venerdì 9 giugno 2023

La Nuova Politica Americana - 1

L’Italia – la Nato, l’Occidente – è in modalità “Nuovo Washington Consensus” e non lo sa? Non lo sanno i cittadini, o i media, e neanche il Parlamento, ma è il tema alla Farnesina, il ministro Tajani non escluso. Non è veramente un “consensus”, non c’è stata discussione né coordinamento, ma è come gli Stati Unti vedono il presente e il futuro. Gli Stati Uniti di Biden, che però sul tema sono anche quelli di Trump. È una sorta di Nuova Politica Americana che è in corso, da tempo e ben strutturata, anche se non lo sappiamo.
Per “Nuovo Washington consensus” s’intende propriamente la dottrina enunciata dal consigliere di Biden per la Sicurezza Nazionale, Jake Sullivan, capo del Nsc, National Security Council, alla Brookings Institution di Washington il 27 aprile. Tema: “Il rinnovamento della leadership economica americana”.
Sullivan, 47 anni, avvocato, sa poco di relazioni internazionali – quello che ha studiato a Oxford, un semestre che fu in Inghilterra con una borsa di studio. Ma, da ex manager della campagna di Hillary Clinton alle primarie vinte da Obama nel 2008, con la stessa Clinton al dipartimento di Stato ebbe la direzione strategica della politica estera americana, funzione nella quale si segnalò per l’uso spregiudicato dei movimenti e le fazioni islamiche, compresa Al Qaeda.
Il discorso del suo “Nuovo Washington Consensus” è semplice e diretto. In quattro punti. Con una notevole premessa, non detta: che il conflitto in Ucraina, in Europa, non è problema strategico, di lungo periodo e di largo impatto - non per gli Stati Uniti.  
Il primo punto è una critica al liberismo. Alle “idee che sostenevano il taglio delle tasse, la deregolamentazione e la privatizzazione a scapito dell’azione pubblica, e la liberalizzazione del commercio fine a se stessa”. L’effetto è stato che “intere catene di approvvigionamento di beni strategici” sono dipendenti dall’estero, quando non si sono “spostati interamente all’estero”.
Il liberismo, secondo punto, ha compromesso la “competizione geopolitica e di sicurezza”. Presupponeva che “l’integrazione economica avrebbe reso le nazioni più responsabili e aperte, e che
l’ordine globale sarebbe stato più pacifico e cooperativo”. Non è così. La Cina continua a sovvenzionare in modo massiccio” le sue industrie, sia le tradizionali che le innovative. L’integrazione economica non ha ridotto le ambizioni militari della Cina come della Russia.
Al terzo punto la crisi climatica. La transizione non è una punizione, una scelta tra “crescita” economica o del benessere e “clima”. Gli Stati Uniti possono e devono farne una “strategia d’investimenti deliberata”.
Al quarto punto il tema più delicato: “la sfida della disuguaglianza”. È fallito il presupposto della globalizzazione, che i suoi benefici sarebbero stati “condivisi all’interno delle nazioni”. Non è stato così negli Stati Uniti, per tre fatti incontestati: “la classe media americana ha perso terreno”, si è impoverita proporzionalmente; “i centri manifatturieri americani si sono svuotati”; molte industrie nuove sono state trasferite all’estero per accrescerne l’efficienza.
Se le mutate condizioni indotte dal liberismo sono chiare, anche i rimedi che la strategia americana ha individuato e avviato lo sono. Ma implicano un riassetto delle relazioni con i partner europei, Nato, occidentali (Giappone, Corea del Sud e Taiwan compresi).
(continua)

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