Letture - 525
letterautore
Adelphi
–
La casa editrice è una miniera, di inventori. Ogni poco una scoperta. Ora Di Stefano fa
la scoperta di Claudio Rugafiori, che “faceva” i libri con Morante e con
Calvino. E ha creato il marchietto. Dopo Luciano Foà. Dopo Calasso. Dopo Bazlen,
in memoriam.
Però fa piacere che personaggi
dell’editoria abbiano due pagine sul “Corriere della sera”, anche se non belli,
molto meglio di influencer, volti tv (?) e cantanti, che solitamente riempiono
il giornale: sanno di esotico.
Cimiteri
italiani –
Sartre li adora, in una pagina insistita di “Le parole” (74) sui morti in famiglia
e sui funerali. Perché danno un senso di continuità, della morte vivente: “Per
questo motivo ho sempre amato, amo tuttora i cimiteri italiani: la pietra vi è
tormentata, è tutto un uomo barocco, un medaglione vi si incrosta, inquadrando
il defunto, che richiama il defunto nel suo primo stato”.
Corneille
–
Sartre adulto (“Le parole”, 128) ne fa un ritratto cattivo, descrivendo la sua
decisione a dieci o dodici anni di diventare scrittore – di diventare scrittore
di successo, non più epico, “un Pardaillan invece di Corneille” (i Pardaillan
erano il ciclo di maggior successo dello scrittore di successi Zévaco): “Trasformai Corneille in Pardaillan;
conservò le gambe storte, il petto stretto e la faccia di quaresima, ma gli tolsi
l’avarizia e il gusto del guadagno”.
Cookies
–
Oggi una delle mille idiozie che la privacy fa pagare per non avere nessuna privacy - siamo seguiti e registrati fin
nel sonno, oltre che al bagno, per non dire in camera da letto - è termine culinario, per dolcetti. L’inutile
richiesta affligente di consensi a non si sa che cosa aprendo un qualsiasi sito
è già in “Lance”, il racconto “fantascientifico” di Nabokov, che non amava la
fantascienza e i gialli (“Lance” in realtà il è Lancillotto del “romanzo
medievale” franco-germanico, annota lo stesso Nabokov, che opportunamente nel
Novecento naviga tra le stelle), e ne concludeva la critica in questi termini:
“Sono come i dolcetti assortiti che differiscono l’uno dall’altro solo in forma e ombreggiatura, con
le quali i loro abili manipolatori irretiscono il consumatore goloso in un
folle mondo pavloviano, dove, senza sovrapprezzo, variazioni di semplici valori
visivi influenzano e gradualmente sostituiscono
il sapore”.
Manzoni
–
De Giovanni (“La Lettura” di ieri) lo vuole liberare, anche lui. Ma per un
motivo plausibile: “Se fossi Manzoni chiederei soltanto il piacere di essere
letto come romanziere. È qualcosa che ha a che fare con la tragica modalità con
cui la scuola propone la narrativa, che è come spiegare il sesso attraverso la
dissezione degli organi genitali, una cosa ributtante”.
Misteri
–
“I romanzi fanno paura ai misteri”, può titolare “La Lettura” una lunga
conversazione con i due giallisti principe, Lucarelli e De Giovanni. De Giovanni
fa un esempio: “Inventare una trama narrativa può aiutare, per esempio, a
capire cosa accadde a Ustica”. Se non che cosa accadde a Ustica è noto da subito
– cosa accadde veramente. Il dopo-Ustica pure. Il romanzo avrebbe potuto imbellire,
forse, le due vicende: impossibile rappresentarne la sordidezza, sono senza
respiro - mancherebbe la necessaria catarsi. I misteri sono irredimibili.
Otto-Novecento
–
Il secolo del teatro l’Ottocento, il secolo del cinema il Novecento Sartre
caratterizza in “Le parole”, ricordando la golosità sua e della madre per le immagini
in movimento, ogni pomeriggio in tutte le sale di Parigi, quando aveva sui
dieci anni: “I borghesi dell’ultimo secolo non hanno mai dimenticato la loro prima
serata a teatro e i loro scrittori si sono incaricati di ricordarne le circostanze”
– il sacro sipario si leva, gli spettatori si sentono a corte, “gli ori e le
porpore, i fuochi, i belletti, l’enfasi e gli artifici mettevano il sacro fin
nel crimine”. Negli intervalli, “spettacoli” di nobiltà e vanità. Poi stacco radicale: “Sfido i miei coetanei a dirmi la data del loro primo incontro col
cinema”. Spettacolo per tutti, al buio,
che “prefigurava la nostra barbarie”: “Entravamo alla cieca, in un secolo senza
tradizioni che doveva segnalarsi per le cattive maniere”, e la nuova arte, “il
cinema, l’arte plebea, prefigurava la nostra barbarie”.
Sartre, curiosamente, ha sempre provato
col teatro, che seguiva, commentava, frequentava, anche fuori scena, scriveva, e
mai col cinema – non si ricorda una sua critica, un soggetto, anche una sola
amicizia o frequentazione , mai un’attrice, fra le tante donne che ne
ingombravano la giornata. Era uno Ottocento?
Parodia
–
Ha funzione seria – seriosa – secondo il suo cultore e mistagogo Umberto Eco:
“Una delle prime e più nobili funzioni delle cose poco serie è di gettare un’ombra
di diffidenza sulle cose troppo serie- e tale è la funzione seria della
parodia” (“Nota all’edizione 1975” di “Diario minimo”, riproposta nella
riedizione corrente).
Pastiche – È la parodia
di una scrittura, uno stile – Proust ne era maestro (le parodie raccolse in “Pastiches et
Mélanges”, che tuttora sono saporite). Si attaglia al pastiche la nota di buon cuore che Eco dà alla parodia: “Non sempre
una parodia si esercita su un modello che considera negativo; sovente parodiare
un testo significa anche rendergli omaggio” (ib.).
Poetesse
–
Sorpresa, sono escluse dalla poesia del Novecento, dalle migliori antologie, di
Gianfranco Contini, Edoardo Sanguineti, Pier Vincenzo Mengaldo, Cesare Segre e Carlo
Ossola. Le più progressiste comunque, teoricamente non sessiste. Per gli
editori Rizzoli, Mondadori, due volte Einaudi (Sanguineti e Ossola-Segre).
Riso
–
Il riso è proprio dei pazzi, diceva Baudelaire – e Umberto Eco concorda: “il
riso è satanico, e dunque profondamente umano” (citaz. in esergo all’ “Elogio di
Franti”, in “Diario minimo”). Se è vero, aveva spiegato il poeta, “che il riso
umano è intimamente legato alla disgrazia di un’antica caduta, di una
degradazione fisica e morale”. Di cui trovava conferma a teatro: “Tutti i furfanti
da melodramma, maledetti, dannati, fatalmente segnati da un sogghigno che
arriva alle loro orecchie, rientrano nella ortodossia pura del riso”.
Sartre
–
Nella autoanalisi che si fa ne “Le parole”, 1965, si dice nato “segnato”.
Segnato dalla sconfitta del 1870, in una famiglia luterana di lingua tedesca
che scelse la Francia, col cumulo conseguente di un bisogno permanente di
giustificazione: “Se ho commesso, in un
secolo di ferro”, il Novecento, "la folle bevuta di prendere la vita per una
epopea, è che sono un nipotino della sconfitta”.
Solo
contro tutti –
L’eroe duro e puro è il sogno borghese per
Sartre memorialista dell’infanzia (“Le parole”, 113): “Uno contro tutti:
era la mia regola”, da scrittore imberbe a dieci anni: “Si cerchi la sorgente
di questa fantasticheria triste e grandiosa nell’individualismo borghese e
puritano del mio ambiente”. Ma, allora, di una borghesia prima della “borghesia”
otto-novecentesca. Anzi eterna, poiché il mito ne è pieno.
Traduzioni
–
Sono rischiose. Jumpha Lahiri non cura le edizioni americane dei suoi racconti
italiani, li fa tradurre da specialisti. Nabokov, invece, che traduce in
americano i racconti russi, “russi” anche quando li scrive direttamente in
americano, “Lolita” compresa, sembra sempre a rischio imbalsamazione: parole
rare, costruzioni inconsuete, perfino i nomi propri sembrano falsi. Lo studio a
più voci sulle sue traduzioni, a cura di Chiara Montini, specialista del “clan
Nabokov”, si intitola “Traduzioni
pericolose (Scritti 1941-1969”- già il saggio biografico sul “clan”, sulla moglie
Vera e il figlio Dmitri, Montini aveva costruito attorno alla ”traduzione”.
letterautore@antiit.eu
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