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Un inno all’Italia - famiglia e cucina
Una
celebrazione lieve e salda della famiglia, delle radici, anche trasposte nello
stato di New York sotto gli Appalachi, e di una cucina familiare, ancestrale. Non
il solito libro di ricette, ma il racconto delle stesse garbato e spigliato,
legato a storie (ricordi, aneddoti, figure, battute). E una celebrazione
dell’Italia, di ingredienti tutti italiani, quasi tutti, presentati e
raccomandati con sapienza narrativa. Per il gusto, anch’esso tradizionale,
familiare, di genitori e nonni, dell’aneddoto.
Un
libro di cucina, italiana, calabrese, raccontata. Di ingredienti e piatti
semplici. A partire dalla pasta aglio e olio. Continuando con la pasta e
lentichie, la pasta e fagioli – la pasta e fagioli al recupero miracoloso della
sensibilità, dopo un cancro alla gola, la resezione e le terribili terapie. Ma
non senza sorprese. Bitto, in Valtellina, è il formaggio più caro del mondo,
seimila dollari per una forma di venti chili. E nella carbonara solo guanciale,
niente pancetta – la carbonara è quella di “Pommidoro” a San Lorenzo a Roma, la
trattoria venuta alle cronache l’ultima notte di Pasolini, ma tenuta con mano germa
da un vecchio ristoratore, Aldo Bravi. E l’andouille
che non finisce di fare sfracelli – qui ricordata beffardamente non come la
calabrese nduja, ma come la normanna andouillette, diminutiva, gentile parola
per “un membro di cavallo da tiro”, un avambraccio riempito di robaccia, di maiale e di vitello, con strutto, gelatina, grasso vaccino, pangrattato. Con personaggi e storie di gusto, è il caso
di dirlo. Un atto d’amore e una perorazione elegante di tutto ciò che è
italiano, dal pane al garbo, in famiglia e con gli estranei – anche se “il
miglior pane italiano è in Francia”. Una promozione, gratuita, del made in Italy alimentare, di attrattiva enorme: argomentata,
condita di aneddoti attraenti.
Una
apologia anche, semplicemente esposta e non discussa, ma appassionata, della
famiglia. Attorno al tavolo da pranzo, sempre cucinato, tutti insieme a tutti i
pasti. Del cibo italiano e del cibo calabrese, quello dei genitori e dei nonni,
paterni e materni. Come era – come è per Tucci. Degli “umili piatti che hanno
viaggiato dalla Calabria agli Stati Uniti e a Londra, e ora, per dirne una, in
pensione da me in un piccolo bungalow
nel Lake District inglese, dove hanno nutrito un nuovo set di persone che hanno
appena incrociato la mia vita”. Di abitudini alimentari. Compreso il “fare i
pomodori” e le altre conserve in casa – del “fare i pomodori” imortala la
procedura tradizionale, la sola probabilmente ancora leggibile. E di abitudfini
mentali. La madre deve “fare qualcosa” mentre guarda la tv (“si perde il
tempo”): rassettare, stirare, riordinare la biancheria, dialogare col figlio,
tenersi aggiornata su di lui. Lo stesso fa il figlio.
Tucci è attore di teatro, e di film, da “L’onore dei Prizzi” (John
Houstn) a “ILbacio dela morte”, “Era mio padre”, “Il diavolo veste Prada”, “Le
streghe” (Zemeckis) - e di molti altri “del cui nome”, come dice alla
Cervantes, “non intendo ricordarmi” (quelli, di solito, che lo hanno impegnato
più a lungo e lo hanno fatto guadagnare di più: c’è una correlazione). Autore,
regista e conduttore (alla Mario Soldati, che però non ricorda), prima di
questo tribute all’Italia, di “Searching for Italy”, la serie documentaria della Bbc sulla cucina regionale in Italia,
girata prima del covid, nel 2019-2020. Già celebre per un film di culto
sull’arte culinaria, “Big Night”, subito celebrato, come il classico “Babette’s
Feast”, oggi introvabile se non a prezzo elevato, su due fratelli abruzzesi e
il loro sogno di cucina in America.
Un po’ noioso - curioso per un Americano – solo nella
perorazione contro la “modernizzazione” di New York indiscriminata
– con un risorante
“Per se”, nell’Upper West Side, dove il menù degustazione costa 355 dollari,
senza
vino, più l’iva al l’8,875 per cento – e un fee
stappo di 150 dollari
a bottiglia
per chi si porta il
vino da fuori.
Ma l’aneddotica ampiamente compensa. Di un anno a Firenze, con le sorelle e i genitori,
al seguito del padre in sabbatico (insegnante d’arte, aveva voluto fare un anno
all’Accademia di Belle Arti), ricorda di essere stato retrocesso in seconda
media, perché sapeva poco l’italiano, e di non avere avuto praticamente
lezioni: era il 1973-74, insegnanti, bidelli e segreterie erano per qualche
motivo ogni giorno in sciopero e lui farsi la girata – in bicicletta, un sogno
non americano. Ricorda anche il cameriere del ristorante vicino
Termini a Roma, dove avevano pernottato due notti sbarcando dall’America per
visitare San Pietro e il Colosseo, il quale, al ritorno dopo un anno a Firenze,
salutò le sorelline per nome.
Un
diario di civiltà. Con molti dialoghi, di linguaggi ora probabilmente pe enti
benché pregni, di significati, emozioni, intenzioni. Soprattutto delle
conversazioni familiari, che rianima: che sembrano ripetitive e stupide e
invece trasmettono una civiltà, di mutuo interesse per ogni questione, piccola
e grande, e di garbo (rispetto reciproco).
Il
segreto – il tributo non detto anche se insorgente a ogni piega – è la madre,
Joan Tropiano. Laureata, occupata da segretaria, scrittrice, che non fa mancare
ai figli un pasto, a pranzo e a cena, e pubblica due libri di cucina di
successo, “Cucina&Famiglia”, e “The Tucci Cookbook”.
Un
libro felice, anche per il lettore.
Stanley
Tucci, Ci vuole gusto. La mia vita
attraverso il cibo, Baldini + Castoldi, pp. 320, ril. € 20
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