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La guerra è brutta, tanto più se grande
Una
prima versione del “Viaggio al termine della notte”? Un racconto altrettanto
cruento e grottesco, della Grande Guerra vissuta come un macello. Per i reduci
un caso di “mai più”, di “der des der” in francese l’ultima delle ultime”. Più
autobiografica del romanzo poi famoso. Ma già racconto compiuto, che si fa
leggere non solo per “obbedienza” céliniana. Le pagine iniziali, sul cavaliere
atterrato e ferito al braccio e alla testa, che si aggira dolente tra cadaveri
e carcasse, tra le pozzanghere profonde scavate dagli obici, masticando sangue,
sono eccezionali.
“Guerra”
è uno dei due abbozzi di romanzo inediti, l’altro s’intitola “Londra”, che sono
riemersi fra i 5.234 fogli autografi scomparsi dalla casa dello scrittore a
Montmartre nel giugno del 1944, quando Céline, temendo rappresaglie alla
Liberazione, si era rifugiato in Germania – poi in Danimarca. Un Jean Pierre
Thibaudat, che li aveva ereditati da chi li aveva sottratti, nel 2021 li ha
restituiti agli eredui dei diritti Céline.
C’è
già la frasetta, musicale, ipnotica – il “parlottio ipnotico, sbracato e
ininterrotto”, dice la nota editoriale. Non ci sono i punti di sospensione,
l’invito al lettore a concludersi il discorso (sono rari, lasciano aperta la
battuta in conversazione). C’è il lessico composito, con parole rare o di
gergo, militari, medicali, malavitose, argotiche, adattate – l’edizione
francese si correda di un lungo “lessico della lingua popolare”, ma alcune
forme espressive sono già céliniane. E c’è la guerra, cruda, sporca, senza mai
una nota d’eroismo o solo d’onore. La guerra è sporcizia, sangue, sofferenza,
morte. Il tutto nel registro già grottesco, senza eroismi né sentimentalismi, e
mescolato ai rifiuti: il malavitoso che fa venire la moglie al fronte per
guadagnarci su qualcosa, infermiere che manipolano libidinose i dissanguati
pazienti, comandanti scemi, traffici di ogni tipo disonorevoli.
“Alla fine”, può concludere il risvolto,
“attraverso il suo delirio, ci si accorge che Céline è l’unico scrittore che
sia stato capace di nominare quegli avvenimenti”, i massacri piccoli e grandi
della Grande Guerra: “Dalla parte dei Buoni nessuno ha trovato la parola”. Non
si pone mai mente alla mentalità del reduce, che perseguita Céline come ogni
altro, lui ferito anche gravemente, che la guerra teme e denncia: c’è qui molto
che spiega i libelli sconvolti degli anni che annunciavano il secondo Grande
Macello.
È
però la”testimonianza” di uno scrittore. Un teatrante della parola. Ancora al debutto,
seppure in là con gli anni, e con le esperienze di vita. Il contesto è poco letterario,
è un ospedale da campo, al fronte. Ma la disposizione lo è, le scenografie, i
tipi umani, i dialoghi. Una pagina, a due terzi della narrazione, è un sottile duello
con Proust, non nominato, il romanziere del momento – il dottor Destouches
aveva le sue buone letture (quanto Céline resta da scoprire). Sulla
maniera di trattare i ricordi, di rivivere o raccontare il passato: “Bisogna
diffidarne. È puttano il passato, si scioglie nella fantasticheria”, si dà “piccole
melodie strada facendo che non gli si chiedevano”. La sua vuole essere un’altra
maniera di trattare i ricordi, di raccontare il passato, arrabbiata, militante.
Da outsider, si sarebbe detto qualche
anno dopo, e non ammansibile.
La
traduzione di Ottavio Fatica, che dopo cinquanta o sessant’anni può finalmente
cimentarsi col Céline narratore, ne rende la “musichetta”, il fraseggio. Ma con
un curioso effetto rispetto all’originale: come in falsetto, una musichetta che
si voglia stonata. Effetto probabilmente del fraseggio colloquiale
umbro-toscano che adopera - che, senza voler fare il Malaparte finto burbero
dei “Maledetti toscani”, va per il birignao: “sbrindelli”, “a spizzichi e
bocconi”, “montarozzi”, “a puntino”, “gnaulare”, “un pochettino!”, “gli
sgraffigno”, “cagnara nella crapa”, con mica” e “manco a dirlo”. Oltre al
“cazzi” intercalare dei social che ci perseguita, che destoricizza
(infantilizza).
Céline,
ha ragione lo stesso Fatica in “Lost in translation”, dove parla di questa sua
traduzione, non è rabelaisiano, eccessivo - non fa liste, non fa
moltiplicazioni. Céline è perfido. È quello del riso sardonico, amaro e
spietato: ricerca o crea la battuta più feroce, o più commossa. E brusco:
procede per accumulo – per piccoli episodi, immagini, sensazioni, aneddoti,
brevi o troncati, eccessivi (l’infermiera dalla mano lunga, il magnaccia
furbo-scemo, la moglie prostituta del magnaccia, che gode anche dodici volte di
seguito, la bella camerierina dura a pizzicare e scema, le trincee e le
“cavallerie” – gli “avanti, miei prodi” contro le mitragliatrici e gli obici ad
alzo zero). È uno che veramente la vita, sua e degli altri, sentiva pericolosa
e insensata – senza bisogno di filosofarla, come Camus e Sartre faranno più
tardi, con sintassi di scuola. E la petite
musique che qui per la prima volta adotta, se questo “Guerra” è un abbozzo
del “Viaggio”, è un primo segno dell’appassionata irrisione, verso la vita e
gli esseri, che sarà il suo “stile”, parola aborrita-prediletta, il suo marchio
di fabbrica (non ancora la petite musique
“ariana” che rivendicherà micragnoso nei libelli di fine anni 1930).
I
suoi “staccato” come le sue ariette e recitativi colloquiali sono veramente
calchi o copie del popolaresco. Riccardo De Benedetti lo ricostruiva qualche
anno fa a proposito di “Bagatelle”, il primo degli opuscoli antisemiti. Lavorando sulla traccia aperta
da Emmanuel Mounier, che recensì l’opuscolo su “Esprit” documentando
puntiglioso le fonti di una trentina di passi in due opsucoli “dello stesso genere di quelli che si vendono all’uscita dei
metrò, con le liste degli ultimi numeri del Lotto e le illustrazioni
pornografiche”, e in “Israele, il suo passato, il suo avvenire” di H. de Vries
Heekelingen, antisemita blando del filone “gli ebrei meglio in Israele”). L’animus è invece cattivo. Angosciato, già
nichilista – Ferdinand, il futuro Bardamu, racconta in presa diretta ma già da
medico, anche se non lo sa (non lo dice), da fisiologo e anatomista. E già
molto umano, da medico di base di periferia, medico dei poveri.
L’edizione italiana è corredata dalla prefazione di François
Gibault, il biografo di Céline, e dal nota del curatore Pascal Fouché. Con un
indice dei nomi e dei personaggi, una nota del traduttore, e alcuni facsimile
del manoscritto.
Louis-Ferdinand
Céline, Guerra, Adelphi, pp. 160 €
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