In campo di concentramento con brio
“Il
campo lavora, mangia, beve, ama e odia, legge libri, ascolta la radio. Gente
muore, bambini nascono. Uomini e donne si innamorano, fanno piani per il
futuro, oppure si dividono. Si danno concerti, si cucinano dolci, si tengono
conferenze, si imparano le lingue, si progetta un teatro. Qui, come ovunque nel
mondo, ci sono persone che scrivono poesie, dipingono quadri. Poiché il futuro
è del tutto vago, e non solo, anche spaventoso, si vive nel presente meglio che si può, il meglio possibile”. Si
fanno commerci, c’è chi apre un caffè, anche se il caffè è di cicoria, chi un
ristorante, anche se il cibo latita, chi fa sartoria. Con quattro squadre di
calcio, la polacca, la tedesca, la jugoslava, e “quelli di Rodi”, cechi sionisti
naufragati a Rodi e cofinati a Ferramonti. E il “club inglese del caffè Kitty”.
Si ruba anche, qualcuno è un ladro specializzato.
“Mille
giorni di una giovane ebrea in un campo di concentramento” è il sottotitolo. Ma
non sembra, è un campo sui generis. Il
“caffè jugoslavo” è pieno di tutto, anche vero caffè, e sigarette inglesi. Dapprima
con le candele, poi con la luce elettrica. Si ascolta radio Londra, arriva il
“Basler Nachrichten”. “Un’isola fuori dal mondo… tutto insensato”. Si può
andare in gita, con la corriera, fino a Cosenza. Si può chiedere il trasferimento:
bene accetto all’autorità è quello al confino singolo, in un paese isolato, che
però non è popolare nel campo (la punizione più temuta è il “campo di concentramento
femminile”).
Burocrazia
al minimo, nessuna animosità. Ci sono due sinagoghe. Il direttore, Paolo Salvatore,
organizza feste da ballo, con pasticcini e orchestrina. Come se non ci fossero
state le leggi razziali. Comitati Ebraici sono sempre attivi, a Roma, Genova,
Milano, che per le feste mandano pacchi dono, che vengono recapitati. Il campo
raccoglie ebrei originari di Germania, Polonia, Austria, Russia, Cecoslovacchia,
Ungheria, anche della Turchia non invasa dai tedeschi, rifugiati in Italia
malgrado le leggi razziali del 1938, colti impreparati dall’entrata in guerra. Nina
scrive: il diario, racconti, scenette. E li “pubblica” anche, in tutta libertà. Si
organizzano premi letterari, Nina vince un secondo premio, sessanta lire. Alla
partenza per Ferramonti, dopo dieci giorni di San Vittore, alla stazione
Centrale di Milano “amici e conoscenti”, che già erano andati a trovarla in
carcere, sono venuti a congedarsi con pacchi e pacchetti. Il campo calabrese è uno dei 42 aperti in Italia, ma tutto sembrerà meno che un campo di concentramento.
Un
racconto dal vivo, in presa diretta, l’autrice ventenne vi fu internata, di
Ferramonti, in Calabria, vicino Cosenza, nel comune di Tarsia, uno dei campi di
internamento per stranieri allogeni, cioè cittadini di paesi con cui l’Italia
era in guerra o considerava ostili, creati nel 1940. Molti però vi furono
internati solo per essere ebrei – molti erano infatti allogeni di paesi
dell’Unione Sovietica, che all’epoca era alleata dell’Asse. Ci sono anche
comunisti jugoslavi, comunisti greci. E cinesi, “incredibilmente eleganti e
abili”. Tre anni “di giorni vuoti. E pieni”.
La
morte arriva con la liberazione, con i bombardamenti, e i mitragliamenti
insistiti, degli Alleati. Il campo si svuota dopo l’11 settembre (il primo bombarda
mento) e poi si riemie, senza coercizione Con l’aiuto anche dei soldati
italiani sbandati. Con la liberazione, “gli affari delle cortigiane del campo
andarono magnificamente, era un momento molto favorevole” – c’era un bordello
nel campo, tennuto da un’ebrea ungherese, la signora Parkowski.
Ferramonti
fu un luogo di deportazione (confino) costruito appositamente, con decine di
baracche ordinate in fila. Ma fu un luogo speciale anche per le condizioni di
vita. Diretto da un prefetto, Paolo Salvatore, un ex ardito di D’Annunzio a
Fiume, esperto di prigioni-confino a Ventotene e a Ponza. Guardato da
carabinieri e militi, pochi e non intromissivi. Al comando del maresciallo
Gaetano Marrari, che interveniva solo per evitare danni ai confinati. C’era il
filo spinato attorno al campo, ma si poteva oltrepassare senza problemi. La
vita scorreva normale a Ferramonti malgrado l’isolamento, e le ristrettezze.
La
posta arrivava, e veniva spedita. Il cibo veniva distribuito regolarmente. I
confinati ricevevano il soldo, come i militari: la “decade”, sessantacinque
lire – che nel tempo fu anche aumentata, a ottanta lire. Se sposati, e molti si
sposavano per questo, potevano avera una casa per sposati, una stanza privata
invece della camerata a venti o trenta. Un campo di baracche, faticoso come può
essere una comunità ristretta, un villaggio, per gente urbanizzata, ma
incredibilmente vispo per quegli anni di guerra, pulito quanto possibile –
quando Nina, che prima dell’internamento viveva a Milano, lavorando come
modella per pittori famosi, Albertosi e Carminati, mentre leggeva e scriveva, si
avventura per curiosità fino a Tarsia,
ne ritorna tramortita, dall’indigenza.
Un
racconto vivace, e diverso. Incomprensibilmente isolato e quasi trascurato. Non
c’è racconto di vita di internati ebrei durane la guerra, testimonianza,
ricordo, che non sia accettato e letto. Di questo, che pure è di grande
lettura, è stata trascurata la traduzione e poi la diffusione. Nina Weksler,
autrice di molte narrazioni, l’ha ottenuta in tarda età, quando col marito
hanno deciso di passare gli ultimi anni in agro di Cosenza, da un editore
locale – quasi una memoria a Cosenza. L’edizione è peraltro curata e ben
presentata. Molte fotografie documentano il racconto.
Nina
Weksler, Con la gente di Ferramonti,
Editoriale Progetto, pp. 248, ill. € 15
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