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Come vincere la malinconia, da sradicati
Scherzi,
“Il poeta dimenticato”. Ricordi familiari, “Primo amore”, la moglie “Elena”
invece che Vera, “la figlia” invece del figlio Dmitri. La passione per i
lepidotteri, “L’Aureliano”, e un po’ ovunque. Memorie pietroburghesi
disseminate qua e là: le automobili col muso, silenziose (le prime erano
elettriche), gli abiti a trenta bottoni,
i tram a cavallo - “il tempo è il riflusso” (“Mademoiselle O”). Traversie da
russi apolidi: commissariats,
domande, domande per spiegare le domande, e attese - “L’atreplice”, “Quadro di conversazione, 1945”. I
vaneggiamenti dell’amore: “Una bellezza russa”, “Primavera a Fial’ta”, il
crudele “Che una volta in Aleppo…”, l’amorevole “Segni e simboli”. Il grande
stomaco russo: i generali, i pogrom, “Scena dalla vita di un doppio mostro”. E
più spesso il nulla. Il viaggio vinto alla lotteria, tra emigrati, con compagni
sconosciuti (“Nuvola, lago, castello”,…), la vita degli émigrés, povera e furfantesca (“L’assistente del produttore”), Lancillotto
nello spazio, tra le stelle (“Lance”).
Racconti
piani, in genere senza finale (sorpresa). Molta ironia, sparsa con leggerezza
ma incomprimbile - “l’era
dell’Identificazione e Tabulazione”, “lo
Zio Sam e i suoi Rooseveltiani occhi blu”, il mondo vissuto da specie
transeunti. Il russo nato nell’affluenza e il potere, tra saloni, dacie,
governanti e viaggi “in Europa”, Wiesbaden a cinque anni, Biarritz a dieci, finito
ramingo e quasi indigente, orfano di padre
assassinato, vittima delle burocrazie, specialmente feroci con i sans papiers, a caccia perpetua di un
impiego decente, si salva con lo sguardo distaccato. Perseguitato (protetto?)
dalla memoria sempre e ovunque. E quindi dalla Russia, in qualche modo. Compassionevole.
Anche con i generali – quelli oggi di Putin non sono un’invenzione: grassi,
lenti, abulici. La realtà-irrealtà. Tanto precisa, circostanziata, datata,
quanto indefinita. Che il personaggio femminile, diverso, inattingibile,
esemplifica e moltiplica. Uno psicologo (o un neurologo?) direbbe: come vincere
la malinconia, da esuli volontari oppure ostracizzati, comunque sradicati.
Temi
crepuscolari, a parte qualche brio d’ironia, che è il fondo di Nabokov.
Talvolta per questo sorprendenti. Si fa negazionismo in salotto a New Yorl nel
1945 (“Hiltler era buono e bravo”….). Una White Warriors Union, nell’edizione
anglo-americana, la banda poco poco affidabile russi Bianchi, antisovietici
emigrati, scimmiotta la WWI americana, l’internazionale dei lavoratori. Nella
Russia attanagliata dalle rivoluzioni si vendono per strada “Le avventutre del
marchese de Sade” e le “Memorie di un’Amazzone”. Non manca l’amato Cechov del
Nabokov professore - dopo Puškin:
“L’erompente dama di Cechov che moriva per essere descritta”. E della
Germania, da russo fuoriuscito accolto per molti anni a Berlino, profetizza che
“con tutti i suoi molti neri peccati, rimane lo zimbello del mondo”. Il mondo variegato dei tanti
russi (siamo alla terza ondata in un secolo) cittadini del mondo.
Nabokov
manca ancora di un’edizione critica. Gli slavisti non se ne occupano, gli
americanisti nemmeno. Si pubblica quello che il figlio Dmitri ha curato – e in
molti casi ha tradotto, da cantante d’opera italianista. Difficile quindi
“sistemare” la raccolta nell’opera sua.
Sono
racconti scritti prevalentemente in inglese. O tradotti in inglese dallo stesso
Nabokov per la pubblicazione in libri e raccolte. Tre racconti erano stati scritti
originariamente in russo: “L’Aureliano”, Primavera a Fi’alta” e “Nuvola,
castello, lago”. Uno, “Mademoiselle O.”, era stato scritto in francese. Solo
“Mademoiselle O.” e “Primo amore”, avvertiva Nabokov in precedenti edizioni dei
racconti in America, “sono (eccetto che per i nomi cambiati) rispondenti in
ogni dettaglio alla vita dell’autore come la ricorda”.
Sarà
stato un problema per i traduttori, Franca Pece, Anna Raffetto, Ugo Tessitore.
E per l’editore: tradurre Nabokov dall’inglese, dalle traduzioni-adattamenti in
anglo-americano, o anche dal russo, e dal francese? La traduzione è l’attività
che ha maggiormente occupato lo stesso Nabokov, più probabilmente della caccia
e la cura delle farfalle. Uno scrittore che si può dire traduttore, dell’“Onegin” di Puškin tutta la vita, e nella
seconda vita dei suoi innumerevoli racconti e romanzi in anglo-americano.
Come
in “Lolita” e gli altri titoli famosi, anche nei racconti la frase è sempre
elaborata. Queste traduzioni attutiscono l’elaboratezza, gli “originali”
americani curati e licenziati da Nabokov al contrario la accentuano. Per il
vocabolario, preciso ma poco colloquiale, e frasi brevi che invece di
semplificare complicano, divagano – sembrano divagare alla prima lettura. Una
accuratezza-divagatezza si direbbe alla Henry James, quasi una parodia. Ma
fuori tempo e forse per questo legnose? È il problema che Edmund Wilson aveva
sollevato sul Nabokov “americano” – un’osservazione che ruppe un’amicizia.
Vladimir Nabokov, Una bellezza russa e altri racconti, Adelphi, pp. 758 € 38
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