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Kennedy non deve morire – il Grande Complotto americano
Un
gruppo di uomini ex – più o meno: demansionati – della Cia dopo la fallita
invasione di Cuba nel 1962 vuole rifarsi con un fallito attentato a Kennedy, a
Miami, capitale dei cubani negli Usa, da poter imputare a Castro, per dare poi
una “vera lezione ai comunisti”. Cioè per invadere Cuba e cacciare Castro,
senza i tentennamenti (“tradimenti”) dello stesso Kennedy. Per questo occorre “un
cecchino con le credenziali”, capace di colpire il marciapiedi, la scorta, la berlina presidenziale
che procede a passo d’uomo, ma evitando il presidente. E che sia
stato comunista, e quindi da labellare castrista: Lee Oswald.
Una
storia vera, una delle più verosimili dell’attentato a Kennedy. Andato poi
male. “Noi non colpiremo Kennedy, noi lo mancheremo”, è la chiave del piano,
architettato da Walter “Wim” Everett, Cia in disgrazia. L’attentato a Kennedy come “un colpo al cuore del nostro governo”, tale da costringerlo ad annientare
Cuba. Sarà la “soluzione elegante” che gli scienziati vogliono ai problemi per
dirli risolti. Tale da costringere lo stesso Kennedy, cui i
congiurati imputano il fallimento della Baia dei Porci – il luogo di Cuba dove
gli anticastristi, e gli americani di supporto, furono annientati o fatti
prigionieri.
La
prima delle tre storie canoniche sull’attentato, pubblicata nel 1988. Più verosimile delle
altre due, “Un caso ancora aperto” (“The Story that won’t go Away”), il film di
Oliver Stone, 1991, e “American Tabloid” di James Ellroy, 1995. Il più
persuasivo e il meglio articolato, meglio caratterizzato oltre che documentato –
con testimonianze, si suppone, documentali, legali, mediatiche, ricordi,
incidenti, manie. Un po’ di tutti i personaggi, ma specialmente di Lee Oswald, seguito
passo passo - questa è la sua unica forse, comunque migliore, biografia. Anche di
Everett, il filo conduttore della storia, lo spessore è notevole. E di molte
spie storiche, spesso doppiogiochiste, anche triplogiochiste. Per la notazione,
anch’essa a inizio racconto, sulla triste arte dello spionaggio: “È così che
andremo a finire, pensò”, pensa Everett, spia e golpista, “a spiare noi
stessi”.
Sappiamo
dall’inizio la trama. E sappiamo dalla cronaca come è finita male. Non è quindi
un thriller. Eppure si fa leggere,
scorrevolissimo, e tutto quanto è fitto, senza saltare: scene, dialoghi,
antefatti, e documenti, dichiarazioni, testimonianze. Anche se un indice dei personaggi,
essendo la narrazione frammentata nei tempi e nelle vicende, avrebbe aiutato –
chi è chi. Come pure qualche nota esplicativa – sull’U-2 per esempio, sul quale
si esercita e nasce la particolare “intelligenza” di Lee Oswald, e il suo
rilievo per i servizi segreti, russi e quindi americani.
Il
romanzo procede per più rivoli, ma è, si vuole, la storia di un fatto preciso,
l’attentato a Kennedy, finito col suo assassinio. Non si vuole un romanzo
storico, corale, di una società e un’epoca. Sotto questo aspetto è solo un
racconto dell’oscenità dello spionaggio, del “mondo della Cia”, specie in quegli
anni. E tuttavia, pur essendo un racconto circostanziato, di un fatto preciso,
senza elucubrazioni sociologiche o sociopolitiche, è un romanzo della storia
come complotto, che pure dovrebbe contestare. C’è in America una complottomania,
vecchia ormai di mezzo secolo, dall’attentato a Kennedy, di cui ora si fa colpa
alla destra reazionaria, ma che nasce a sinistra, come qui con Delillo (al tempo del film su Kennedy anche Stone era a sinistra) - senza peraltro mai incidere,
perlomeno riflettere, sui veri crimini
americani. A differenza per esempio che in Italia, dove a partire da piazza
Fontana, sei anni dopo Kennedy, la storia si è sicuramente annebbiata, ma pure
molti punti oscuri si è riusciti a chiarire, e comunque la stagione dei
complotti, del terrorismo invasivo, di destra, di sinistra, di Stato, è durato
una dozzina d’anni, una parentesi, non un modo di pensare e forse di essere - o senza forse.
Don
Delillo, Libra, “Corriere della
sera”, p. 429 € 8,90
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