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MIchelangelo femminista, Michela meno
Ripubblichiamo la recensione di uno dei libri più importanti di Michela Murgia, del 20 maggio 2011
Michelangelo, bambino senza madre (e senza padre), fu sempre femminista, affettuoso, giocoso, malinconico, appassionato, didascalico perfino e programmatico. La Madonna è soggetto privilegiato d’altra parte nelle lettere e le arti: “De Maria nunquam satis”, secondo il motto di san luigi Maria Grignion de Montfort. E la cosa vale pure per Stefano De Fiores, conterraneo di Corrado Alvaro (al quale ha dedicato numerosi e importanti scritti, soprattutto per i rapporti familiari), sacerdote, mariologo, professore al Marianum di Roma, un bambino che invece è cresciuto con la madre, orfano di padre a cinque anni. Autore di una vasta serie di studi mariani, rielabora qui i suoi lavori precedenti in connessione con Michelangelo: la rilettura della figura di Maria nel “Giudizio universale” del 1993, e nel 2007 la lettura femminista che Michelangelo fa nel giudizio della genealogia del Cristo. Ma il personaggio non è più popolare, in una con la verginità, e anche con la maternità - che si vuole responsabile ma di più è rifiutata.
Questa sparizione è una delle chiavi della modernità, tanto più dopo il lungo pontificato di Giovanni Paolo II, acceso e forte marianista. che per tanti altri aspetti è beatificato e rimane vivo nella memoria. Ma non viene indagato, non in questa chiave, nemmeno da Michela Murgia.
Anche la sue “apparizioni” ne testimoniano la scomparsa. La misura si rileva al confronto con la tradizione. Maria è stata il soggetto prediletto delle arti nell’umanesimo e il rinascimento, figurazione costante di tutti i pittori di tutte le scuole. Nonché della poesia: circa 1.200 inni in latino censisce De Fiores, sui tempi del parto e del pianto della Vergine. Al punto da rovesciare da sola la lettura ancora canonica del Rinascimento, quella di Burckhardt, che ci vede un rovesciamento del medio Evo e un ritorno al paganesimo, o una prefigurazione del laicismo e quasi dell’ateismo. Maria come “la donna creatrice di vita e custode della morte” (Charles de Tolnay), e nell’Annunciazione la bellezza vergine. Una devozione che è speciale, e non lo è: la dignità femminile era all’opera nel secondo Quattrocento e nel primo Cinquecento. De Fiores conta altrettante “Dignità” e “Eccellenze” delle donne quante se ne scrivevano di queste pubblicazioni alla moda, per gli uomini. Michelangelo è specialmente devoto, che il cardinale Ravasi dice “cantore costante e appassionato di Maria”. Dalle prime sue prove di scultore, e in tutta la storia umana, come egli la concepisce: “Nella Creazione di Adamo”, nota De Fiores, “Dio è accompagnato da una figura femminile, archetipo della donna immacolata che sarà Maria”. La genealogia di Cristo nella Cappella Sistina sarà maschile come, e con più intensità, femminile. De Fiores censisce undici rappresentazioni michelangiolesche della Madonna, in due tele e nove sculture (e in innumerevoli disegni, alcuni passati ad amici perché li trasponessero in dipinti su tela: Sebastiano Del piombo, Pontormo, Daniele da Volterra, Ascanio Condivi), tutte qui sontuosamente riprodotte, anche nei particolari. La prima fu, a quindici anni, la sua prima opera riconosciuta, lo stiacciato della Madonna della Scala, il tipo iconografico della Galaktotrofusa, la Madonna che allatta – soggetto del primo affresco cristiano, del II secolo, nelle catacombe di Priscilla a Roma. De Fiores le commenta tutte, con un avvertimento preliminare: “Michelangelo si stacca dalla tradizione medievale della Salve, Regina, per avvicinare Maria alla condizione umana”, la Madonna che allatta, che gioca, che piange. Sarà, il soggetto vero di Michelangelo, “l’unione infrangibile” tra il Figlio e la Madre. E dunque il mistero che non è mistero della maternità, il principio della creazione. Su questa traccia, la “interpretazione al femminile degli antenati nelle volte della Cappella Sistina”, saggio centrale del libro, è la novità maggiore. Il procedimento è semplice: raffrontare la genealogia di Matteo (1,1-17) con le figure di Michelangelo:”Mentre il primo evangelista offre una lista tutta basata su quaranta uomini di cui uno genera l’altro (recensisce solo cinque donne, Tamar, Racab, Rut, Betsabea,cui aggiunge Maria Madre di Gesù), con meraviglia si osserva che Michelangelo nelle lunette e nelle vele dell’ampia volta della Sistina aggiunge sempre una donna in qualità di madre o di sposa”. Un secondo studio affronta la sorprendente figurazione di Maria accanto al Cristo giudice, nel “Giudizio Universale”. Il primo progetto del “Giudizio” vedeva Maria interceditrice. In quello realizzato dopo qualche anno, invece, Maria sta accanto al Cristo giudice in raccoglimento, “secondo il modello della Venere rannicchiata e piuttosto passiva”. Per capire perché De Fiores parte da lontano. Dalla religiosità accentuata di Michelangelo nell’età matura. Insieme con Vasari fecero la visita giubilare delle sette chiese nell’anno santo del 1550, discutendo di arte tra una chiesa e l’altra. E dal rapporto specialissimo con Vittoria Colonna, la marchesa di Pescara. Donna appassionata, si può dire, della fede. Nell’ambito della “chiesa di Viterbo”. Della speciale religiosità coltivata dal cardinale inglese Reginald Pole a Viterbo, devozionale e teologica. E della predicazione di Bernardino Ochino, che molto ridimensiona Maria nella redenzione. “Un filo comune lega Bernardino Ochino, Vittoria Colonna e Michelangelo”, scrive De Fiores: “La convergenza nel proclamare la salvezza nel sacrifico di Cristo, i cui frutti sono attingibili solo mediante la fede”. Un filo non luterano, come voleva l’Aretino per invidia, ma ben dentro “l’area riformista cattolica”, attraverso Vittoria Colonna, sicura mediatrice, buona cattolica cioè (si veda qui il “Pianto della marchesa di Pescara sopra la Passione di Christo”). E seguendo forse il suggerimento del Verolano, il latinista maestro di Alessandro Farnese, papa Paolo III, il secondo definitivo committente di Michelangelo. Due disegni di Michelangelo per la marchesa attestano questa variazione dei ruoli, la “Pietà” e il “Crocifisso”. Nel secondo la novità è anche scritta, con la citazione del verso di Dante: “Non vi si pensa quanto sangue costa”. Maria così passa “nello stesso alone luminoso di Cristo, mentre prima (Michelangelo) la poneva supplicante dinnanzi a lui”, passando “da interceditrice a muta spettatrice”. Bizzarramente, si può aggiungere, poiché il colmo di fede va da un più a un meno: l’immagine (il ruolo) di Maria cambia, si ridimensiona, per la scoperta del “Christo, dolce, soave et tanto buono” di Bernardino Ochino, mediato da Vittoria Colonna. “Dall’opposizione tra una Maria misericordiosa e un Dio irato” del primo progetto, conclude De Fiores, “che rischiava di fare di lei una sostituta dell’amore divino misericordioso che salva, qui si transita verso una cristologia che mette in primo piano il Salvatore del mondo nella sua infinita misericordia e giustizia, e Maria come la prima salvata”.
Ci sono limiti insomma al ruolo universale, femminista, di Maria: il sacrificio di Cristo alla fine è inattingibile, se non mediante la fede. Su questa impossibilità interviene Michela Murgia. Non scoppiettante come all’esordio, “Il mondo deve sapere”, sulle pene al call center, la nuova umanità. Ma brillante: il Dio che ha rovesciato i potenti e innalzato gli umili sceglie di fare di “una ragazza la massima complice della salvezza del mondo”. Maria è l’interlocutrice diretta dell’angelo, cioè di Dio. Quando la chiamata viene, è lei che chiede, accetta, fa: non c’è patriarcato. Nei vangeli è sempre determinata – caso unico, poiché tutti vi sono comprimari di Cristo.
Ma poi si sperde, Michela: la chiesa fa di Maria una vittima, al meglio, senza carattere, eccetera. La chiesa è sempre quella, insegna sempre la gerarchia tra i sessi. Anche Woytiła, il papa marianista, con la scusa della diversità, tema caro pure al femminismo. Anche Michelangelo: nella sua famosa “Pietà” a San Pietro è una ragazza, il figlio morto sembra suo padre. E qui uno si è già perso.
Michela Murgia esercita su Maria la sua irriverenza. Ne siamo capaci tutti, lei forse con più grazia. Ma la fede? Che se ne ricava oltre la bieca pratica femminista? Scherzo per scherzo, la donna è sempre inferiore al suo destino (al suo ruolo?) – come l’uomo del resto, il maschio. Un concetto meritava forse più sviluppo, su cui Michela Murgia s’intrattiene nella presentazione del libro più che nel libro: il ruolo della donna accudente. “Maria è l’archetipo della donna intesa come colei che cura, la cui vita trova il suo senso solo nel servizio dell’altro, vestale multitasking”, come ha detto a Marina Terragni. Esemplificando con se stessa: “Io sono una donna accudente”, che però non accetterebbe mai di doverlo essere. È un ruolo in espansione, con la crescita della popolazione anziana, e proibitivo più che mai, obbligato o volontario che sia. Ha cominciato a rifletterci Martha Nussbaum qualche anno fa (“Giustizia sociale e dignità umana”), ma c’è poco di nuovo, su questo il femminismo è in ritardo - perché non è più una cosa viva?
Stefano De Fiores, La Madonna in Michelangelo, Libreria Editrice Vaticana, pp.239 con nn.tavole, € 24
Michela Murgia, Ave Mary, Einaudi, pp. 170, € 16
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