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Le pene dello sradicamento, con humour
“Ai genitori e alla sorella”,
all’India in realtà, la raccolta di racconti è dedicata. Nel tentativo di
“capire ciò che non afferravo”, spiega l’autrice a Missiroli nell’intervista
che introduce la riedizione: “I miei genitori soprattutto. Mi amavano molto, mi
proteggevano, ma io ero già divisa e ricordo di essermi sentita straniera anche
con loro”. Una differeza, o scissione, che non è così semplice come sembra –
uno emigra e per qualche tempo si trova a disagio, non di qua e non di là: “È
un dolore importante che provo a elaborare qui e in tutti i miei libri. Fa
parte del mio malanno, e della sua cura”. Ma è una celebrazione in realtà dell’India
trasvolata, al di qua degli oceani: dei belletti, i colori, le capigliature
forti, i sari, dell’inanità delle mogli, che hanno pure cura di sé ma si spendono
a occhi chiusi nelle faccende domestiche. Specialmente della miriade di cibi di
quella formidabile cucina: si preparano, si cucinano, si mangiano e si
sgranocchiano a ogni pagina.
Una scrittura, senza eccessi, divertita in realtà, e divertente. Il tratto è crepuscolare –
di quella remota stagione minimal anticipata
di mezzo secolo che l’Italia gha avuto nel dopoguerra, con Marino Moretti e
pochi altri.
Dieci racconti di un mondo
che è stato il suo, dell’autrice, ma lei non ha “vissuto”, se non a distanza –
è il ragazzo, Eliot, lasciato alle cure dopo la scuola della laboriosissima, attentissima
e impratica signora Sen che si è proposta a baby
sitter. Cosmopolita per definizione ma più per bisogno, poiché senza radici. Di famiglia indiana, ma di nascita e di forma mentis, nonché inguaribilmente
nostalgica (i genitori, i nonni, le sorelle, i fratelli, i nipoti, le feste…), di
fatto trapiantata. Nata e cresciuta in Inghilterra, universitaria e scrittrice
americana, da una dozzina d’anni romana, scrittrice italiana. La scrittrice della
differenza come mancanza, come smarrimento. Racconti del “tipo” indiano, visto
in filigrana, sul reagente americano. Non specialmente caratterizzato questo,
solo quotidiano, “normale”.
L’interprete dei malanni,
il signor Kapasi, lavora come guida turistica (“vado in gita”) il venerdì e il
sabato, i giorni della settimana lavora presso uno studio medico. Fa
l’interprete del medico, che “ha molti pazienti del Gujarat” ma non capisce il
gujarati, che invece il signor Kapasi padroneggia, perché suo padre “era del
Gujarat”. Nel racconto guida al Tempio del Sole a Konarak una coppia di
americani con tre figli, che gli sembrano indiani ma non hanno e non sanno nulla
dell’India, loro si limitano a venire ogni due anni a trovare i genitori che
sono tornati in India con la pensione.
È di questa identità
gregaria che l’autrice si è voluta liberare, scegliendo una ligua e un mondo
terzi, l’italiano a Roma, una cultura classica? Qualche autoanalisi è in grado
di produrre nell’intervista con Missiroli.
Jhumpa Lahiri, L’interprete dei malanni, “Corriere
della sera”, pp. XIV + 225 € 8,90
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