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Sottoscrizione per Barbie (Mattel) al cinema
Barbie
ha pensieri di morte, di piedi piatti, di cellulite. Insieme con Ken decidono
che un bagno nel mondo reale può far bene. Se non che Ken, del mondo reale,
scopre e adotta il patriarcato. Di ritono a Barbieland è la disperazione,
Barbie si isola, sempre più, anche se comincia a fare amiche. Quando ha deciso
che tutto è finito e non c’è più speranza, la sua “mamma”, la creatrice di Barbie
(e di Mattel), Ruth Handler, tedesca, vecchia ormai, dopo sessant’anni di
Barbie, due mastectomie e un metro e mezzo di altezza, le spiega che la vita ha
un altro senso, e Barbie scopre la ginecologa. Con rimando inquietante alla Germania di Hitler, quando Ruth era bambina, di dolicocefale bionde.
Una
figurazione pop, alla Andy Warhol, di personaggi stagliati senza chiaroscuri, pastello
invece che a olio. Con movenze da cartone animato. Con un tentativo di commedia
musicale, presto abbandonato. E visi poco espressivi, se non per la figurazione
iniziale – a Ken nemmeno Ryan Gosling riesce a dare anima. Per una non-storia
di due ore - un lungo spot pubblicitario anche per altri marchi (la Barbie diventata donna esibisce le birkenstock).
In
America è un delirio, incassi record. Anche di critica – ““Barbie” è brillante,
bello, e divertente da morire” lo decreta l’altezzoso “New Yorker”. Allo
spettatore l’ardua sentenza. Quello che si vede è una promozione gigante di
Mattel, il gruppo dei giocattoli che con Barbie ha fatto fortuna, una sorta di universale
crowdfunding. Dopo un investimento di 145 milioni di dollari per la produzione (e non si vede perché, ne bastavano e avanzavano 14,5), e 100 per la promozione, durata un anno - un anno. Sapessero in America cosa barbina significa a Firenze.
Greta
Gerwig, Barbie
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