deciso che la cosa migliore era “consigliare”
allo scià l’abbandono dell’Iran. Un revirement improvviso, di
cui non è stata data la ragione, anche se ha portato il mondo islamico e l’Occidente
a tristi passi. Di cui i quattro si mostrarono tutti d’accordo. Solo pochi mesi
prima, il 15 ottobre 1977, Carter e la moglie Rosalynn avevano intrattenuto per
due giorni a Washington lo scià e la moglie Farah Diba, tra feste, giochi,
grandi risate e grandi pranzi – lo scià per la prima volta si era visto ridere.
Un mese dopo Carter aveva fatto tappa a Teheran, in un giro delle capitali
amiche, insieme con Rosalynn, e aveva dichiarato lo scià “un’isola di stabilità”.
Patto
Ribbentrop-Molotov – Il partito Comunista francese fu per quasi due
anni di guerra, dopo il patto Hitler-Stalin, o Ribbentrop-Molotov,
filo-tedesco, filo-Hitler. Il patto, firmato il 23 agosto 1939, una settimana
prima dell’invasione tedesca della Polonia, e dell’entrata in guerra contro la
Germania della Francia e della Gran Bretagna, disorientò il partito Comunista
francese, pur essendone la Francia la prima vittima, dopo la Polonia. Era un partito
forte, e politicamente navigato: era stato al potere di recente, nei due anni aprile
1936-aprile 1938, a sostegno del governo radical-socialista del Fronte
Popolare. Ma il 3 settembre 1939 condannò la “guerra imperialista”, che Francia
e Gran Bretagna dichiaravano a Hitler. E dopo l’invasione della Francia, dopo
la drôle de guerre, la “buffa
guerra” che la Francia perdette in poche settimane, fece propaganda per
fraternizzare con le truppe tedesche di occupazione. Fece anche petizione al
comando tedesco per la ripresa delle pubblicazione del giornale di partito.
“L’Humanité”. E quando l’autorizzazione fu negata, ne fece colpa al suo proprio
negoziatore, Maurice Tréand, il responsabile della Sezione Quadri del partito
(Tréand, sentendosi sospettato, s’industriò di evitare la “liquidazione”
ritirandosi a vita privata, lontano da Parigi, in un piccolo agglomerato di
provincia).
Ma già durante il tentativo francese di resistere
all’invasione tedesca il partito Comunista francese aveva agito contro la
Francia. Gli studenti della federazione
giovanile organizzarono a Parigi plurime e ampie manifestazioni contro la
Francia in guerra. Giovani operai sabotavano nelle fabbriche la produzione di
guerra – la cosa è nota perché alcuni giovani operai furono fucilati per atti
di sabotaggio. Ancora a fine maggio 1941, cioè alla vigilia dell’attacco
tedesco all’Unione Sovietica, i minatori del bacino carbonifero del
Pas-de-Calais che osarono scioperare per dieci giorni, tra fine maggio e primi
di giugno del 1941, furono lasciati soli dal Pcf: lo sciopero fu enorme, di
almeno 120 mila minatori, ma si poté concludere, senza resistenze, con
deportazioni in massa (molti minatori, forse il maggior numero fra gli
scioperanti, erano polacchi), incarcerazioni (con suicidi) e alcune esecuzioni,
a opera delle truppe tedesche e della polizia di Vichy, il regime creato in Francia
dalla Germania.
astolfo@antiit.eu
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