Giuseppe Leuzzi
Si scopre per la curiosità di un senatore americano
che i colori della bandiera, bianco, rosso e verde, erano i colori della
Repubblica Cispadana al tempo di Napoleone. Cosa che si sapeva. Ma che la
Cispadana li aveva adottati in quanto colori della Lombardia (la cosa,
perlomeno, è spiegata così dal sito del Quirinale, chissà): il verde della
guardia civica milanese, dal 1782, il bianco e rosso dell’“antichissimo stemma
comunale di Milano” (croce rossa su campo bianco). La Lega non lo sapeva, oppure
vanno bene una cosa e l’altra, il leghismo e la bandiera?
“Un ponte fra due cosche” è
una battuta per il ponte sullo Stretto di don Ciotti, il fondatore
e animatore di Libera, l’organizzazione che gestisce i beni sottratti ai
condannati per mafia. Un patrimonio enorme, di cui non si conosce la qualità
della gestione, né la destinazione dei risultati di gestione. Una gestione
peraltro assortita di cospicui aiuti pubblici. Il sacerdote conferma che il Sud
è vittima (anche) dell’antimafia. Una camicia di forza.
Nella Parigi a cavaliere
dell’Otto-Novecento, che molto s’immaginava mondi futuri, un Henry Le Bon
(pseudonimo per il re omonimo, Henry VI “Le Bon”) pubblicava nel 1890 un “L’an
7860 de l’ère chrétienne”, in cui s’immaginava gli alimenti sintetici e conflitti
giganteschi, tra la Francia e l’Inghilterra, e tra la Sicilia e l’Italia.
Il linguaggio dei gesti
“È dimostrato che, da sempre,
si è attribuita al movimento una forza immediata: la capacità di intendersi
attraverso i movimenti, infatti, venne prima del linguaggio. Un’intesa più che
sufficiente per un contatto, spesso più comprensibile della stessa parola
esplicita. Il fim muto e il teatro Kabuki ne sono una prova” – Ernst Jünger, “La
forbice”, § 99.
È il linguaggio del Sud, che
si vuole più economico. Quindi espressione del fanientismo meridionale - è topos anche del western, per semplificare l’indolenza chicana. Ma più articolato
e significativo di quello parlato, che
si disperde tra dialetto e lingua, nelle forme dialettali e nel dialetto italianizzato.
Più comprensibile o più carico di senso, un gesto, un messaggio forse indolente
o forse in vece di una parola che non si trova, forse di un giro di parole.
Ma era arte discorsiva, ora non più, sacrificata alla modernità – alla
forma compiuta, anche se inespressiva o poco espressiva, di valore legale. Oggi,
per via social, in forma prevalentemente di eufemismi, inversioni, paradossi,
interrogative, interrogative negative. Cioè parole non solo insignificanti (non
o poco significanti), ma incerte, e come un rifiuto del linguaggio, della comunicazione.
Una non assunzione di responsabilità di quello che si intende dire, che viene
lasciata all’interlocutore – che è una funzione del linguaggio, ma ancillare,
non se ne è la parte costituente. Ed è il rifiuto di responsabilità che invece
si imputa – si imputava - al “linguaggio del Sud”.
C’è anche una “linea della
palma” linguistica, che è montata al Nord, che ha soggiogato il Nord? La “linea
della palma” che monta era già troppo pretendere in termini di codici mafiosi –
il Sud non dovrebbe pretendere troppo di sé, non conta nulla.
Il tempo del Settentrione
Leopardi aveva antevisto
anche questo. In più passi dello “Zibaldone”, 867, 2333. Il primo
riferimento, 867, è molto chiaro, dopo un’estesa disamina del perché le civiltà, gli imperi, fioriscono e
poi decadono, a opera dei barbari – nel quadro del pessimismo della storia: “Che vuol dire che i
cosiddetti barbari… hanno sempre trionfato de’ popoli civili, e del mondo?...
Vuol dire che tutte le forze dell’uomo sono nella natura e illusioni; che la
civiltà, la scienza ec. e l’impotenza sono compagne inseparabili…”:“L’Europa tutta civilizzata sarà preda di quei mezzi barbari che la
minacciano dai fondi del Settentrione”. Conclusione
ribadita nel “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani”: “Sembra che il tempo del settentrione sia
venuto. Finora ha sempre brillato e potuto nel mondo il mezzogiorno. Ed esso
era veramente fatto per brillare e prepotere in tempi quali furono gli antichi.
E il settentrione viceversa è propriamente fatto per tenere al di sopra ne’
tempi della natura de’ moderni”.
Un pensiero che Leopardi
potrebbe avere mediato da Herder, dalle “Idee per la Filosofia della storia
dell’umanità”, del 1784-1791. Che trovava disponibile alla lettura in francese
nel 1828, nella traduzione di Edgar Quinet.
La mafia onnipotente è dell’antimafia
Salvatore Lupo non lo dice
più, si è forse stancato, ma ne dà i dati di fatto in breve, presentando la sua
ricerca sul “Mito del Grande Complotto”, dello sbarco Alleato in Sicilia in
combutta con la mafia, e la liberazione dell’Europa dal nazifascismo come opera
sicula, cioè della mafia – d’intesa e in alleanza con la mafia. Mito che, Lupo
non lo dice ma serve ricordarlo, è stato a lungo, e perdura, nella sinistra
politica in Italia, nel Pci e negli scrittori che si legano al Pci, come
Camilleri. Ma anche in chi, come Sciascia, può essere stato tutto ma sicuramente
non sovietista, non uno che credeva tutto in chiave di “guerra fredda”.
Il “complotto” nasce con
Michele Pantaleone, persona peraltro stimabile, un politico siciliano e gionalista,
interlocutore di Carlo Levi, combattente anti-separatista e antimafia, nel 1968
sul quotidiano di Palermo “L’Ora”, in una sua inchiesta di quattro puntate (a
quattro mani con “Castrense Dadò”, pseudonimo dell’avvocato Nino Sergi), e poi,
quattro anni dopo, nel primo libro della storia su “Mafia e politica”,
pubblicato via Levi da Einaudi.
Non se ne parla successivamente
molto, se non in chiave “guerra fredda”, nel Pci e dintorni. Fino alla
Commissione Parlamentare Antimafia. Sarà la prima Commissione Antimafia, presieduta
dal senatore democristiano Luigi Carraro di Padova, a fare nel 1976 della mafia
la mallevadrice, se non l’organizzatrice, dello sbarco Alleato. E poi ancora
l’Antimafia di Violante, che pure sapeva di cosa si parlava, interlocutore di
Falcone e di Caponnetto, il cui rapporto finale, nel 1993 (“nel momento della massima
minaccia portata da Cosa Nostra alla Repubblica”) ripeteva la conclusione di
Carraro. Malgrado ci fosse già una documentazione storica, pubblica, che la
smentiva.
Cronache della
differenza: Napoli
“Napoli è certamente la città
i cui abitanti parlano più ossessivamente di sé, e della collettività,
dell’ambiente, della cultura e della storia di cui fanno parte”, comincia cosi
Fofi, napoletano eccellente, la recensione-stroncatura sul “Sole 24 Ore
Domenica” di “Napoli stanca. 17 scrittori raccontano la città nascosta”,
l’antologia curata da Mirella Armiero. Cui il gironale dà il titolo: “Scrivi
Napoli, dici Napoli, ma come stanca Napoli!”. Fofi è arrabbiato, si sente. “In
questo senso sì, Napoli stanca, come
dice il titolo”.
Un solo atout Fofi riconosce alla sua città, che Napoli è un po’ Milano per “una comune massiccia
«gentrificazione»”. Che si pensa sia un complimento: il risanamento dei
quartieri degradati. O è un’altra polpetta avvelenata? Il risanamento dei
Quartieri Spagnoli, via dei Tribunali, Spaccanapoli si è fatto come a Roma Panico
e dintorni, o Trastevere, o il Pigneto: sloggiando i residenti – magari alloggiandoli
in abitazioni più morderne e confortevoli, ma in ambiente estraneo, ovviamente
periferico.
In contemporanea con Fofi sul “Sole 24
Ore”, “Le Monde” fa anch’esso colpa alla città di essersi “gentrificata”, di
non essere più sporca e cattiva ma tutta bed
and breakfast, sulla via di diventare un’altra Barcellona, un hot spot per turisti. Si stava meglio
quando si stava peggio?
O, con un detto calabrese: falla come
vuoi, sempre è cocuzza – non si sfugge al “destino”?
Voltaire non dà molto tempo a san Gennaro: “Quando la ragione arriva, i miracoli se ne vanno”. Tanto più che non porta prosperità - nessuno, né nobili né borghesi né popolani, ci guadagna niente. Mentre si sa che “Dio non fa miracoli a data fissa, e che non cambia le leggi che ha imposto alla natura”. Ma lo diceva, “Conformez-vous au temps”, verso il 1765, duecentocinquant’anni fa. Poi si dice che Napoli manca di resilience.
Ha l’onore di essere elevata tra le capitali mondiali dei ladri (vory in russo) da Le Carré nelle memorie, “Tiro al piccione”, §18 – insieme con Varsavia, Madrid, Berlino, Roma, Londra e New York.
“Città andalusa sperduta in
Italia” la definisce Elisa Chimenti, la scrittrice-imprenditrice scolastica a
Tangeri in Marocco, napoletana di origine, emigrata in Marocco col padre medico
all’inizio del Novecento, nell’opera inedita “Miettes”, briciole (Chimenti, che
si sentiva molto napoletana, scriveva in francese, lingua franca di Tangeri), assicura la sua biografa per
l’“Enciclopedia delle donne”, Maria Pia Tolentino, che ne cura le carte.
Avellino ha una novità, un
assessore al brand. È Barbara Politi,
giornalista e conduttrice tv in Puglia, dove vive, premio Ischia per il giornalismo
enogastronomico: assessore alla Promozione del brand Avellino. Un Sud 5.0, avendo saltato le precedenti tappe? La
fantasia non difetta.
“Nella sola provincia partenopea ci sono più beneficiari
di Lomardia Piemonte e Veneto, messe assieme”. Nella Campania più beneficiari
di Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna Liguria. Battere il Nord non è
difficile se ci riesce Napoli da sola - la “città metropolitana” certo. Il
beneficio è del reddito di cittadinanza. Poi si dice che a Napoli non sono
bravi cittadini.
La ministra Calderone può dire: “In Campania, regione
col più alto numero di percettori del Reddito di Cittadinanza, sono stati censiti
108 mila posti di lavoro disponibili”. Il redattore che ne raccoglie le
dichiarazioni specifica tra parentesi: “circa 25 mila percettori”. Ma è saltato un
5: sono, erano, 255 mila.
Il paradosso, per così dire, era materia di più
inchieste del “Sole 24 Ore” trent’anni fa, e forse anche quaranta: che a Napoli
capeggiavano la classifica dei disoccupati (allora c’era un punteggio, una graduatoria per anzianità, e ai primi veniva segnalato il maggior numero di offerte) sempre
gli stessi nomi. Disoccupati di mestiere - i “disoccupati organizzati” di cui
non si rise, anzi il Pci se ne fece una forza.
Fa sempre senso, ancora a
quarant’anni di distanza, ripubblicandosi le lettere di Tortora dal carcere, leggere
che tutti i giudici che lo perseguitarono, in Procura e nei Tribunali, fecero
carriera. Il presidente del Tribunale di primo giudizio, di cui si tace il nome
tale è l’infamia, si produsse in uno sfottente: “Tanto perché non dicano che non
do spazio alla difesa”. Questa strafottenza è “molto napoletana”.
Fecero tutti carriera, i
perscutori di Tortora. Uno dei procuratori fu pure eletto al Csm, senza
vergogna. Lo stesso avverrà nel 2006 con Calciopoli, il processo alla Juventus, tutto napoletano, inquirenti,
Carabinieri compresi, giudicanti, e giornalisti accusayori. Invece il giudice
che in Appello assolse Tortora, Michele Morello, venne isolato nel palazzo di
Giustiza napoletano.
Anche questo è “molto napoletano”,
il giudice onesto, e il boicottaggio. Qualche anno dopo ci sarà la serrata dei
Procuratori contro un capo della Procura, Cordova, un calabrese, che pretendeva
che lavorassero, ogni giorno – che aprissero qualcuna dei due milioni di pratiche
arretrate.
leuzzi@antiit.eu
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