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Cronache dell’altro mondo – anti-affirmative (239)
La Corte Suprema degli
Stati Uniti ha condannato la “affirmative action” nelle procedure di ammissione
all’università in favore delle “razze colorate”, come contraria al 14mo
Emendamento – il disposto costituzionale della “equa protezione”, tutti gli
esseri umani, dovendosi trattare, a prescindere dalla razza, alle stesse
condizioni davanti alla legge.
La Corte ha rovesciato, in
una delle tante cause avviate da giovani “bianchi” contro le università, in
questo caso contro Harvard e contro l’università della North Carolina, il principio
su cui la “affermative action” era stata introdotta nel 1965, a protezione
degli svantaggiati, essenzialmente i giovani di colore.
La Corte ha rovesciato la lettura
delle statistiche prodotte nella difesa di Harvard. Prendendo il caso degli
studenti candidati all’ammissione con un punteggio rientrante fra il 10 per
cento migliore. Un asiatico (la “affirmative action” prescrive che i candidati
si classifichino razzialmente)avrebbe il 12,7 per cento di possibilità di
entrare a Harvard. Un bianco il 15,3 per cento. Un ispanico il 31,3. Un nero il
56 per cento.
Allargando le maglie, un
bianco che rientrasse nel miglior 40 per cento dei canddati avrebbe meno del 2
per cento di possibilità di essere ammesso. Un asiatico meno dell’1 per cento.
Un ispanico meno del 5 per cento. Un nero il 12,8 per cento. Un nero, cioè, che
rientrasse nel 40 per cento avrebbe avuto più opportunità di un asiatico che si
fosse classificato nel miglior 10 per cento.
La decisione della Corte, a
maggioranza conservatrice, non è stata criticata questa volta come reazionaria.
La politica universitaria di “affirmative action”, nota anche come “azione
positiva” o “discriminazione positiva”, è emersa negli Stati Uniti, su
inziativa del presidnte Lyndin Johnson, nel 1964 e nel 1965, nell’intento di
favorire il miglioramento sociale delle comunità marginalizzate. Nel caso delle
università si era tradotta in un accesso di favore per i giovani di famiglie razzialmente
disagiate o discriminate, che però si concludeva il più delle volte, secondo
un’inchiesta dieci anni fa del magazine progressista
“The Atlantic”, con abbandono e dispersioni – cioè con costi per le famiglie
senza opportunità reali.
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