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La Nuova Politica Americana - 1
L’Italia
– la Nato, l’Occidente – è in modalità “Nuovo Washington Consensus” e non lo
sa? Non lo sanno i cittadini, o i media, e neanche il Parlamento, ma è il tema
alla Farnesina, il ministro Tajani non escluso. Non è veramente un “consensus”,
non c’è stata discussione né coordinamento, ma è come gli Stati Unti vedono il presente
e il futuro. Gli Stati Uniti di Biden, che però sul tema sono anche quelli di
Trump. È una sorta di Nuova Politica Americana che è in corso, da tempo e ben strutturata,
anche se non lo sappiamo.
Per
“Nuovo Washington consensus” s’intende propriamente la dottrina enunciata dal
consigliere di Biden per la Sicurezza Nazionale, Jake Sullivan, capo del Nsc,
National Security Council, alla Brookings Institution di Washington il 27
aprile. Tema: “Il rinnovamento della leadership economica americana”.
Sullivan,
47 anni, avvocato, sa poco di relazioni internazionali – quello che ha studiato
a Oxford, un semestre che fu in Inghilterra con una borsa di studio. Ma, da ex manager
della campagna di Hillary Clinton alle primarie vinte da Obama nel 2008, con la
stessa Clinton al dipartimento di Stato ebbe la direzione strategica della
politica estera americana, funzione nella quale si segnalò per l’uso spregiudicato
dei movimenti e le fazioni islamiche, compresa Al Qaeda.
Il
discorso del suo “Nuovo Washington Consensus” è semplice e diretto. In quattro
punti. Con una notevole premessa, non detta: che il conflitto in Ucraina, in
Europa, non è problema strategico, di lungo periodo e di largo impatto - non per gli Stati Uniti.
Il
primo punto è una critica al liberismo. Alle “idee che sostenevano il taglio
delle tasse, la deregolamentazione e la privatizzazione a scapito dell’azione
pubblica, e la liberalizzazione del commercio fine a se stessa”. L’effetto è stato
che “intere catene di approvvigionamento di beni strategici” sono dipendenti
dall’estero, quando non si sono “spostati interamente all’estero”.
Il
liberismo, secondo punto, ha compromesso la “competizione geopolitica e di sicurezza”. Presupponeva
che “l’integrazione economica avrebbe reso le nazioni più responsabili e
aperte, e che
l’ordine
globale sarebbe stato più pacifico e cooperativo”. Non è così. La Cina continua
a sovvenzionare
in modo massiccio” le sue industrie, sia le tradizionali che le innovative. L’integrazione
economica non ha ridotto le ambizioni militari della Cina come della Russia.
Al
terzo punto la crisi climatica. La transizione non è una punizione, una scelta
tra “crescita” economica o del benessere e “clima”. Gli Stati Uniti possono e
devono farne una “strategia d’investimenti deliberata”.
Al
quarto punto il tema più delicato: “la sfida della disuguaglianza”. È fallito il
presupposto della globalizzazione, che i suoi benefici sarebbero stati “condivisi
all’interno delle nazioni”. Non è stato così negli Stati Uniti, per tre fatti
incontestati: “la classe media americana ha perso terreno”, si è impoverita
proporzionalmente; “i centri manifatturieri americani si sono svuotati”; molte
industrie nuove sono state trasferite all’estero per accrescerne l’efficienza.
Se
le mutate condizioni indotte dal liberismo sono chiare, anche i rimedi che la
strategia americana ha individuato e avviato lo sono. Ma implicano un riassetto
delle relazioni con i partner europei, Nato, occidentali (Giappone, Corea del Sud
e Taiwan compresi).
(continua)
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