martedì 5 settembre 2023

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (536)

Giuseppe Leuzzi


È originato al Sud il deficit demografico dell’Italia, sancito dall’Istat da un paio d’anni (i morti sono più dei nuovi residenti) – di fatto già previsto a metà degli anni 1995 in base ai tassi di fertilità. Lo certifica la scomposizione dei dati Istat da parte della Cgia di Mestre, che ha ricostruito regione per regione il calo delle nascite, e quindi della popolazione attiva.
Il numero dei giovani “nuovi attivi”, tra i 15 e i 34 anni, è diminuito di poco meno di un milione negli ultimi dieci anni. In termini nazionali il calo è stato del 7 per cento. Ma è determianto dal Mezzogiono. In Sardegna il calo è stato del 19,9 per cento. In Caabria del 19. In Molise del 17,5. In Basiicata del 16,8. In Sicilia del 15,3.
 
Il “pizzo nasce al Sud con i briganti. Si paga e si tace”, nota il medico svizzero Horace Rilliet, in Calabria nel 1851 con una spedizione militare (un giro delle province) del re Ferdinando II: “Tutti vi trovano il propio utile; appena paga il cittadino non è più molestato; il brigante ha il suo denaro; le guardie non devono più sostenere combattimenti pericolosi; ecco un felice accordo”.
 
A Reggio Calabria un imprenditore si arrampica sulle gru per protestare contro la confisca del suo patrimonio, 20 milioni. È stato processato per mafia due volte (ma con lo stesso Procuratore Capo, poi da Reggio passato alla Direzione Nazionale Antimafie ora deputato grilino, il nobile partenopeo Cafiero de Raho), e due volte assolto, ma intanto i beni gli sono stati confiscati. È stato riecvuto dal nuovo Procuratore Capo Bombardieri, ma pare che non ci sia rimedio. Sembra assurdo, e lo è.
Se c’è qualcosa di preciso nell’inafferrabile “onnimafia”, peraltro, questo è la gestione dei beni confiscati. Da ogni piunto di vista – eccetto quello legale, naturalmente, “manzoniano”. In questo senso la mafia è potere.
 
Vincenzo Linarello dice una cosa giusta e una sbagliata al “Corriere della Sera”, dove può celebrare il successo di Goël, il consorzio cooperativo che presiede, nato vent’anni fa su iniziativa del vescovo di Locri Bregantini, attivo in molti settori, con un giro d’affari di 10 milioni. Dice che intimidazioni, attentati e minacce, “anche molto pesanti”, si ebbero nei primi tempi, poi “si sono stancati”. Ma aggiunge che  “il nemico è strutturato”. No, la mafia non è un’entità, non imprendibile: sono mafia i mafiosi. Prepotenti, balordi per lo più, che ci provano. Di più ci hanno provato quando mons. Bregantini fu allontanato da Locri. Ma questo fu dovuto alla massoneria di Locri-Reggio, e ai Carabinieri.
 
Sudismi\sadismi
Cemento illegale, inquinamento delle acque e dell’aria, depurazione assente o malgestita, pesca di frodo: Legambiente mette il Sud nel mirino. Dei 19.530 reati ambientali acccrtati dalle Capitanerie di porto nel 2022 lungo le coste, la metà (il 48,7 per cento) è imputata a quattro regioni del Sud: Campania, con 3.345 reati, il 17,1 per cento del totale nazionale, la Puglia con 2.492 reati, la Sicilia con 2.184, e la Calabria con 1.490.
Poi però uno va al mare in Toscana o in Romagna e trova che le discoteche sì, funzionano, e forse sono anche a norma con i regolamenti comunali, ma il mare è sporco, i torrenti sporchissimi, la cirolazione da ora di punta.
Legambiente dice che i reati ambientali sono tipici delle regioni a “tradizionale presenza mafiosa”, e cosa dobiamo pensarne? Che le mafie in Toscana e Romagna ci sono ma sono più furbe? 
O il problema sono le Capitanerie di Porto, che anche loro danno la caccia ai mafiosi con i reati ambientali.
 
La questione pastorale
Nel viaggio alla scoperta della Calabria nel 1933, per lo più a piedi, col compagno Norman Douglas, che quella scoperta aveva fatto famosamente (“OId Calabria”) vent’anni prima, e con due amici inglesi, l’editore e libraio antiquario fiorentino Giuseppe “Pino” Orioli fa la conoscenza di due pastorelli,  “due fratelli, uno di dodici e l’altro di quindici anni”. E li ricorda con dolcezza, commiserandoli per l’isolamento e le ristrettezze: “Vivevano lì sopra”, al freddo di mezza montagna, “trascorrendo le notti in una piccola baracca costruita con rami… La loro paga era di cento lire l’anno più il vitto, che consisteva in pane e formaggio nei giorni feriali e un piatto di maccheroni la domenica. Durante l’inverno scendono nei bassipiani con il loro gregge”. E ha già concluso, al solo vederli: “Questi pastori sono gli aborigeni della Calabria”.
Una “apparizione” omoerotica perfino imbarazzante, ma indicativa di una economia, del territorio e delle persone , che è stata sempre troncata e repressa. Ed è all’origine di molti dei lutti in Calabria, rapimenti (di animali e persone), faide, vendette. E incendi, dei nemici e d’estate, di boschi e foreste, con mente lieve, tanto l’erba crescerà più verde.
Troppi incendi, più che nel resto d’Italia, in Sicilia e in Calabria. Colpa del caldo, si diceva una volta. Quest’anno però non può essere vero, perché ha fatto molto più caldo a Roma, Firenze, Bologna, insomma sull’Appenino centrale. Mentre si sono scoperti piromani insospettabili. Pochi, un paio, ma di un solo genere, pastori.
Un mondo da sempre socialmente ostracizzato. Dai Cabinieri naturalmente senza eccezione, che un pastore beneducato (non entra nelle proprietà altrui) hanno voluto mafioso solo perché bracconava ghiri – specie protetta e quindi da proteggere, ma sempre ghiri. Detti “zangrei”, cafoni, villani, per dire gente rustica. E estranei, solitari. Ai margini o fuori dai paesi.
Aborigeni come primi abitanti? No, come lasciati da parte. I pastori dell’Aspromonte non solo ma della Calabria tutta, si può dire, sono sempre quelli di Corrado Alvaro, un secolo e mezzo fa, o quasi. Lasciati da parte anche dalla politica agricola europea, che paga tutto a tutti. O dall’Italia repubblicana, che si vuole provvida. Nessuna facilitazione di mercato, per le carni, per il latte (ovino, caprino), per i formaggi, che un tempo non remoto, prima della guerra, erano numerosi e pregiati, caciocavallo, pecorino, provolone, il burrino o butirro.
(continua)

 
Il dialetto è particolare
Una rubrica giornalistica tenuta in dialetto, sul “Quotidiano del Sud” da Bruno Tassone, non persuade. Non è brillante - non è informativa, non è curiosa, non è pettegola. Non significa. Perché è il dialetto di Crotone (lo è?), che già  a Catanzaro non dice niente.
Il dialetto è una forma di comunicazione etnica. Clanica, quasi familiare, di parentela. È un patrimonio “nascosto”, non dichiarato – classificato, regolato. Vocale e non scritto, non grammaticale, benché di sintassi obbligata – al punto da darsi connaturata alla fraseologia, non adattabile, non astrabile. O meglio di semantica spontanea, formata per ascolto come il linguaggio dei bambini, ottenuta o consolidata con la pratica, e cirscritta al proprio paese. Già al paese vicino suona diverso: la stessa fraseologia, la stessa cinconlocuazione, gli stessi suoni, delle vocali, delle consonanti, delle sibilanti, delle sorde.
 
Costruire per il futuro in un mondo senza futuro
Una mostra di qualche anno fa a Reggio Calabria, sotto il titolo “Metamorfosi”, sul “non finito calabrese” si giovava delle fotografie di Angelo Maggio. Per “non finito calabrese” s’intendono le abitazioni di cemento armato a nudo, senza tetto, con pareti di mattoni forati senza intonaco, aperture senza infissi, solai di cemento nudi, pilastri di fasci di tondini di ferro protessi in solitario verso l’alto. Maggio, un dipendente delle Ferrovie con l’hobby delle foto di scheletri di cemento, un hobby che pratica da quasi trent’anni, ne parla come di “cemento amato”. Si pensa ironicamente, per deridere, e invece al fondo, con sua stessa sorpresa, quasi approvando, cercandovi ragioni positive.
Tutto è iniziato a San Luca, racconta: “Nel 2004, durante la Settimana Santa, ho fotografato una statua del Cristo Risorto davanti a un fabbricato non finito. Con mia brande sorpresa quella foto piacque moltissimo”, arrivarono apprezzamenti e richieste di copie.
Maggio parte da una premessa che anch’essa dà da pensare, del non finito siciliano, che è quello degli appalti a catena, sullo stesso progetto: “A differenza del non finito siciliano, quello calabrese è relativo ai fabbricati privati, favorito da regolamenti comunali elastici”. Ottimo, anche questo è da pensarci, i regolamenti comunali inapplicati: nei paesi è sempre una sorta di abusivismo di necessità, anche quando l'edificio è faraonico - tutti siamo poveri, al Sud. Ma continua col già noto: “Quante famiglie, quanti genitori, hanno costruito case o piani nuovi su quella esistente. Nella speranza di vedere i figli vicino a loro?” Una considerazione rituale, che cozza contro l’evidenza: i figli “non ci sono più”, ormai da più generazioni. Per il calo demografico. Quindi figli che più spesso non ci sono, non sono (ancora) nati. In una regione che comunque si spopola secondo tutti i punti di vista, dei bisogni e delle aspirazioni oltre che demografico – dati e studi convergono sullo spopolamento.
Questi edifici, per lo più enormi, non finiti sono, erano, monumenti alla speranza? Sono segni di continuità, pervicace, questo sì. Sono desideri, bisogni, di crescita, di sviluppo. Sono monumenti all’emigrazione, non obbligata ma forzata. Non manca chi sostiene che “il non finito esprime un atto rivolto al cielo, un’estensione dello spazio privato e una sospensione del tempo”. Quello che si vede, frequentando i paesi, è un mondo in fuga. Un mondo che si scopre, o si vuole, antico greco, della Grecia cioè che non coniugava il futuro.
Si spiega l’incompiuto come una rivoluzione a metà?  Sisifo sempre a metà della salita? Ma no, è la banca gorgone che si risucchia una vita produttiva, col mutuo innocente, e quanto benevolo. Ma è anche un difetto di calcolo, o previdenza. Non ci vuole molto a capire, basta farsi i conti, che il mutuo della banca, se non copre tutta la costruzione subito, la lascerà incompiuta a vita – a più vite o generazioni, considerando l’inevitabile disinteresse dei figli o eredi. Si parte felici col mutuo, che è sempre tanti soldi, chi li immaginava?, si finiscono i soldi col primo piano, quando il mutuo bisogna cominciare a ripagarlo, e per venti o trent’anni la vita si ferma, c’è solo da sgobbare per ripagare la banca.
Si direbbe il non finito calabrese un monumento alla banca, generosa (le banche lo proponevano a gara, fino al covid, con i tassi a zero, per lucrare sulle “spese”) ma improduttiva. Ma anche all’imprevidenza – all’incapacità di fare una semplice addizione.
Il non-finito è il monumento di una incultura economica elementare. Che fa il paio con l’altra, dei tanti che preferiscono fare le pulizie, o fare l’insegnante, a Bergamo, dove la retribuzione non basta, invece che a casa, e la periferia di Milano a quella di Bari, o Molfetta, o Reggio Calabria, che però hanno la vista mare. E dove, per quanto poveri, sarebbero invece ricchi.
In questo caso si potrebbe pensare che sono casi di un orizzonte di vita che al Nord appare aperto, seppure povero, e al Sud chiuso, seppure (relativamente) ricco. Lo è. Ma all’insaputa dei beneficiari o vittime, che non sanno che vita migliore potrebbero fare a casa.
Ma, poi, non è tutto. Le case senza tetto, i muri senza intonaco, le aperture senza infissi, i balconi senza ringhiera, su tre piani perlomeno, non sono per i figli. La casa deve essere un palazzo. Si vuole riprodurre, col nuovo censo, il notabilato di un secolo fa, il più povero, il più snob.
 
Cronache della differenza: Aspromonte
“Piante Macrì”, il maggiore vivaio di Gioia Tauro e forse del reggino, complementato da un salone enorme di oggettistica per la casa legata alle piante, ai fiori, alle stagioni (a settembre comincia già il pre-Natale, come in tutte le città austriache e tedesche), espone all’ingresso statue di Padre Pio e della Madonna, di varia dimensione, da interno o da tavolo, e da giardino, fino a un metro a sessanta-settanta a occhio. Ai piedi della Montagna. La Montagna è molto religiosa.
 
Si può sentire il picchio, tanto si è soli. Si fa un’escursione sull’Aspromonte sicuri di essere soli sui sentieri, non c’è ingombro. S’incontrano ragazzi dove ci sono cascatelle, per il rito di tuffarsi e rituffarsi.
 
C’è campo. Ovunque, anche nei forri. Non c’è in Sabina spesso, nell’Alto Lazio. O nelle Apuane. 
Anche in Versilia, non c’è campo in molte spiagge.


Anche i sentieri sono ben tracciati nel Parco. Ma non si fa sapere, poiché nessuno li usa.


Il sig. Giovanni, che alle falde della Montagna tiene un caffè rinomato, dividendo un cornetto per due è esilarato dal “piattino di condivisione “: “Lo fanno pagare due euro”. Non sa che si paga anche il cucchiaiono di condivisione, per esempio quello di plastica da gelato: un euro e mezzo.
 
Ma a Polsi no, anche lì si paga, i santolucoti gestisono l’area del santuario senza sconti. Non lo chiamano condivisione ma “sconzu”, il disturbo. Se vi sedete su una panca per bere la loro aranciata.
Certo, San Luca non si può dire Milano. Ma è vero che il commercio vuole grettezza.
 
A memoria d’uomo si aveva nozione di toponimi per ogni piega del terreno, ogni curva del sentiero o della strada, ogni ansa dei torrenti. Oggi, al più, soccorre l’Igm, con le vecchie carte al 25.000: solo quelli sono sopravvissuti.
È il fenomeno più generale della perdita della memora. Ma in Montagna, in ambiente aperto, senza “falsi scopi” o manufatti di riferimento, è una perdita, anche grave.
 
C’erano d’inverno i pastori in campagna con le greggi, per la transumanza, per svernare. Non noti, se non per mugolii, di un linguaggio non nostro, non del  nostro versante. Forse anche loro di San Luca o Natile – svernavano in una campagna che era appartenuta fino a poco prima a un barone Stranges di San Luca. I versanti sono stati a lungo ignoti, e avversi, per secoli, tra Tirreno e Jonio.
Ma, se si può dire, la storia l’hanno vinta loro, i pastori hanno più determinazione. Nella mentalità (asocialità), nei modi (muti, bruschi), nel fare (senza remissione, discussione, chiacchiere).
 
Non ha letteralmente più un frassino o un salice, che il viaggiatore svizzero Rilliet ci trovava nel 1852. E non ha abeti, che alimentavano tantissima falegnameria, ora scomparsa. Il frassino, di cui “queste valli sono ricoperte”, notava Rilliet, dava la manna. Attraverso una serie di incisioni orizzontali nei tronchi. Una manna “molto pura e molto apprezzata”.
La manna era demaniale, “concessa in locazione dallo Stato”. Ai contadini era “severamente proibito tagliare o danneggiare questi alberi, anche se di loro proprietà”.

leuzzi@antiit.eu

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